Forme metriche e stile appunti PDF

Title Forme metriche e stile appunti
Author mattia carrain
Course Stilistica E Metrica Sp.
Institution Università Ca' Foscari Venezia
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Appunti delle lezioni di forme metriche e stile del prof. T. Zanato...


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Letteratura Italiana II Forme metriche e stile Lezione 1 – 3.02.2020 La metrica riguarda il testo poetico e ne rappresenta uno dei più importanti caratteri formali. Riguarda la forma, è in parte legato alla linguistica anche se mantiene regole proprie. La metrica può essere definita come insieme di regole che permettono un certo tipo di versificazione (questo soprattutto dall’origine della poesia alla fine dell’Ottocento, dopo il quale interviene la versificazione libera). La metrica italiana si basa innanzitutto sul numero delle sillabe. Nonostante il concetto di sillaba risulti intuitivo, Serianni ne da una definizione dettagliata: sillaba è un fonema o un insieme di fonemi che costituiscono un gruppo fonetico stabile e ricorrente. Stabile in quanto lo ritroviamo sempre con le stesse caratteristiche in casi differenti, ricorrente poichè appare più volte. (“xyz”, ad esempio, è un non – suono, mentre “ba” è una sillaba in quanto è stabile e ricorrente, composta da due fonemi “b” e “a”). La sillabazione metrica ha problemi e questioni differenti dalla sillabazione linguistica. Problemi della sillabazione metrica: 1 – Incontro di due vocali consecutive all’interno di una stessa parola. Si generano due casistiche: a) DIERESI: il nesso di due vocali genera 2 sillabe b) SINERESI: il nesso di due vocali genera 1 sillaba. Es: CRED’IO CH’EI CREDETTE CH’IO CREDESSI (verso endecasillabo) CRE

D’I

O

CH’EI

CRE

DÉT

TE

CH’IO

CRE

DÉS

SI

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

Nel verso d’esempio troviamo un endecasillabo in cui in tre punti prevede il caso di due vocali vicine nella stessa parola. Con questa suddivisione D’IO è dieretico e viene scomposto in due sillabe, CH’EI viene invece considerato sineretico e contato in una sillaba così come CH’IO. In questo modo il conteggio delle sillabe è giusto e da vita ad un endecasillabo canonico in quanto per essere tale deve avere come ultima sillaba tonica la 10ª, mentre deve avere accenti secondari sulla 4ª, la 6ª o entrambe. In questo caso l’accento secondario è in 6ª. Lo stesso verso può però essere scomposto anche in altro modo, con un diverso uso di dieresi e sineresi nei tre casi: CRE

D’IO

CH’E

I

CRE

DÉT

TE

CH’IO

CRE

DÉS

SI

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

Con questa suddivisione D’IO è sineretico e viene considerato un’unica sillaba, CH’EI viene considerato dieretico e scomposto in due sillabe, mentre CH’IO viene considerato un’unica sillaba con sineresi. Anche questa suddivisione mantiene inalterati i valori degli accenti nelle posizioni corrette, dando vita ad un endecasillabo canonico. Anche in questo caso l’accento secondario è in 6ª. In questo caso poi i due IO presenti nel verso vengono trattati in modo simile ed uniforme, entrambi con sineresi. Si da enfasi al fatto “ch’ei credette”. (questa scomposizione è la consigliata). Proviamo la terza variante di scomposizione dello stesso verso: CRE

D’IO

CH’EI

CRE

DÉT

TE

CH’I

O

CRE

DÉS

SI

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

Con questa suddivisione D’IO è sineretico e viene considerato un’unica sillaba, lo stesso viene fatto con CH’EI che con sineresi viene considerato un’unica sillaba, mentre CH’IO viene considerato con dieresi e scomposto in due sillabe. Il conto delle sillabe è sempre di undici, ma non può essere considerata una scomposizione corretta in quanto questa non porta alla generazione di un endecasillabo: non vi sono accenti secondari in 4ª e/o 6ª sillaba ma in 5ª. La versificazione italiana, in ogni caso, predilige la sineresi.

1 – Trattamento del dittongo discendente (tonica + atona) in fine di parola . Di norma, nel verso, il dittongo discendente in fine di parola da vita ad una sineresi se esso si trova all’interno o a inizio del verso, se esso si trova invece a fine verso da vita ad una dieresi. MAI

NON

VO

PIÚ

CAN

TAR

COM’

IO

SO



VA

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

In questo caso il MAI è posto ad inizio verso ed è sineretico. PRI

MA

VE

RA

PER

ME

PIÚ

NO





I

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

In questo caso il MAI è posto a fine verso ed è dieretico. Ma, cercando una regola, quando si tratta di dieresi e quando di sineresi? La regola etimologica: a. Se in latino il nesso vocalico che si ripresenta in italiano valeva due sillabe, in italiano vale a sua volta due sillabe. Si ha dunque dieresi. QUEL

VI

SO A

DUN

QUE E

LA

PU E

RI

LE

IMÁ

GO

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

Questo verso di Boiardo, un endecasillabo, vede un caso particolare: è lo stesso boiardo che si corregge. La parola PUERILE in latino vede la scomposizione quadrisillabica PU – E – RI – LE, mentre nel computo delle sillabe contato da Boiardo esso è trisillabico, un errore. Secondo la regola la scomposizione in italiano rimane invariata. Ecco che allora lo stesso Boiardo modifica il verso rendendolo corretto. Lo cambia così: QUEL

VI

SO A

DUN

QUE E

LA

GE N

TI

L I



GO

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

La parola GENTIL ha scomposizione trisillabica e in questo modo garantisce un computo sillabico corretto. b. Se abbiamo una vocale in latino che è diventata doppia vocale in italiano, abbiamo una sola sillaba in italiano. (si tratta della “e” breve e della “o” breve latine) Ad esempio pedem = piede rimane sempre una sola sillaba pe – dem = pie – de c. Il dittongo latino “au” era monosillabico, rimane monosillabico anche in italiano. Esso si riduce spesso ad una “o” italiana. Ad esempio aurum = oro. d. Nessi latini “consonante + l + vocale” (che in italiano vede la “l” diventare “i”) rimangono monosillabici in italiano. Ad esempio plus = più ed è monosillabico, plenum = pieno ed è monosillabico e. La “i” solo grafica non fa dieresi. Vi sono casi infatti in cui la “i” è scritta solamente per distinguere una pronuncia palatale da una pronuncia velare. Ad esempio non fanno dieresi cielo e figlio in quanto le “i” sono solo grafiche per evitare la pronuncia figlo e celo.

f. Dittonghi ascendenti con vocale “a” “e” “o” atona seguita da vocale tonica sono bisillabi, prevedono dunque dieresi. Un tempo le dieresi nei dittonghi ascendenti venivano sempre segnate con il simbolo di dieresi, ora non più in quanto si danno per scontate. 2 - Nesso tra vocali in parole contigue Si generano due casistiche: c) DIALEFE: le due vocali contigue valgono due sillabe, d) SINALEFE: le due vocali contigue valgono una sillaba. TAN

T’ E

RA

PIEN

DI

SON

NO

A

QUEL

PÚN

TO

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

In questo verso dell’Inferno di Dante abbiamo un esempio della casistica sopra citata. A molti puristi questa scomposizione non andava a genio. Non consideravano adeguata la scomposizione sillabica con dialefe. Ecco che da un certo periodo venne apportata una modifica per rendere il verso scomponibile con sinalefe: TAN

T’ E

RA

PIEN

DI

SON

NO IN

SU

QUEL

PÚN

TO

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

g. Fine parola tronca con vocale tonica e vocale successiva solitamente si da vita sia a sinalefe che a dialefe. MA

PUR



A

SPRE

1 SO

2 N A

3 NI

4 MA

5 LI AL

1

2

3

4

5

VIE



6 7 MON DO 6

7



SEL

VÁG

GE

8 DE

9 SÌ AL

10 TÉ

11 RA

8

9

10

11

caso di dialefe

caso di sinalefe Oltre al numero di sillabe, alla base della metrica italiana si ha anche la loro accentazione. Bisogna sempre considerare in che posizione si trova l’ultima sillaba tonica. Possono esserci parole piane, tronche, sdrucciole, bisdrucciole … Piane: hanno l’accento sulla penultima sillaba; Tronche: hanno l’accento sull’ultima sillaba; Sdrucciole: hanno l’accento sulla terzultima sillaba; Bisdrucciole: hanno l’accento sulla quartultima sillaba. In generale le parole italiane sono piane e hanno l’accento sulla penultima sillaba. L’endecasillabo, di conseguenza, nella maggior parte dei casi ha accento sulla 10ª sillaba. Se finisce con parola tronca avrà l’accento sulla 10ª e sarà di dieci sillabe, se finisce con parola sdrucciola avrà l’accento sulla 10ª ma avrà 12 sillabe, se bisdrucciola avrà l’accento sulla 10ª ma conterà 13 sillabe. L’endecasillabo dunque ha generalmente 11 sillabe. L’endecasillabo deriva dal decasillabe francese. Le parole francesi infatti sono soprattutto tronche e hanno accento sull’ultima sillaba. e) Decasillabo: prevede come ultima sillaba tonica la 9ª f) Novenario : prevede come ultima sillaba tonica l’ 8ª g) Ottonario: prevede come ultima sillaba tonica la 7ª h) Settenario: prevede come ultima sillaba tonica la 6ª i) Senario: prevede come ultima sillaba tonica la 5ª j) Quinario: prevede come ultima sillaba tonica la 4ª k) Quadrisillabo o Quaternario : prevede come ultima sillaba tonica la 3ª l) Trisillabo o Ternario: prevede come ultima sillaba tonica la 2ª m) Bisillabo: qualunque parola isolata con accento sulla 1ª sillaba. Ungaretti usa nelle sue poesie una scomposizione molto particolare che vede in alcuni casi versi composti da una sola parola (bisillabo). Per questo la critica lo contestò spesso. Raggruppando però diversamente i suoi versi si nota spesso che vanno a comporsi versi tradizionali. Un suo verso quinario più un verso bisillabo e un verso

quadrisillabo vanno a formare o un settenario e un quadrisillabo o un endecasillabo. n) Versi a misura doppia: ad esempio il doppio settenario vede sulla stessa riga due settenari. Viene chiamato anche verso “alessandrino” perché usato dal poeta francese Alexandre de Bernay che lo usò nelle sue opere, oppure chiamato anche “martelliano” poiché usato da Pier Jacopo Martelli nella seconda metà del 600.

Lezione 2 – 4.02.2020 L’endecasillabo si attesta come il verso più importante della poesia italiana. Esso ha delle caratteristiche fondamentali senza le quali non possiamo considerarlo tale: o) l’ultima sillaba tonica è la decima; p) l’accento secondario deve essere presente sulla quarta sillaba, o sulla sesta, o su entrambe. Parliamo di endecasillabo a maiore quando è presente l’accento secondario sulla sesta sillaba; Parliamo invece di endecasillabo a minore quando l’accento secondario è sulla quarta sillaba. Un endecasillabo che non prevede tali caratteristiche è detto aritmico (senza ritmo). Un esempio di endecasillabo aritmico è dato da Cino da Pistoia MA

SO

VÈN

TE

MI

RIN

FÒR

ZA

LO



CO

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

In questo caso l’ultima sillaba tonica è la decima, come l’endecasillabo chiede, ma gli accenti secondari sono di terza e di settima e, di conseguenza rendono aritmico l’endecasillabo. L’endecasillabo ha la sua origine nel decasyllabe francese, un verso composto da dieci sillabe formato da due emistichi: il primo con un accento di quarta, il secondo con uno di decima. Esempio di questa versificazione francese è data da Falquet. L’incipit di questo verso verrà poi ripreso da Dante nella Commedia, più precisamente nel Purgatorio. TANT

M’ A

BEL

LÌS

L’ A

MO

ROS

PES

SA

MÈNS

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

Questo verso di Folquet de Marselha, ha un incipit famoso. Esso verrà usato da Dante nel purgatorio. La Rima La rima è l’esatta identità di suono di due parole, a partire dall’ultima vocale tonica in poi. L’assonanza è una rima imperfetta. Riguarda la corresponsione di suoni vocalici a partire dall’ultima vocale tonica in poi. Esempio Dante: morto scorto ricolto La consonanza riguarda la corresponsione di suoni consonantici. Esempio: sgombro timbri Una rima più che perfetta, detta rima ricca, è quella che ha corresponsione non solo dall’ultima vocale tonica, ma anche con qualche suono precedente. Esempio: sentero altero Secondo il sistema metrico italiano si può far rimare “o” aperta e “o” chiusa, “e” aperta ed “e” chiusa. Secondo il sistema metrico francese questo non è possibile, veniva considerata solo la rima perfetta. Questo tipo di rima si afferma anche in italia. È caratteristico del siciliano, mentre lo schema italiano si è affermato dopo che la poesia siciliana è stata copiata e ripresa dalla poesia toscana. Il sistema siciliano prevedeva 5 suoni vocalici (”a”, “e” aperta, “i”, “o” aperta, “u”), mentre nel volgare toscano erano presenti 7 suoni vocalici (”a”, “e” aperta, “e” chiusa, “i”, “o” aperta, “o” chiusa, “u”). Si dovette quindi traslare

l’apparato di regole per soli 5 suoni vocalici ad una realtà di 7 suoni vocalici. Non era più prevista la sola rima perfetta come era invece in siciliano. Ā (lunga)

Ă (breve)

Ē (lunga)

Ĕ (breve)

Ī (lunga)

Ĭ (breve)

Ō (lunga)

Ŏ (breve)

Ū (lunga)

Ŭ (breve)

A

A

I

Ɛ

I

I

U

O

U

U

A

A

E

Ɛ

I

E

O

Ɯ

U

O

siciliano toscano Rima siciliana: è una particolare tipologia di rima che prevede la rima di “o” chiusa con “u” e di “e” chiusa con “i”. Dante e Petrarca ne fanno uso. Rima guittoniana o aretina: particolare tipologia di rima in cui con “u” rimano “o” chiusa e aperta, con “i” invece rimano “e” chiusa e aperta. Il nome è dato dal fatto che questa tipologia è usata da Guittone d’Arezzo. La rima svolge una funzione strutturante. Grazie alla posizione delle rime nei versi diamo infatti vita alle strofe. (ricorda che il’endecasillabo nello schema di rime è indicato con lettera maiuscola, il settenario con lettera minuscola). Disposizione delle rime: q) Rima baciata: la rima di due parole in versi consecutivi, “attaccati”. AABB r) Rima alternata. ABAB s) Rima incrociata: ABBA t) Rima incatenata: usata nella Commedia di Dante, in essa ogni terzina richiama la precedente e annuncia la successiva con un legame a catena. Questa scelta denota la ricerca di un metro narrativo. Lo schema ABA – BAB – CDC – DCD non è uno schema che prevede incatenamento, quello usato da Dante infatti è ABA – BCB – CDC – DED. La prima e l’ultima rima di ogni canto poi si ripetono due volte Distinzione tipologica delle rime: Dal punto di vista della tipologia e dello stile possiamo suddividere le rime in: u) Facili: rime in cui sono disponibili molte parole. Tra le rime facili sono presenti le rime desinenziali (derivate dalla desinenza delle parole come –ato), e le rime suffissali (derivate dal suffisso delle parole come –ente); v) Difficili: sono rime in cui sono disponibili poche parole (un esempio è la rima in –ulcro fatta da Dante sepulcro – ulcro – appulcro); w) Rima aspra o consonantica: sono rime aventi molte consonanti; x) Rima equivoca: rime tra parole foneticamente uguali ma con significato diverso; y) Rima identica: rime tra parole identiche foneticamente e semanticamente. Dante nella Commedia fa rimare Cristo esclusivamente con Cristo, poichè non c’è altra parola degna di rimare con lui. z) Rima composta, spezzata o franta: rima formata dalla somma di due o più parole (con accento artificioso). Esempio Dante: rima oltre – poltre CHE

AN

DA

TE

PEN

SAN

DO



VOI

SÒL

TRE?

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

In questo caso non si considera la parola “tre” tronca, bensì si arretra l’accento in decima, considerandola alla stregua di una unica parola piana. Esempio Dante: rima oncia E

MEN

D’ UN

MEZ

ZO

DI

TRA

VER

SO

NÒN

CI

HA

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

12

Si considerano unite le ultime tre sillabe / parole e si prende come unico accento quello in decima.

aa) Rima in tmesi (in taglio – tagliata): la parola rima si spezza in due, una parte a fine verso e l’altra all’inizio di quello successivo. È frequente nelle rime con –ente la scomposizione nelle due sottoparole che compongono la parola (naturalmente = natural / mente). Si fa quindi una scomposizione etimologica. bb) Rima ipermetra: è una rima fondamentalmente imperfetta. Si tratta della rima di una parola sdrucciola con parola piana o viceversa. Esempio amico – canìcola (non consideriamo la sillaba finale “la” nell’economia della rima). Veccia – intrecciano (stessa valutazione per il “no”) cc) Rima al mezzo: la rima cade alla fine di un emistichio del verso (sulla quarta o sulla sesta sillaba), cade insomma all’interno con però una suddivisione geometrica. La rima al mezzo va segnata tra parentesi tonde in lettera minuscola. dd) Rima interna: la rima è interna al verso ma cade in qualsiasi posizione. Non ha suddivisione geometrica. ee) Non rima (verso irrelato): si tratta di un verso che non rima con nessun altro verso del componimento. ff) Rima zero: si parla di rima zero quando, ad esempio, si decide che in ogni strofa di un componimento il verso “x” (un nume...


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