Esame storia della fotografia parte 2 PDF

Title Esame storia della fotografia parte 2
Course Storia della fotografia
Institution Università di Bologna
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L’astrattismo in versione fotografica DA STRAND A WESTON: SVILUPPI DI UN NEOPITTORIALISMO INCONSCIO Nel corso degli anni si è soliti celebrare per l’affiancamento dalla pittura e lo sviluppo di un’autentica autonomia di linguaggio, che larga parte della fotografia pone le basi di un pittoricismo ben più potente e subdolo, capace di condizionare fino ai giorni nostri gli esiti e le vicende. Subdolo perché mascherato sotto le apparente di un rinnovamento linguistico capace di far emergere la “specificità” fotografica, e potente perché in linea con alcune delle più avanzate tesi che le arti visive andavo elaborando tra gli anni venti e trenta. Dichiarare la pittoricità di un autore non significa ridimensionare il valore, ma solo esplicitarne na determina collocazione nello scontro dialettico che l’arte del Novecento propone tra pittoricità e extrapittoricità. Nell’interpretazione proposta dalla critica, il pittorialsimo storico è stato bollato con una etichetta di produzione fotografia “somigliante” alla pittura impressionista. L’errore quindi sta nel attribuire una categoria particolare (in questo caso l’Impressionismo) al concetto di pittorialismo. In questo modo si è portati a credere che il pittorialismo in fotografia sia un fenomeno storico limitato a un certo arco di tempo. Una linea temporale, stilistica, come se la fotografia possa essere definita pittorica solo quando imita l’Impressionismo e non altre scuole. Tutto questo discorso muove quindi un rifiuto metodologico. Il pittorialismo fotografico non è un fenomeno limitabile a un determinato periodo storico e a una particolare scuola. Il pittorialisimo si ripete ogni volta che la fotografia segue la logica complessiva della pittura, cioè i suoi caratteri generali e trasversali, evidentemente riferibili a più indirizzi stilistici e non solo all’Impressionismo. Lo scontro tra pittoricità ed extrapittoricità trova un corrispettivo metodologico nell’opposizione appena delineata, perché è evidente che l’idea di una specificità linguistica ben si adatta a sostenere la prospettiva dell’opera-cosa. La fotografia scivola senza accorgersene verso un identità pittorica, si pone saldamente nella logica del quadro e questa volta non per ingenua adozione di temi e stili, bensì per un assai pi complessa e coinvolgente adesione metodologica.

È attorno alla figura di Alfred Stieglitz (1864-1946), alla galleria e alla rivista da lui fondate, le celebri “291” e “Camera Work”, che nel secondo decennio del Novecento prende corpo in America una linea neopittorialista che risulterà decisiva nell’influenzare i destini di tutta la fotografia contemporanea. PAUL STRAND (1890-1976)

Lo slogan e l’obbiettivo principale di questi autori era la straight photography, dove l’aggettivo “diretta”, oltre a rappresentare l’intenzione di un rapporto fronte con il mondo in fase di ripresa, voleva soprattutto indicare, per l’autore, la necessità di star dentro alla fotografia, di sfruttarne senza devianze le autentiche possibilità: in una sola parola, presupponeva l’obbligo di individuarne il tanto invocato specifico. Era questo che Strand imputava ai pittorialisti storici: “L'ottusità dei fotografi d'oggi, cioè dei cosiddetti fotopittori, si vede nel fatto che che non hanno scoperto le qualità fondamentali del loro mezzo”. In Strand si nasconde però mi distinguo tra pittura buona e pittura cattiva: “[Gli strumenti specifici della fotografia] sebbene siano differenti per stile di capacità espressiva, da quelli di ogni altra forma plastica, sono, nondimeno, imparentati con la strumentazione del pittore e dell'incisore autentico”.

Se l’obbiettivo è quello di tutelare e sostenere una specificità della fotografia nei confronti della pittura, perché si sarebbe una pittura da rifiutare con decisione e invece una pittura da prendere a modello? La scelta ci potrebbe anche stare, ma è chiaro che a quel punto la fotografia rientrerebbe nella logica del pittorialismo, magari “buono”. Ma quali sarebbero poi in effetti, per Strand, gli strumenti tipici della specificità fotografica? Strand fa leva sulle diverse possibilità di visione che esistono tra l’occhio naturale e quello che lui chiama “l’occhio morto” della macchina. Strand è uno strenuo difensore del bianco e nero perché proprio da questo limite, rispetto a quello che è il nostro modo ordinario di vedere le cose, può nascere la possibilità di registrare “una scala di valori tonali in bianco e nero, molto oltre le capacitò della manco e dell’occhio umani”.

“Le forme degli oggetti, le tonalità di colore relative, le strutture e le linee, questi sono gli strumenti, strettamente fotografici della nostra orchestra”.

“Se i fotografi, infatti, avessero realmente esaminato in modo critico la pittura, cioè tutti i dipinti, come un'evoluzione, se non si fossero contentati di fermarsi agli aspetti superficiali di Whistler, delle stampe giapponesi, alle opere scadenti di paesaggisti tedeschi e inglesi […] avrebbero scoperto che la solidità delle forme, la differenziazione delle strutture, il tratto e il colore sono usati come strumenti significativi in tutti i risultati massimi della pittura”.

Soggetti di Strand costruiscono eleganti composizioni fondate su linee e toni.

EDWARD STEICHEN (1879-1973)

“Oggi, una percentuale piuttosto alta dei giovani fotografi più dotati, sta sperimentando ed esplorando nuove aree, creando immagini che trasmettono connotazioni e significati al di là degli oggetti rappresentati con cui spesso hanno relazioni solo indirette”. Come succede a molti pentiti, Steichen, che aveva avuto un passato da pittorialista “cattivo”, era il più deciso e accanito nel voler spostare il baricentro della fotografia verso l’astrazione totale: “Considererei la fotografia, pure le immagini a colori a colori proiettate direttamente su di uno schermo da fasci di luce colorati, anche quando siano fatte senza l'intervento della macchina fotografica”.

Il pittorialismo quindi non muore con l’avvento della straight photography, ma cambia solo sponsor, dalla tutela impressionista passa a quella astrattista.

EDWARD WESTON (1886-1958)

Anche per Weston il primo obbiettivo sul quale un autore deve impegnarsi è l’individuazione della “vera natura del mezzo”, cioè di quella specificità di linguaggio che permetta di caratterizzare in modo originale la fotografia rispetto a tutti gli altri mezzi d’espressione. Anche nel suo caso torna la teoria di Arnheim circa le diversità tra occhio naturale e occhio meccanico: “Ogni mezzo espressivo impone i suoi limiti all'artista, limiti intrinseci agli strumenti, ai materiali o ai procedimenti utilizzati”. “La macchina fotografica può davvero essere in grado di vedere attraverso l'occhio, aumentandone la capacità fino a vedere più di quanto normalmente veda”.

Per Weston le possibilità dell’obbiettivo fotografico devono essere indirizzate all’evidenziazione della struttura delle cose, un’operazione che se ben condotta porta al cuore della specificità fotografica e per la quale ogni si sente autorizzato a rispolverare la vecchia categoria di bello. “Si può invece rappresentare con la massima precisione l'aspetto fisico delle cose: la pietra è dura, la corteccia è ruvida, la carne è viva, volendo, le si può rendere più dure, più ruvide e più vive. In una parola, abbiamo il bello fotografico”. Anche per Weston il nemico dal quale prendere le distanze era ovviamente il pittorialismo storico già attaccato da Strand e Steichen: “La parola 'pittorico' mi irrita rispetto a come intendo io il fare immagini. Non abbiamo già abbastanza immagini -arte da calendario- opera più o meno raffinata di centinaia di migliaia di pittori ed incisori? La fotografia che segua questo criterio può solo essere una povera imitazione di una forma d'arte già brutta”. Anche per Weston quindi si riaffaccia in maniera evidente un’ambigua distinzione fra pittura cattiva, dalla quale è assolutamente necessario prendere le distanze, e una pittura buona, che invece può divenire il punto di riferimento per il fotografo. Lui stesso aveva in mente una fotografia tutta giocata sull’esaltazione dei valori formali. Nella produzione di Weston le sue astrazioni sul paesaggio, sul corpo umano o sullo still life (i celebri peperoni e conchiglie) tendono sempre al superamento della referenzialità e all’esaltazione delle qualità formali di ogni singolo oggetto. Questo, per altro, senza sentirsi fuori linea rispetto al credo della straighy photography al quale Weston si considerava molto legato: “Un allontanamento estremo dalla registrazione realistica è possibile e pertinente alla fotografia diretta”.

Insieme a Adams, Cunningham e Dorotea Lange, Weston fu fondatore del Gruppo f/24, una sigla che stava a indicare, nelle macchine a grande formato di negativo usate da questi autori, la massima chiusura possibile del diaframma. Il risultato di questa massima chiusura di diaframma sarà una fotografia di grandissima nitidezza, e proprio la nitidezza del segno, unitamente alla “limpidezza e lucentezza del tono”, era per Weston l’obbiettivo irrinunciabile del proprio lavoro. “Al giorno d'oggi il fotografo non deve necessariamente far sembrare la sua fotografia un acquarello, perché sia considerata arte, ma deve conformarsi alle regole di composizione”.

ANSEL ADAMS (1902-1984)

Ansel Adams diverrà il più grande divulgatore del credo neopittorialista di ispirazione modernista nel secondo dopoguerra. È del 1948 la prima edizione di Camera and Lens, un testo nel quale è possibile recuperare con precisione gli sviluppi della sua poetica. Fondamentale per Adams è il concetto di visualizzazione (capacità di prevedere quale sarà il risultato prima ancora di effettuare l’esposizione): “Il termine visualizzazione si riferisce all'intero processo emotivo-mentale che concorre a creare un'immagine fotografica e, come tale, è uno dei più importanti concetti della fotografia. Questo processo comprende la capacità di prevedere quale sarà il risultato prima ancora di effettuare l'esposizione, così da scegliere quelle procedure che contribuiranno al raggiungimento dell'effetto cercato”. Influenzato probabilmente dalle teorie di György Kepes (Chicago 1944), Adams considera l’atto fotografico un’esperienza di organizzazione del caos naturale e per descriverlo analiticamente ricorre alla spartizione che la lingua inglese per sull’area semantica da noi unificata sotto il termine “forma”. Al mondo ci sarebbero allora “shapes and form”, cioè le forme naturali e le forme culturali dove è facile distinguere tra qualcosa che esiste a prescindere dall’azione dell’uomo (natura) e qualcosa che di tale azione è la logica conseguenza (cultura). Il mondo è in sé caotico, le forme naturali (shapes) sono praticamente illimitate. La caratteristica principale delle shape è quella di non presentarsi a noi in maniera definitiva ma piuttosto sempre disponibile a quante si voglia interpretazioni

“L'occhio del pittore o del fotografo porta la forma (form) nelle forme (shapes) circostanti”. Per Adams l’arte è innanzi tutto un fatto formale, l’elaborazione di un manufatto dall’ineccepibile strutturazione formale. La fotografia è del tutto simile alla pittura , cambiano gli strumenti ma non le intenzioni e gli obbiettivi del processo estetico. Adams quindi considera la fotografia come una sorta di pennello tecnologicamente aggiornato.

NEOPITTORALISMO ALL’EUROPEA

LÁSZLÓ MOHOLY-NAGY (1895-1946)

Si occupò anche di scultura, design, grafica, cinema e scenografia. Nel 1925 pubblica “Pittura, fotografia, film” “Poco importa se la fotografia produca o meno una forma d'arte. L'unica vera misura del suo valore futuro verrà data dalle sue regole di base e non dalle opinioni dei critici”. 1947: Vision in Motion Questa centralità di interessi per la visione che lo portò a sviluppare un’attenzione particolare per la fotografia rispetto ad altri strumenti, che egli pur continuò ad utilizzare nel corso della sua carriera. Moholy-Nagy individuava nel mezzo fotografico la possibilità per accedere in modo diretto e immediato a quell’alfabeto visivo di base costituito da linee, forme e colori che i pittori suprematisti-costruttivisti, fra i quali si era formato, avevano conquistato con fatica e tormento. La “supremazia assoluta” derivava dalla possibilità di fare a meno della “nostra esperienza intellettuale e associativa” che la fotografia, in quanto macchina, poteva offrire rispetto alla rappresentazione manuale-pittorica

Mentre allora dalla meccanicità del processo fotografico il Dadaismo aveva ricavato conseguenze che potremmo definire comportamentiste, Moholy-Nagy considerava l’automatismo quale pura funzione di by-pass per arrivare prima e più agevolmente ad un primato del visivo di evidente sapore parapittorico. Pare dunque che Moholy-Nagy abbia fato preferenza alla produzione dei fotogrammi, le famose fotografie senza macchina delle quali dava una definizione che non lascia dubbi sull’intenzione di poetica che le caratterizzava: “Visione astratta mediante registrazione diretta delle forme prodotte dalla luce”. Il fotogramma quindi è concepito con l’intenzione di affermare una specificità della fotografia del tutto nuova e antipittorica, nell’interpretazione di Moholy-Nagy finisce paradossalmente per diventare la migliore cura ricostruente per il vecchio quadro. “Abbiamo acquisito una nuova sensibilità nei confronti della qualità del chiaro scuro, del bianco luminoso, del passaggio dal nero al grigio pieno di liquida luce, della precisa magia della 'texture' più delicata: sia che si tratti dello scheletro di una costruzione in acciaio o della schiuma del mare, e tutto questo viene fissato in un centesimo o in un millesimo di secondo”. Il soggetto in se non conta nulla, appartenga esso alla sera cultuale o a quella naturale occorrerà comunque ricondurlo a una pura sintassi formale perché è su questa che, al di la di tutto, per Moholy-Nagy, si giudica la qualità e il valore di una fotografia. “La scoperta di fonti di illuminazione artificiali, la possibilità di orientare sull’oggetto fasci di luce artificiale, l’alta sensibilità della lastra fotografia, furono tutti dei ponti verso il quadro realizzato direttamente con la luce”.

Albert Renger-Patzsch (1897-1966) contribuì insieme a Moholy-Nagy a caricare di entusiasmo il dibattito sviluppatosi attorno alla fotografia. Si mostrava anche egli desideroso di valorizzare una specificità fotografica decisamente antipittorica: “Lasciamo l'arte agli artisti e cerchiamo di creare la fotografia che durerà nel tempo grazie al suo valore fotografico, poiché la sua caratteristica esclusivamente fotografica non è stata mutuata da un'altra arte”. Renger-Patzsch s’impegnò in un attento lavoro di semplificazione delle forme naturali, tale da poter poi dimostrare una sorta di coincidenza tra queste e le strutture degli oggetti prodotti dall’uomo.

ANDRÉ KERTÉSZ (1894-1985)

Fu maestro di Brassaï, Kertész subì anche il fascino della cultura modernista, poi trasferita in fotografia sotto forma di impeccabili composizioni di taglio minimalista. Accade così che nel suo lavoro confluiscano il gusto per il prelievo a readymade dell’oggetto comune e banale, e al tempo stesso un rigore formalista che rimanda giocoforza alla logica della pittura. Sintesi perfetta è la sua fotografia del 1928 intitolata “La forchetta”, nel quale appunto tutta la sorpresa per la spiazzante attenzione attribuita a un oggetto normalmente considerato non degno di essere fotografato viene riassorbita da un’impeccabile ripresa capace di esaltare il rapporto speculare che si stabilisce tra la linea della forchetta e del piatto e le rispettive ombre. Del tutto sbilanciata in direzione pittorica è la serie di nudi distorti avviata da Kertész nei primi anni trenta. Questi nudi, realizzati usando uno specchio deformante, pur spettacolari nei risultati, nulla aggiungono all’identità della fotografia rapportata alla pittura, puntando in larga misura, come è evidente, su puoi valori formali-visivi.

GYÖRGY KEPES Divenne direttore del dipartimento visivo del New Bauhaus nel 1937. Anche egli esploratore di angolature e prospettive particolari attraverso le quali la fotografia potesse portare un proprio contributo alla costruzione di una new vision, Kepes svolse anche un’attività di ricerca teorica e di divulgazione didattica, tanto che possiamo parlare di un’influenza, più o meno diretta, dei suoi scritti sulla poetica di Adams.

FLORENCE HENRI (1893-1982)

Il genere a cui si dedica maggiormente è quello dello still life, dove possiamo notare ancora di più una connessione con la linea stilistica neoplastica-costruttivista. Splendidi sono per esempio i lavori concepiti nel 1929 per il marchio di profumi Jeanne Landin e quelli del 1931 per l’etichetta discografica Columbia. “Troverete senza dubbio che la parola composizione ritorna spesso sulle mie labbra. Dipende dal fatto che questa idea è tutto per me”. La fotografia quindi vuole chiaramente rimandare solo a se stessa, alla propria superficie e a tutto quell’insieme di valori sintattici esprimibile attraverso la combinazione di forme, luci e toni del bianco e nero.

“Vorrei far capire che ciò che voglio innanzitutto con la fotografia è comporre l'immagine come faccio con i quadri. Bisogna che i volumi, le linee, le ombre e la luce obbediscano alla mia volontà e dicano ciò che io voglio far dir loro. E questo nel controllo strettissimo della composizione perché io non cerco né di raccontare il mondo né di raccontare i miei pensieri. Tutto quello che io conosco e il modo in cui lo conosco è fatto anzitutto di elementi astratti: sfere, piani, griglie le cui linee parallele offrono grandi risorse”. L’ambizione della Henri sarebbe quella di riprodurre composizioni alla maniera di Malevič o di Mondrian, con gli elementi raffigurativi ridotti al minimo e ovviamente riconducibili al repertorio elementare della geometria. Per sfrantumare la logica complessiva d una visione prospetticamente ordinata e rassicurante, la Henri introduce nelle sue immagini uno o più specchi che, complicando al massimo la riconoscibilità e la presenza degli oggetti, finiscono per annullarla come referenza.

Sull’onda dell’Informale REVISIONE DI UN’IDEA: CONTRO LE “FOTO FATTE SUI MURI” In un saggio del 1961 dal titolo “Di foto fatte sui muri” apparso sulla rivista “Il Verri”, Umberto Eco introduce una produzione fotografica non più legata alla figuratività: “La camera fotografica che sino ad ora aveva trovato scene ed eventi 'figurativi' ora viene invitata a trovare occasioni informali, macchie, graffiti, tessiture (...)”. “Il fotografo è colto e sensibile, attento alle tendenze stilistiche della pittura contemporanea, gira per la strada e individua accadimenti materici di indubbia suggestività”. La spiegazione del perché la fotografia si fosse improvvisamente dimostrata attenta a questi strani soggetti non figurativi è dunque chiarissima: per non perdere il passo con la ricerca di punta di quegli anni, dominata tra America ed Europa dagli sviluppi della pittura distinta geograficamente con le etichette di Espressionissimo astratto e informale, i fotografi più “colti e sensibili” si erano dedicati alla ricerca e al prelievo di un Informale già pronto, già fatto cose come era stato descritto da eco nel suo elenco. Periodo: Fine della seconda guerra mondiale e inizio degli anni sessanta. L’arte Informale per Eco: un Informale “naturale” esiste già, pronto e confezionato, basta saperlo individuare e recuperare. Eco sembra dunque pensare all’opera informale come a una sorta di riproposta coscienzializzata, da parte dell’artista, del fascinoso caos materiale presente in natura. La fotografia parrebbe addirittura collocarsi in posizione privilegiata nell’interpretazione di tale poetica. In questo caso l’idea della fotografia come ready-made non funziona perché, a monte, non convince l’interpretazione naturalistica dell’Informale avanzata da Eco, e soprattutto non funziona perché alla fine le fotografie di muffe, ruggini, muri scrostati e fango rappreso, all’atto pratico finiscono per risultare apprezzabili in quanto del tutto simili alla superficie di un quadro informale.

Eco mette in evidenza l’ipotesi che la fotografia possa vantare una qualche forma ...


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