Filosofia della cura - Luigina Mortari PDF

Title Filosofia della cura - Luigina Mortari
Course Pedagogia dell'infanzia  
Institution Università degli Studi di Verona
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Summary

Riassunto dettagliato del libro Filosofia della cura per sostenere l'esame di Pedagogia dell'infanzia...


Description

INTRODUZIONE Nonostante il fatto che il significato del termine “cura” vari da una società all’altra, la cura si profila nel senso di un aspetto universale della vita umana. Si può dire che la cura sia il luogo dove comincia il senso dell’esserci. Con il termine “cura” comunemente si indicano molteplici attività: dalle attività di presa in carico dei bambini a quella di accadimento delle persone altamente dipendenti sia a causa di malattia sia a causa di handicap, all’accoglienza di bambini e adulti in situazioni di disagio di vario tipo. Ricevere cura significa sentirsi accolti dagli altri nel mondo; aver cura significa coltivare quel tessuto dinamico e complesso di relazioni in cui ogni soggetto riconosce, se educato, a uno sguardo fedele alla datità delle cose, la matrice vivente del proprio essere nel mondo. Se l’aver cura diventasse la preoccupazione primaria in ambito sociale, politico e soprattutto educativo, i mutamenti nelle condizioni di esistenza delle persone sarebbero radicali. Affinché l’utopia di una civiltà della cura di realizzi è necessario elaborare una teoria della cura, che consenta di dare fondamento rigoroso all’idea che la cura è essenziale all’esistenza, per poi individuare i modi d’essere che qualificano una buona pratica della cura. Per dare forma a un discorso capace di rendere conto del valore della cura, è fondamentale il riferimento al pensiero femminile, soprattutto nordamericano, che della cura ha indagato la primarietà ontologica ed etica mostrandone la rilevanza sociale e politica.

CAPITOLO 1: LA PRIMARIETÀ DELLA CURA NECESSITÀ ONTOLOGICA DELLA CURA A fornire uno statuto argomentativo alla tesi secondo la quale la cura costituirebbe una struttura ontologica originaria dell’essere è stato Heidegger, il quale afferma che la cura può essere nominata come «fenomeno ontologico esistenziale fondamentale». Tale considerazione deriva da una sua ricerca fenomenologica, che lo porta all’evidenza che il fatto originario dell’esserci è quello di trovarsi in un mondo e che questo trovarsi nel mondo avviene in quel modo fondamentale d’essere dell’esserci per cui nell’essere nel mondo ne va del suo stesso essere. La cura costituisce una priorità esistenziale, nel senso che viene prima di ogni situazione dell’esserci in quanto peculiare struttura d’essere dell’ente. Questa affermazione ontologica sarebbe attestata dal fatto che il tipo di forma che prende la nostra vita è in stretta connessione con il tipo di cura di cui facciamo esperienza, poiché sono i modi della cura che scolpiscono la nostra esistenza. Se la cura è fenomeno esistenziale fondamentale, conseguente al fatto che l’esserci è mancante di perfezione ontologica in quanto aperto alle possibilità d’essere il suo proprio poter essere, nello stesso tempo è proprio in quanto cura che l’essere può esperire quella chiamata della coscienza che sola apre alla visione delle possibilità del suo essere proprio. Concependo la chiamata alla cura come fenomeno relazionalmente situato, l’agire educativo trova il suo senso, perché l’educatore diventa colui che è investito della responsabilità di preoccuparsi che l’altro sia risvegliato alla ricerca dell’autenticità del suo esserci attraverso l’offerta di esperienza che rendano possibili innanzitutto comprendere e poi accogliere la chiamata. Un altro punto si basa che sono i modi positivi dell’aver cura che generano civiltà e in quanto tali interessano il discorso pedagogico. PESO DEL VIVERE E DESIDERIO DI TRASCENDERE Con il termine cura Heidegger intende indicare quell’inaggirabile modo di abitare il mondo che chiama l’essere umano all’irremissibile responsabilità di scegliere fra possibilità differenti, senza possedere conoscenza degli esiti di tale scelta. Nella nostra cultura, invece, al termine cura è spesso associato un significato problematico, perché con questa parola si indica il farsi carico del peso dell’esistere. Quando si costituisce come risposta obbligata alla necessità di farsi carico dell’esistenza, la pratica di cura viene intesa nel suo significato latino di “affanno” per il peso del vivere. Questa interpretazione si fonda su un’evidenza esistenziale, ossia sul fatto che il nascere è un venire sulla terra mancante di forma; per questo il cominciamento della vita è immediatamente appesantito dalla responsabilità di occuparsi di sé. In questo senso l’identità è un asservimento a sé, che mette l’esistenza di fronte al fatto che la libertà è già da subito limitata dalla responsabilità della cura dell’esistenza. Si può rilevare che un modo d’essere della cura è quello in cui l’esserci si fa carico di quelle attività che consentono di rispondere al bisogno di garantire la conservazione della vita. I modi della cura che si attualizzano come risposta al sentirsi vincolati a preservare la vita stanno dunque nell’ordine della necessità, poiché costituiscono una mossa esistenziale obbligata dalla non compiutezza del nostro esserci e della nostra fragilità. In questo modo della cura la necessità è qualcosa di subito e non di accettato, è quindi una cura che non è libera. Oltre al prendersi cura di sé, perché il compito di sopravvivere ce lo impone, c’è l’aver cura come premura di dare compimento al proprio e altrui divenire possibile; è quell’aver cura che scaturisce dallo stare in ascolto del proprio e altrui desiderio di divenire pienamente quello che si può essere, dando forma alla propria originale presenza nel mondo. Seneca avverte che la peggior forma di in-cura è quella per cui non si ha cura del tempo della vita, e ciò accade quando si vive il proprio tempo irriflessivamente, senza dedicarsi a cercare possibili direzioni di senso. Ma lasciare che il nostro tempo prenda forma indipendentemente da un progetto di vita è un modo di essere in autentico, questo stare nell’inautenticità, che è il mancare di rispondere alla chiamata di dare forma intenzionale al proprio essere. L’aver cura che si muove nell’ordine della

trascendenza è attenzione responsabile al tempo della vita, è aver cura delle possibilità esistentive che autenticano la propria presenza nel mondo. LA CURA COME ASSE PARADIGMATICO DELLA PRATICA EDUCATIVA Quell’aver cura che si concretizza nella premura di cercare una direzione di senso capace di inverare la nostra vita ci fa sentire che il nostro tempo è vivo. Aver cura dell’esistenza significa stabilire un rapporto etico ed estetico con il proprio tempo, riconciliandoci con il passato guardando con fiducia al futuro. È il desiderio di esistere che rende sopportabile la fatica del vivere. Può capitare che il desiderio di esistere si affievolisca o che venga meno, ciò accade quando il sentimento dell’angoscia diventa soverchiante. L’angoscia dilaga nell’anima non solo al pensiero della morte, ma anche di fronte all’essere; ci si sente presi dentro la paura d’essere, che è paura del divenire imprevisto e imprevedibile del mondo della vita, conseguente al sapere che la possibilità d’essere non si risolve solo in quella del piacere di abitare il mondo, ma implica anche quella di esprimere il dolore dell’esistenza. Quando il tasso della paura d’essere diventa insostenibile, l’anima si avverte così stretta che il solo sentire che le resta è l’ansia di evadere dall’esistenza stessa. Accade di percepirsi stanchi di tutto e di tutti e si vorrebbe abdicare all’esistenza, prima ancora di qualsiasi valutazione su di essa. La lassitudine è quel sentire in cui si trova espressione il rifiuto di esistere, di assumersi impegno di dare forma al proprio tempo. Si esperisce il sentimento della lassitudine quando ci si sente stanchi di sopportare il peso della cura non di un solo aspetto della vita, ma della vita intera. Il rischio di un indebolimento del desiderio di esistere pienamente proprio della fragilità della condizione umana. Tale fragilità rende necessaria la cura di sé. È qui che si iscrive la ragione d’essere dell’educazione: coltivare nel soggetto educativo la passione per la cura di sé, ossia accompagnarlo nel processo di costruzione di quegli strumenti cognitivi ed emotivi necessari a tracciare con autonomia e con passione il cammino dell’esistenza, cioè da tessere il tempo della vita avendo cura che ogni giorno, e del giorno ogni attimo, sia attualizzazione di un processo di donazione di senso. Se la direzione di senso dell’educare sta nel volere per l’altro la piena attualizzazione del suo poter essere, la pratica educativa non può che qualificarsi come azione atta a rendere l’altro sensibile alla sua chiamata a esserci, ossia a scegliere di scegliere, perché vivere secondo la propria scelta è condizione necessaria per condurre una buona vita. Da Socrate, educare significa educare ad aver cura di sé e la cura di sé si profila dall’inizio con un preciso orientamento etico. Quando si lavora sull’etimologia della parola “educare” si tende a ricondurla al latino educere, che significa trar fuori, portare alla luce; sembra invece più corretto ricondurla ad educare, che significa allevare, alimentare, nutrire, curare, oltre che educare. Assumere la cura come asse paradigmatico dell’agire formativo significa assumere la fenomenologia di una buona pratica di cura come riferimento per tracciare il profilo di un educatore che, proprio allo scopo di svolgere al meglio la funzione di promuovere il processo di acculturazione, sappia approntare un ambiente di apprendimento autenticamente facilitante lo sviluppo dei soggetti educativi.

CAPITOLO 2: LA VALORIZZAZIONE DELLA CURA La cura occupa gran parte della nostra vita, sia in termini attivi sia in termini passivi, la cura è necessaria perché nessuno è autonomo e autosufficiente, né può essere da solo la fonte del senso dell’esistenza. La cura è svalutata e la primarietà della cura è culturalmente invisibile perché associata con le attività femminili, che sono state a lungo svalutate e non adeguatamente retribuite. Proprio perché presi in carico dalle donne, i lavori di cura sono stati pregiudizialmente concepiti come attività naturali, negando tutto il lavoro di pensiero e di produzione culturale che essi occupano  Bucker Chi è impegnato nei lavori di cura occupano i posti più bassi della scala della retribuzione economica e del riconoscimento sociale, mentre chi occupa posizioni elevate tende a non riconoscere la sua dipendenza da chi pratica il lavoro di cura (es. self made man)  Tronto Di fatto chi svolge un’attività di cura esperisce uno scarso riconoscimento del proprio impegno. L’affermarsi degli anni settanta del welfare state e il conseguente sviluppo di studi sociologici su quello che viene chiamata social care, se hanno contribuito a fare della cura una questione politica e hanno iniziato a retribuire certe occupazioni di cura, non hanno però promosso quella cultura necessaria a scardinare la svalutazione cui sono sottoposte in genere le attività di cura. ALLA RADICE DEL DISVALORE DELLE PRATICHE DI CURA Lo scarso riconoscimento simbolico riservato alla cura si può spiegare con il fatto che il termine “cura” è associato, se non identificato, con l’universo femminile e il femminile è stato a lungo, e per certi aspetti lo è ancora, soggetto a una pesante svalorizzazione. Nella nostra cultura ha prevalso il soggetto maschile come essere razionale contrapposto al soggetto femminile come essere emotivo e, dunque, irrazionale, su questo dualismo si fonda l’allocazione del maschile nella sfera pubblica, che sola è considerata luogo in cui si genera cultura, e il confinamento del femminile nel privato visto come contesto della cura. Si può ipotizzare che l’aver esperienza del prendersi cura sia certamente determinante nello sviluppo della disposizione a impegnarsi in pratiche di cura, soprattutto in quella fase di vita in cui i figli sono più fragili e vulnerabili, e poiché, secondo la teoria della relazione con gli oggetti, i figli maschi costruiscono la loro identità separandosi dalla figura femminile che gli ha allevati mentre le figlie crescono identificandosi con la madre, sarebbero le figlie a sviluppare più facilmente la tendenza ad aver cura. Tutti, e non solo le donne, se disposti a mettersi in ascolto della dimensione logica fondamentale, sono capaci di cura, perché di tutti la cura è esperienza esistenziale primaria. Le donne dedicano una parte più o meno considerevole della loro esistenza alla cura lo fanno perché ne sanno l’essenzialità. Il problema sta, non tanto nella supremazia maschile, ma piuttosto nella mancanza di simbolico. È il simbolico che dà dignità al lavoro di cura, che dà misura, quella misura che manca quando il fare resta muto e non riconosciuto. Ciò detto rimane il fatto che l’immagine occidentale identifica la cura con il materno, con nota il materno come oblativo e quindi confina il materno nel privato, rendendo la donna subalterna al mondo maschile. Tuttavia, sbarazzarsi di un’eredità simbolica che ha imposto alle donne un ruolo riduttivo e sacrificale per conquistare un ordine simbolico che riconosca alla donna la capacità di autonomia, di razionalità, di partecipazione e un ruolo da protagonista negli spazi della politica, non deve significare l’esclusione da ogni riflessione del tema della cura e di quanto nelle pratiche di cura genera civiltà. LA MATERIALITÀ DELLA CURA A identificare il mondo della cura sono in genere le attività di accadimento dei bambini, di assistenza alle persone con handicap e agli anziani. In tutte queste pratiche è centrale l’aver cura del corpo: quando si tratta di bambini è il corpo di un soggetto non ancora autonomo, negli altri casi si tratta di un corpo malato o di un corpo che può aver perso molte delle sue

funzioni. L’aver cura sarebbe, dunque, concettualizzata come una pratica che, avendo come riferimento il corpo, tiene il caregiver, cioè chi fa il lavoro di cura, in connessione con la materialità della vita. Proprio perché libertà e materialità sono inseparabili, una buona qualità della vita implica non solo una buona qualità della vita spirituale, di quella sociale e di quella politica, ma anche una buona qualità della vita corporea. Di conseguenza le pratiche di cura del corpo, e in genere della vita materiale, in quanto ontologicamente rilevanti, necessitano di un adeguato riconoscimento simbolico. In conclusione chi pratica la cura come aver cura teso a promuovere nell’altro le possibilità di attualizzare il suo essere più proprio, conosce il valore di ciò che fa, e sapere che ciò che fa ha valore perché la cura è quel lavoro che sostiene la vita è argomento bastevole per dedicarsi alle pratiche di cura.

CAPITOLO 3: DALLA SOTTO-TEORIZZAZIONE AL RICONOSCIMENTO SIMBOLICO Se la cura, pur essendo una pratica ontologicamente fondamentale, non trova riconoscimento simbolico, allora la prima operazione da compiere è portarla al centro del discorso e consentirle di uscire dalla sua attuale condizione di scarsa teorizzazione. Il concetto di cura è una parola rimasta a lungo poco pensata e per questo nella nostra cultura la cura è qualcosa di molto vago, amorfo. Per questa ragione è necessario avviare un’analisi concettuale quanto più possibile accurata. Ogni ricerca nasce da una domanda. In questo caso, una volta deciso che la pratica educativa può essere interpretata come pratica di cura, la domanda generativa che si pone è la seguente: come si configura una buona pratica di cura in educazione? Quindi, è necessario procedere innanzitutto a un’analisi del concetto di cura, per poi individuare quali sono i tratti essenziali di una buona cura. CHE COS’È LA CURA? Innanzitutto la cura, indipendentemente dal modo in cui si attua, si profila nei termini di una pratica, cioè di un agire che implica precise disposizioni e che mira a precise finalità. La caratteristica di tale pratica è quella di soddisfare i bisogni di altri; a questo scopo è necessario un investimento di tempo e di energia ed è tale investimento che fa della cura una pratica. Esiste una cura, precisamente quella educativa, il cui fine è quello di mettere l’altro nelle condizioni di provvedere da sé ai propri bisogni, rendendolo capace sia di azioni cognitive, sia di azioni concrete per soddisfare bisogni e realizzare obiettivi. Nel suo significato più generale, la cura può essere definita una pratica che mira a procurare il benessere dell’altro e a metterlo nelle condizioni di decidere e di provvedere da sé al proprio ben essere. Non solo la cura è universale; essa è anche necessaria per coltivare ogni aspetto della vita umana, sia quella corporea sia quelli per così dire immateriali, cioè la vita cognitiva, emotiva e spirituale, quella che può essere definita vita della mente. Mentre gli altri lavori sono soggetti alla logica del progresso fondato sull’evoluzione tecnologica, il lavoro di cura è rimasto lo stesso nel corso del tempo, nessun dispositivo meccanico può sopperire all’assenza di un caregiver. Infatti, qualora manchi del contatto relazionale fra i soggetti, qualsiasi pratica che vuole essere di cura di fatto cessa di esserlo, dal momento che la cura nella sua essenza è relazione. La pratica di cura, inoltre, si realizza necessariamente in una relazione diadica, perché chi ha cura non può che aver cura di ogni persona nella sua unicità. Detto altrimenti, non si ha cura di molti contemporaneamente, ma di ogni persona considerata nel suo specifico profilo. Quindi si può dire che è la cura a creare la possibilità dell’esserci, il suo scopo è quello di promuovere il pieno fiorire dell’altro. Al centro, dunque, viene posto l’altro, nel senso che chi ha cura cerca innanzitutto di aiutare l’altro ad attualizzare le proprie originali direzioni esistentive, perché solo in questo modo anche chi ha cura trova la propria autorealizzazione. Se si vuole individuare una concettualizzazione si potrebbe individuare l’essenza della cura nell’essere una pratica relazionale che impegna chi ha cura nel fornire energie e tempo per soddisfare i bisogni dell’altro, bisogni materiali e immateriali, in modo da creare le condizioni che consentono all’altro di divenire il suo proprio poter essere sviluppano la capacità di aver cura di sé. Per essere efficace una pratica di cura dev’essere sostenuta da una politica della cura, dover per politica s’intende sia tessere relazioni con altri sia dare corpo ad azioni simboliche capaci di mostrare il valore della cura. ANALISI CONCETTUALE DELLA CURA La pratica di cura è analizzabile in base a: – PRENDERSI CURA ED AVER CURA: se la cura è priorità esistenziale dell’esserci e l’esserci è sempre aperto al mondo, allora la cura si presenta come un fenomeno la cui essenza è la relazionalità. La differenza fondamentale fra il prendersi cura delle cose utilizzabili e l’aver cura per gli altri è che la relazione con le altre persone non è quella









della semplice presenza, ma un essere con cura condivisa, o più esattamente una cura per un aver cura. La direzione autentica della cura è della cura è quella in cui si sa conservare l’altro nella sua essenza: la costituisce e la coltiva. NECESSITÀ E TRASCENDENZA: si può parlare della cura come lavoro del vivere, cioè quel lavoro connesso con la fatica e con la pena di soddisfare le esigenze primarie dell’esistenza. La cura come merimma, cioè come pena e affanno, nomina la condizione esistenziale dell’essere umano di dover far fronte a una situazione in sé problematica, poiché l’esistenza è costantemente a rischio di venir meno se non si agisce per procurare ciò che è necessario alla continuazione della vita e per riparare situazioni critiche, mentre la cura come eptimelata, cioè come sollecitudine e premura rispetto al proprio e altrui divenire possibile, dice il desiderio propriamente umano di cercare la miglior forma di vita possibile, quella in cui realizzare il proprio poter essere più proprio. OCCUPARSI E PREOCCUPARSI: si possono individuare da parte di chi ha cura due differenti modi di vivere la relazione con l’altro, l’occuparsi e il preoccuparsi. L’occuparsi è il procurare cose necessarie a conoscere, riparare, promuovere la qualità della vita senza un investimento personale, come una serie di mansioni da svolgere. Dove chi svolge la pratica di cura non si mette in gioco sul piano soggettivo. Il modo negativo dell’occuparsi è quello in cui l’altro è trattato come oggetto. Il preoccuparsi è un prendersi cura. In questo caso l’altro entra nei tuoi pensieri e comporta, quindi, ...


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