Eterna Spagna riassunto PDF

Title Eterna Spagna riassunto
Author Giovanna Cupertino
Course Cultura Spagnola 
Institution Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Pages 66
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riassunto capitoli libro per sostenere esame cultura spagnola 2020/2021 con prof Coppola...


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ETERNA SPAGNA RIASSUNTI CAPITOLO 1: Chi sono i nani di Velàzquez Nei secoli XVI e XVII si praticava, in Europa, una bizzarra forma di shopping. Nani, donne barbute, disgraziati, finiti in manicomio, venivano comprati da privati gentiluomini o emissari del Re per essere portati nel “bel” mondo, quello della vita cortigiana. In Spagna, il supermarket più frequentato, era la Casa dels fols. Qui, Lope de Vega, ambienta una commedia e un romanzo nel quale vediamo un conte italiano fare elemosina pur di portare con sé un pazzo in grado di divertirlo a tempo indeterminato. Quei reclutamenti forzati, erano l’unica via di scampo per queste persone. Los monstruos (così definiti), venivano arruolati a Palazzo come saltimbanchi e potevano, inoltre, far carriera e conquistarsi una notorietà addirittura superiore a quella di attori, pittori. A partire dal Rinascimento, la circolazione di buffoni si configurò come una specie di mercato senza frontiere: venduti, scambiati o recati in dono, restavano al servizio del pianeta. Durante il Siglo de Oro, la vera Mecca europea del nano-traffico fu Madrid. Nei primi anni venti del seicento, quando il sivigliano Velàzquez giunge, da pittore, nella reggia di Filippo IV, i giullari sono circa un centinaio. (“Hombres de placer Ometti con cui svagarsi) Velàzquez ne dipinse più di ogni altro artista in quanto, alloggiando nell’Alcàzar madrileno, ce li aveva spesso davanti ai piedi. Facevano dunque parte della sua vita quotidiana. Pare, inoltre, che sia giunta la notizia di nani faccendieri (playboy, temibili giocatori, uomini d’arme) e che il vivaio di nani più richiesti fosse la Polonia. Si diceva addirittura che da quelle parti avessero revisionato un ritrovato top secret per fabbricare ometti a regime industriale. Tra i nani ritratti da Velàzquez almeno un paio non hanno facce da mammolette, ma delle loro vite, quasi sempre molto brevi, abbiamo notizie solo da qualche cronaca. In una relazione del 24 novembre 1643, un gesuita raccontava di un servitore (Marco Encinillas-stimato funzionario) di sua maestà, sposato con una donna di buone doti e che in casa ospitava un nano trattato con riguardo dalla moglie. In breve, l’uomo cominciò a sospettare dell’atteggiamento della moglie nei confronti del nano e, fissando l’ultima nata tra le sue figlie, trovava delle somiglianze evidenti con il nano. Così una notte, dopo essersi ritirato con la moglie, prese per pugnalarla e finì per sgozzarla. Fosse stato per lui, avrebbe ucciso anche il nano, ma a corte non riuscì a trovarlo e, esausto, si consegnò alla giustizia. Avendo fama di ostinato seduttore, il nano in questione potrebbe essere stato il Don Diego (Luis) De Acedo. Non si può dire lo stesso del povero Juan, che non era un nano, ma era tanto disturbato da meritarsi il nomignolo “Calabazas”, l’uomo delle zucche. Egli, venne ritratto da Velàzquez due volte: nel primo quadro lo vediamo in piedi sorridente che impugna una

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girandola (simbolo di volubilità mentale); nel secondo, lo troviamo accovacciato tra le zucche con sguardo ancora più strabico e un sorriso ebete. Abbiamo notizie anche de El nino de Vallecas, un omino biondo dipinto da Velàzquez con un legnetto in mano. È identificato come il nano Biscaglino Francisco Lezcano. Entrò a corte da bambino per servire da giocattolo al piccolo principe Carlos, ma affetto da malanni e, vedendolo malmesso, gli consentirono di tornare nella terra natale, dove si spense tra i familiari a nemmeno diciannove anni. (1649) Il 1649 è anche la data di morte di Sebastiàn de Morra, il più impressionante fra i nani. Baffi a manubrio e pizzetto importante, venne integrato nella corte di Carlos. Accompagnava il bambino a caccia e ricevette in dono una collezione di armi da taglio. A causa del nome “Morra”, qualcuno gli ha attribuito origini Italiane tutt’ora infondate. Nicola Nicolasito Pertusato è, invece, colui che in Las Meninas tormenta un cagnone con la punta del piede. Sembra un ragazzino, ma anche lui, quando il capolavoro fu realizzato, aveva più di venti anni. Ebbe una carriera brillante a Madrid e morì lasciando una sostanziosa eredità. (1710) Marìa Bàrbara Asquìn tedesca. Oltre a vitto e alloggio, la Corte le passava uno stipendio e, grazie al suo ottimo rendimento, le fu permesso di rientrare in Germania con le risorse adeguate per affrontare la vecchiaia in felicità. Il boom dei freaks assunti a corte: giullare o meno, il Freak è un prodigio che flirta col soprannaturale. Un tipo di follia è diventata quasi chic e il mostro è affine al pazzo che parlando dice il vero, ma che per una parola di troppo può essere castigato; non dal re, ma dalla vendetta dei cortigiani, anche perché spesso il sovrano si serve dei saltimbanchi come spie. Il sovrano nutriva affetto per i suoi nani, ma spesso durante i party, venivano costretti ad ubriacarsi e, nelle avventure libertine, venivano addirittura utilizzati come sex toys. Non tutti erano pazzi, ma per essere ammesso a Palazzo, era consigliabile che un buffone desse prova di possedere almeno una vena di follia. (perciò fingersi matti era una cosa ricorrente in quell’ambiente) Antoine de Brunel,viaggiatore francese, descrisse Filippo IV come un pupazzo. “Il Re non è mai stato visto mutare di postura”. Ed è così che Velàzquez dipinge l’uomo e non il Re. La carriera lo portò fino alla carica di maresciallo, però anche dentro la gabbia del sistema cortigiano, Velàzquez trovò e si prese le sue libertà di artista. La libertà, forse speculare, di ritrarre un nano in tutta la sua libertà d’uomo. Inoltre, sulle tele di Velàzquez, i nani sono quasi sempre presentati da soli, come soggetti autonomi. Gli enanos non sono più messi lì per esaltare la maestà. Rilevato questo aspetto, l’occhio politico della critica moderna ha voluto cogliere in quei quadri un gesto di pietà ribelle, portando Velàzquez a farsi pazzo, buffone, mostro. Queste erano solo enormità ideologiche perché, per quanto malinconico, Velàzquez fu un vassallo tutto sommato felice e la sua rivoluzione rimase dentro i confini della tela. I freaks scomparvero con l’avvento dell’illuminismo, però i nani continuarono a sedurre anche l’industria dello spettacolo. 2

Marzo 2010, Mediaset, Roma  arrivò un ragazzo mongolo di ventuno anni: He Pingping. Era alto poco più di 74 centimetri e il Guiness dei primati lo aveva definito l’uomo più piccolo al mondo. Tecnicamente non era nano, ma vittima di una malattia che impedisce la crescita e, durante le prove de lo show dei record, Pingping accusò forti dolori al petto. Venne portato all’ospedale dove morì qualche giorno dopo. Successivamente le agenzie riferirono che a prendere i diritti di successione al record sarebbe stato il nepalese Khagendra Thapa Magar, alto solo 56 centimetri (18 in meno di Pingping), ma non ancora riconosciuto ufficialmente in quanto troppo giovane e ancora ritenuto in tempo per crescere. CAPITOLO 2: Il “vero” Don Chisciotte 1581 A causa di una disputa territoriale fra clan, Francisco de Acuna (hidalgo), nel profondo della Mancia, provò ad eliminare Pedro de Villasenor (hidalgo anche lui). Agì in puro stile Don Chisciotte: a cavallo, indossando un’armatura (con elmo e scudo) e inseguendo il suo uomo con una lancia. Ma il rivale, se la diede a gambe. Fu grande lo sconcerto in una comunità che aveva già temuto la prepotenza della famiglia De Acuna. L’ultima risaliva a poche settimane prima, quando Francisco e il fratello avevano sparso terrore per vendicarsi a causa di un verdetto sfavorevole emesso dal consiglio comunale. Avevano aggredito di insulti e minacce chiunque gli capitasse davanti. Si mascheravano solo per spaventare gli avversari o cercavano di ritrovare il brivido del passato cavalleresco? Isabel Sànchez Duque assicura al collega Francisco Javier Escudero che abbiamo motivo di credere che la nostalgia operasse come un’autentica potenza nell’immaginario e nei costumi della piccola nobiltà. Questi ultimi, sono due investigatori che hanno trovato documenti per una tesi. Cervantes era molto amico di Villasenor. Potrebbe aver scritto Don Chisciotte per ridicolizzare i De Acuna, nemici della famiglia a cui era tanto legato. D’altronde, il romanzo, o almeno la prima parte, è una parodia. Le èlite alfabetizzate dell’epoca, lessero il Chisciotte come un libro comico. Solo due secoli dopo, i romantici vollero una interpretazione enfatica. Per difendere la loro ipotesi, i due investigatori apportarono altri elementi. I documenti raccontano che il vero pazzo era Ferdinando (Fratello di Francisco de Acuna). Nel 1584, sentendosi disonorato durante una messa, Ferdinando diede di matto rovesciando l’altare. Era fatto così. Non che Francisco fosse una mammoletta, ma quanto meno, oltre ad essere il vendicativo boss del quartierino, era un difensore del popolo. Infatti, non aveva esitato a proteggere dalle accuse di promiscuità Francisca Ruiz. Secondo i due detective, quest’ultima potrebbe aver ispirato a Cervantes il personaggio di Marcella, la sexy capraia che per le donne esige il diritto di sottrarsi ai ricatti d’amore. I due assicurarono addirittura di aver individuato l’identità di Dulcinea, la contadina trasfigurata in principessa da Don Chisciotte. Cervantes, dice che prima di proclamarsi caballero Don Quijote, il suo eroe si chiamava Alonso Quijano. Escudero, invece, tende ad escluderlo, perché morì prima che Miguel 3

venisse al mondo. È più praticabile quindi, l’idea che Cervantes abbia avuto notizia di un altro Quijano: Rodrigo, che provo a comprarsi il titolo di hidalgo e si mosse negli stessi luoghi raccontati dalla storia. Il problema è che oggi non si ha la minima prova che Miguel de Cervantes abbia mai messo piede nella Mancia. Secondo gli studiosi, sarebbero stati ventuno i viaggi che potrebbero averlo visto transitare da quelle parti, ma non si ha la certezza. Ancora ci si continua a chiedere perché Cervantes abbia scelto proprio la Mancia per ambientarci il romanzo e una delle risposte ricorrenti è: esigenza comica. Resta il fatto che la geografia del Don Chisciotte è imbottita di dettagli esatti. Ma che Miguel ci sia stato davvero o se la sia fatta raccontare, la Mancia del Siglo de Oro è un universo affascinante. Un mondo per niente sonnolento dove la componente sociale più dinamica era costituita proprio dagli hidalgos. Hidalgo, Hijo de alguien (figlio di qualcosa) e non poteva essere sottoposto a tortura né finire in carcere per debiti. In teoria, gli hidalgos, in quanto nobili, non avrebbero dovuto lavorare. Infatti, l’eroe cervantino era nullafacente. Però gli occupati non mancavano. In situazioni del genere, ovvio che perfino i gentiluomini dovessero darsi un po’ da fare governando l’agricoltura o l’allevamento (senza rinunciare ai privilegi) e un parassitismo maggioritario, avrebbe significato l’infarto dell’economia. L’ultimo segreto cervantino, non si nasconde nella Mancia: sta a Madrid, nelle cripte delle Trinitarias, il convento dove lo scrittore fu seppellito nel 1616. Non essendoci alcun discendente di Cervantes, è difficile ricorrere alla prova del Dna, ma per l’identificazione ci si è basati su altri indizi: i denti, Miguel confessò che sul finire gliene restavano solo sei; e le lesioni alla mano rimasta paralizzata dopo il colpo ricevuto durante la battaglia di Lepanto. 2015: a ridosso del quarto centenario di morte, gli scienziati annunciavano di aver ritrovato i resti, ma non tutti sono convinti siano quelli giusti. Mistero del Chisciotte, che resti sepolto negli archivi manceghi. CAPITOLO 3: La satira e la spada Nell’antica Madrid, su Plaza de Villa, sbocca una strada che ha nome di via e dimensioni di un vicolo: calle del Codo, del Gomito. Pare che di notte, Francisco de Quevedo, ci facesse regolarmente sosta per orinare contro un edificio (sempre lo stesso). Così, chi viveva lì dentro decise, esausto, di piazzare sul muro una santa croce. Ma il giorno dopo, vedendo che non aveva funzionato, aggiunse la scritta “non si piscia dove ci sono le croci” ricevendo l’indomani la replica “non si mettono le croci dove si piscia”. Ma non ci si imbatterà in aneddoti del genere nella vita di Francisco de Quevedo (definito la mente più vertiginosa del Siglo de Oro dopo Cervantes), scritta in spagnolo nel 1663 dal pugliese Paolo Antonio di Tarsia, era un abate di Conversano (Bari) che ebbe la fortuna di essere il segretario del conte Giovan Girolamo Acquaviva (processato in 4

Spagna e sbattuto in carcere per abusi feudali). Prima di morire, di Tarsia riuscì a mettere insieme la prima Vida de Quevedo, mai pubblicata. Quevedo era definito “un canile di anime”. Nato ed educato bene. Viene mandato a studiare dai gesuiti, poi all’università di Alcalà de Henares. È precocissimo, ma fisicamente sfigato: miope, zoppo, gambe storte. Un nerd del XVII secolo. Negli anni universitari: gioca a carte; si inciucca, rimorchia. Un Giovedì Santo, mentre assiste alla messa, vede un tipo schiaffeggiare una ragazza e Quevedo lo trascina fuori. Ma il vero exploit fu quando Quevedo decise di sfidare Louis Pacheco de Narvàez, un buffone che con la spada se la tirava un sacco e che sarebbe diventato personal trainer di re Filippo IV. E al primo assalto, gli fa saltar via il cappello oltreché un bel po’ di credibilità. Quevedo, a corte, si inserisce nel gossip e scrive sonetti. La satira non è altro che l’estensione verbale della spada. E tra i primi ad essere preso di petto, c’è Luis de Gòngora, arrivato ad essere sfrattato dall’appartamento madrileno e rimpiazzato. (Del palazzo resta oggi solo una targa intitolata a Quevedo) Nel 1606, Quevedo entra in congrega col duca di Osuna, che punta al governo di Napoli. Accanto al nuovo vicerè di Napoli, Quevedo ottiene il cavalierato di Santiago. Per stroncare l’egemonia della Serenissima, la ditta Osuna&Quevedo escogita di prendere il doge in ostaggio e di portarlo a Napoli, ma il piano viene smascherato. Quevedo è incarcerato nel monastero di Uclès, poi assegnato ai domiciliari a Torre de Juan Abad. 1621 muore il re e gli succede il figlio Filippo IV. Quevedo viene riammesso a Madrid, si sposa e, dopo essersi lasciato, viene rinchiuso nel convento di San Marco a León (attuale hotel multistelle). Comunque, quando esce di prigione è un fantasma. Si rintana a Torre de Juan Abad, ma non essendoci un medico si trasferisce nella Villanueva de los infantes, nel convento di San Domenico. Muore nel 1645. La cella conventuale in cui morì è visitabile e per ritrovare Quevedo, bisogna infilarsi nella chiesona di San Andrès. I resti dello scrittore andarono dispersi, ma li hanno rintracciati nel 2007. Ora si trovano in una cripta, dentro un sarcofago nero con dentro le croci di Santiago. Color rosso sangue e a forma di pugnale. CAPITOLO 4: La rivoluzionaria obbediente Teresa d’Ávila (scrittrice e fondatrice delle monache e dei frati carmelitani Scalzi) insieme a suo fratello Rodrigo tentarono di evangelizzare, all’età di otto anni, i mori infedeli, ma vennero presi da suo zio e rispediti a casa. La colpa è tutta dei libri, in quanto Teresa sin da piccola si lascia invadere dalla lettura, quindi la sua vocazione eroica scaturisce dalla letteratura. Questa è una letteratura ancora donchisciottesca, quindi profana, infatti prestissimo Teresa la respingerà per passare a letture più devote fino a quando successivamente anche quelle non le verranno impedite insieme ai libri in castigliano, rendendola così rammaricata. Ma vedendola privata dei libri, Cristo le 5

apparve dicendole che sarà lui il suo libro vivente, così Teresa si dedicò alla vita spirituale in maniera tale da non aver quasi più bisogno di loro. Seppure laureata, Teresa d’Ávila non fu una santa dotta e nonostante i libri letti non fu mai un’intellettuale, ma grazie ai confessori iniziò a scrivere da sé. Teresa de Cepeda y Ahumada nacque il 28 marzo 1515 da famiglia ebrea, e giacché ventitré anni prima i judíos (ebrei) erano stati cacciati, non restava che riconoscersi come cristiani. “ Vivo sin vivir. Muero porque no muero”. Teresa parlava della morte poiché c’era passata a ventiquattro anni, per una denutrizione volontaria. Le danno l’estrema unzione e stanno per seppellirla però il padre si oppone, infatti dopo qualche giorno Teresa si riprenderà. Diventerà una eroina on the road e inaugurerà conventi dalla Castiglia all’Andalusia. Gli scritti di Teresa d’Ávila hanno stregato molti scrittori a differenza di oggi dove questi ci attraggono come una lingua della quale abbiamo perso la chiave di accesso. Teresa continuerà ad avere delle visioni mistiche fino all’ultimo. Morirà a sessantasette anni per un cancro all’utero e stringendo un crocifisso al petto. Nel 2015 Ávila si prepara per festeggiare i 500 anni dalla nascita della santa. Ma oggi come si vive l’eredità teresiana nel posto dove l’impresa cominciò? Nel convento dell’Encarnación, dove Teresa entrò suorina per uscirne priora, la superiora non concede interviste così come nel convento di San José. Nei due fortilizi teresiani vivono oggi una cinquantina di suore tra i venti e i novant’anni e la loro giornata consiste nello svegliarsi alle sei, le cinque in estate; pregare, svolgere varie mansioni e poi alle ventitré torna il silenzio. Però le suore possono uscire per andare dal medico o a votare. Con il loro pacifico estremismo sembrano volersi proteggere dalla mediatizzazione, dalla visibilità o più semplicemente ai giornalisti, altrimenti che clausura sarebbe. CAPITOLO 5: Zurbarán, l’alieno Francisco de Zurbarán fu definito il Caravaggio spagnolo. La sua arte è stata considerata una specie di maxispot della controriforma. I suoi quadri rappresentano frati tenebrosi, sante suppliziate, martiri in ceppi… ma rappresentati con eleganza e pudore. Un esempio il San Serapio che appena morto sotto tortura, non ha sul volto nessuno strazio, tutt’al più un’espressione di sfinimento e sulla tuta bianca nessuna traccia di sangue. Zurbarán era un esponente del basso ceto, veniva dall’Estremadura. Nel 1614 andò a Siviglia a studiare pittura e in quegli anni la capitale andalusa era considerata la Wall Street d’Europa. Zurbarán, concluso l’apprendistato rientra nella desolata Estremadura ed è in quelle retrovie che comincia a farsi conoscere. Tanto che Francisco torna a stabilirsi a Siviglia dove ormai è richiestissimo da francescani, domenicani, gesuiti, trinitari… Nel 1634 l’amico Velázquez si fa suo sponsor invitandolo alla Corte di Madrid, dove Diego è già artista di re Filippo IV. Sua Maestà vuole una squadra per decorare il nuovo Salón e per l’occasione Zurbarán sperimenta un nuovo modo di dipingere affrontando 6

temi mitologici e militari. Da Madrid, Zurbarán tornò a Siviglia, dove però era ormai passato di moda. Della sua vita sappiamo che si sposò tre volte e rimase vedovo due. Dall’ultima sposa ebbe sei figli: morirono tutti. Alla morte della figlia perse il controllo. L’artista rientrò a Madrid dove ricevette la croce purpurea dell’Ordine di Santiago, quella che Velázquez mostra nel ritratto Las Meninas. Pur essendo pittore di corte però Zurbarán rimase per tutta la vita un artista di provincia, dedito soprattutto ad opere religiose, come quelle realizzate per gli ordini monastici di Siviglia. CAPITOLO 6: Infelicissima Armada L’invincibile Armata (Grande y Felicísima Armada) era una nave di 1300 tonnellate, costruita dai veneziani per Filippo II per la spedizione in Inghilterra. Data la stazza era stata battezzata ‘La Ragazzona’. Sopravvisse alla guerra anglo-spagnola ma finì per svanire nella tempesta a un soffio dall’arrivo in terra spagnola andandosi a schiantare contro la costa. Il suo mistero perdura da 425 anni, ma un’équipe di archeosub cominciò le ricerche nei fondali marini nel 2013 dopo la scoperta di sette pezzi d’artiglieria ripescati in fondo alle acque della Ría de Ferrol. Del legno non resta nulla in quanto se lo sono divorato i molluschi xilofagi ma finora i fondali hanno restituito solo pezzi metallici (cannoni), ma la domanda sorge spontanea, perché sul luogo del relitto non si è trovato alcun elemento in ceramica che avrebbe facilitato la datazione dei resti? Secondo gli archeologi la zona sarebbe stata “visitata” da saccheggiatori degli abissi. Si continua a frugare nei fondali, ma tutto viene analizzato sul posto e lasciato lì, perché rimuovere i reperti e portarli in superficie significherebbe sconvolgere il contesto in cui sono stati trovati e deteriorare ancora ...


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