Epicuro e la Lettera a Meneceo PDF

Title Epicuro e la Lettera a Meneceo
Author Calogero Milioto
Course Storia Della Filosofia Antica
Institution Università Cattolica del Sacro Cuore
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Summary

Riassunto utile per il corso di Filosofia Antica...


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Epicuro e la Lettera a Meneceo

Introduzione La Lettera a Meneceo è senz’altro l’opera più celebre di Epicuro, perché contiene la parte più popolare del suo pensiero: l’etica. La ricerca del piacere come fonte di felicità da parte di Epicuro venne grandemente fraintesa e calunniata nell’antichità, in primis dai platonici e dai cristiani, e il filosofo venne spesso additato come un ateo, un eretico e un pensatore inneggiante agli istinti più bassi e volgari dell’uomo. Addirittura nel corso del Medioevo, l’aggettivo “epicureo” aveva assunto pienamente il significato dispregiativo di “ateo, eretico ed irreligioso”, tanto che Dante Alighieri nella sua Commedia taccia come epicurei Cavalcante dei Cavalcanti, Federico II e Farinata Degli Uberti, tutti e tre collocati dallo scrittore fiorentino nel girone degli eretici. Soltanto nel corso del Rinascimento la figura di Epicuro venne rivalutata ad opera dell’abate Pierre Gassendi, che propose un punto di incontro tra l’etica cristiana e quella epicurea ponendo il pensatore greco come maestro di vita e di morale. Ma nonostante la ricezione travagliata che ebbe questo testo nel corso dei secoli, leggendo le considerazioni sul piacere e sulla felicità in esso trascritte appare difficile rendersi conto da dove siano potute nascere tante invettive e incomprensioni sull’etica proposta da Epicuro. In questa lettera infatti il filosofo greco esorta alla filosofia sia il giovane che l’anziano, ponendo la riflessione su quei princìpi che stanno alla base del conseguimento della serenità d’animo: princìpi presentati nel tetrafarmaco (o quadruplice rimedio). Ovvero i quattro ingredienti della medicina che libera l’animo dell’uomo dai dolori che lo affliggono e dai pregiudizi che non gli permettono da acquisire la propria serenità interiore: la paura degli dèi e della vita dopo la morte, la paura della morte, la mancanza del piacere e il dolore fisico.

Il tetrafarmaco

 Paura deli dèi e della vita dopo la morte Il primo degli ostacoli alla serenità che Epicuro tratta nella sua lettera è la paura degli dèi e il rapporto che intercorre fra essi e il male. Decide di affrontare l’argomento per gradi, formulando delle possibili soluzioni e valutandone l’efficacia. Ammettiamo, ad esempio, che gli dèi non vogliano il male, ma al contempo essi non possano nulla per evitarlo: ciò non è affatto possibile perché gli dèi risulterebbe così sì buoni, ma impotenti. Ammettiamo che gli dèi allora possano evitare il male, ma semplicemente non desiderano farlo. Anche in questo caso, ciò non è possibile: gli dèi risulterebbero sì capaci di evitare il male, ma cattivi. Né sarebbe possibile ammettere che gli dèi né vogliano né possano evitare il male, poiché in tal caso sarebbero sia cattivi sia impotenti. Va da sé allora che gli dèi possano e vogliano evitare il male; ma poiché il male esiste allora è chiaro che gli dèi non si interessino affatto delle cose umane. Questa è la conclusione cui giunge Epicuro: gli dèi esistono ma non si interessano affatto di noi. Ma se davvero gli dei vivono racchiusi nella loro perfezione senza interessarsi dell’uomo, che senso avrebbe da parte nostra aver paura di essi? O temere che dopo la morte essi possano impartirci premi o castighi in base alla nostra condotta? Tale paura nasce da un pregiudizio, la cui terapia consiste nel comprendere la reale natura degli dèi abbandonandone la visione comune. Come afferma Epicuro: «Empio non è chi non riconosce gli dèi del volgo, ma chi agli dèi applica le opinioni del volgo»

 Paura della morte Nonostante nessuno possa immaginare la morte, darle dei contorni ben definiti, essa è comprensibilmente una diffusa fonte di timore. Basterebbe pensare all’impossibilità di una corretta definizione di essa per rendere illogica ogni paura: come si può temere qualcosa di cui non si sa nulla? Pensiamo a Socrate, che di fronte alla scelta tra l’esilio dalla sua terra e la condanna a morte, prontamente sceglie la seconda: perché è certo

della sofferenza che gli causerebbe l’abbandonare la sua città, ma non è certo se ci sia sofferenza nella morte. Epicuro, d’altro canto, afferma che la morte per noi è nulla. Ogni bene e ogni male derivano dalle nostre sensazioni, ma essendo la morte privazione di quest’ultime non è affatto saggio temerla perché da essa non può scaturire alcuna sofferenza: quando ci siamo noi ella non c’è, quando ella arriva noi non ci siamo più. Essa non è dunque nulla tanto per i vivi quanto per i morti. Per i vivi perché non c’è ancora, per i morti perché essi non sono più. Un altro modo per dimostrare l’insensatezza della paura della morte è mostrare la differenza tra la nostra percezione del futuro e quella del passato. Normalmente, siamo spinti a preoccuparci per il primo e mai per il secondo. Eppure, se riflettiamo sul periodo antecedente alla nostra nascita, ci rendiamo conto che per tutti i millenni in cui non siamo esistiti non abbiamo provato alcuna preoccupazione. In fin dei conti perché e come avremmo dovuto, se non eravamo ancora? Non è dunque comportamento dell’uomo saggio temere della sua non-esistenza dopo la morte, perché essa per noi è nulla.  La mancanza del piacere Epicuro afferma che il sommo bene sia il piacere (ἡδονή), ma per comprendere meglio la natura di tale piacere egli ne distingue due differenti categorie: il piacere catastematico e il piacere cinetico. Il piacere cinetico è un piacere sensibile e passeggero, che durando un solo istante subito abbandona l’uomo lasciandolo insoddisfatto e infelice. In aperta polemica coi Cirenaici Epicuro dà una valenza fortemente negativa a questa categoria di piacere, e pone sopra di esso il piacere catastematico. Per i Cirenaici, che identificavano il piacere come un movimento dolce e il dolore come un movimento lento, esso era lo stadio di quiete intermedio, cioè l’assenza di dolore e al contempo l’assenza di piacere. Per essi tale stato assomigliava più ad una condizione di insensibilità, simile a quella del dormiente, che ad una condizione di piacere. Epicuro, invece, ammette non solo questo stato come piacere ma lo pone in risalto rispetto al piacere cinetico, affermando che a differenza

di quest’ultimo esso è supremo e duraturo in quanto espressione dell’assenza di dolore (ἀπονία) e dell’imperturbabilità (ἀταραξία). Egli cataloga inoltre i bisogni, distinguendoli in: 1. Bisogni naturali e necessari, i quali soddisfano pienamente perché in quanto limitati possono essere colmati. 2. Bisogni naturali ma non necessari, come ad esempio bere vino per dissetarsi. Di certo la mia sete avrà fine ma sentirò il bisogno di continuare a bere vino o trovarne di più raffinati, lasciando così il mio bisogno parzialmente insoddisfatto. 3. Bisogni né naturali né necessari, come il desiderio di ricchezza: essi sono innaturali e non hanno limite, e quindi non possono venir soddisfatti.

Epicuro non indica quali siano i beni necessari e naturali per un uomo, poiché tale discernimento è lasciato alla ragione del singolo: egli dovrà decidere quali per lui sono i beni necessari ed essenziali. Posta dunque questa differenziazione dei piaceri, l’uomo saggio dovrà perseguire soltanto quelli che ritiene per sé essenziali e naturali, eliminando tutti gli altri. Da ciò segue che conseguendo soltanto i primi, allora i beni che ricercheremo saranno sempre limitati e facilmente raggiungibili. Dunque non dovremo più aver timore di trovarsi in mancanza di essi. Inoltre, poiché il piacere è assenza di dolore, l’uomo saggio dovrà valutare non soltanto il bene da perseguire nella sua singolarità, ma anche gli effetti che esso può esprimere nel corso del tempo. Seguendo dunque questo calcolo dei piaceri, un bene sarà preferibile ad un altro se anche nel lungo termine esso ci assicurerà benessere e serenità d’animo.

 Dolore fisico Ultimo dei turbamenti che il quadrifarmaco si pone di eliminare è il dolore fisico. Epicuro afferma che quando un dolore fisico è lieve, esso è sopportabile e dunque non può minare la serenità del nostro animo. Se il dolore è invece acuto, esso passerà presto e nel caso in cui continui a lungo col tempo esso non sarà più sentito. Nel caso in cui un dolore sia acutissimo, neanche in quel caso va temuto perché condurrà ben presto alla morte, ovvero all’assoluta insensibilità e quindi alla fine del dolore. Lo stesso Epicuro in vita sopportò molto problemi fisici, tra i quali dei calcoli renali che dopo quattordici giorni di malattia lo condussero alla morte (secondo quanto narrato da Ermarco, suo discepolo).

Il libero arbitrio e la vita divina Nella parte finale della Lettera a Meneceo, Epicuro critica aspramente la concezione di necessità di Leucippo e Democrito. Per Epicuro, il nostro arbitrio è libero, e proprio in virtù di ciò noi siamo degni di punizione quando sbagliamo e meritevoli di lode se ci comportiamo saggiamente. Egli continua affermando che “davvero sarebbe stato meglio credere ai miti sugli dèi che essere schiavi del fato dei fisici”. Questo perché mentre la volontà divina del mito è suscettibile ai sacrifici e dunque lascia all’uomo un margine di movimento e autonomia, il determinismo dei fisici non conosce alcuna forma di libertà o autodeterminazione dell’uomo. Epicuro fonda la validità di tale libertà umana nel clinamen, che nella fisica epicurea è la deviazione spontanea e casuale degli atomi nella loro caduta nel vuoto, deviazione che avviene sia nel tempo e nello spazio (a differenza della fisica democritea per la quale gli atomi si spostano unicamente in linea retta). Il clinamen viene introdotto proprio per evitare la necessità stringente che sta all’origine della fisica di Democrito, dando così una base alla concezione epicurea del libero arbitrio. Se infatti ciò non fosse vero, se l’uomo non fosse realmente libero nel suo agire, allora l’intero insegnamento morale epicureo perderebbe ogni valore: che senso avrebbe dare dei precetti di natura etica in una realtà in cui ogni nostra azione è già predeterminata?

Bibliografia

 Epicuro, Lettera sulla Felicità, BUR, 2013  G. Reale e D. Antiseri, Storia della filosofia Vol. II, Bompiani...


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