I Pensieri della notte di Domenico Rea PDF

Title I Pensieri della notte di Domenico Rea
Author emmanuel ammutinato
Course Letteratura Italiana Contemporanea
Institution Università degli Studi di Salerno
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Saggio su "I pensieri della notte" di Domenico Rea ...


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I «Pensieri della notte» di Domenico Rea: ovvero «la pelle» di Napoli Matteo Palumbo 1. Questa è davvero una stagione propizia per riavvicinarsi all’opera di Domenico Rea. Il meritorio volume mondadoriano, apparso solo qualche anno fa e curato con la migliore competenza da Francesco Durante (Rea 2005a), ha avuto il merito di riproporre con forza la questione di uno scrittore aspro e addolorato, teso come una lama dentro le ferite perennemente aperte nel corpo di Napoli e delle creature che sono in questa città. «Creature» non è un termine ovvio, patetico e logorato. Si tratta, anzi, di una parola solenne: particolarmente cara allo scrittore di Spaccanapoli e da riascoltare nella giusta intensità che essa conserva. Proprio Rea invitava a riscoprire nell’etimo da cui deriva la dimensione primitiva di qualunque essere, appena uscito dalle mani del Creatore e difeso dall’unica, esile protezione della propria carne. Napoli, nella evocazione di Rea, diventa «questo luogo oscuro e infernale, dove gli uomini si chiamano “vermi” e i bambini “creature” (questo termine dà precisa l’idea di un corpo umano indifeso e appena rivestito di un fragile velo di carne)» (Rea 2005b: 1342)1. Questa natura prima, perennemente viva e dolente, è un elemento centrale nell’intera opera dello scrittore di Nocera. Essa agisce con la legge dei propri impulsi, con il furore di appetiti eterni, con la violenza innocente di bisogni «animaleschi»2. Il mondo di Rea 3 è, in questo senso, un mondo arcaico e antico . E il napoletano che respira la vita dei suoi giorni, «uomo stranamente primitivo, […] oggetto di amore pieno, senza vergogna, carico del concetto pagano del godimento che è la vita in atto» (Rea 2005b: 1337), è descritto «in questo momento di grandiosa solitudine e di meditazione sul suo destino» (ivi: 1339). 1

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Il saggio apparve per la prima volta in «Paragone Letteratura» nel 1951 e fu ripreso successivamente in Quel che vide Cummeo, nel 1955. Si può ricordare che, nel testo del 1951, Rea aveva adoperato «gente» al posto del termine «vermi», che rimanda in maniera più marcata al romanzo di Mastriani, Per intendere la centralità di questo scritto nell’insieme dell’opera di Rea cfr. almeno Di Consoli (2002). Sul «realismo creaturale» di Rea si trovano osservazioni fondamentali in Guarini (2005). Rea (2005b: 1339): «E il napoletano resta solo, con la sua miseria, nel suo abituro, fuori dei tempi moderni, tanto i suoi problemi sono animaleschi». Precisamente secondo il significato con cui Raffaele La Capria caratterizza l’universo di

Rea: «Ma Rea, nelle sue punte più riuscite, è “antico”, cioè precedente alla “napoletanità”» (La Capria 1990: 67).

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Matteo Palumbo

Le passioni restano feroci come nel primo giorno della vita. Ignorano la storia che si muove, che muta pelle. Questa Napoli città-mondo continua ad avere dentro di sé, nei vicoli del suo sottosuolo, una materia infetta, che sfugge a qualunque terapia. Nei luoghi bui di un tempo senza divenire resiste, mai dissolto, un invincibile orrore, un grumo di violenza e di pena. Uno strazio tremendo oscura la luce dell’esistenza, lasciando tracce continue della sua presenza eterna. Così può accadere che in «una delle più antiche viscere di Napoli […] uno, che finge di non saper che vive nel Duemila, pensa di stare in pieno Seicento» (Rea 1987: 59); altrove Rea cambia il secolo, ma lo sfalsamento dei secoli resta il medesimo: «“Siamo noi” disse Igalo; in questa Napoli del Settecento prolungatasi nel Duemila» (ivi: 74). Un’altra vita scorre sotto il velo di qualunque ennesima illusione di «sorti magnifiche e progressive». E questa vita è il tema stesso della autentica raffigurazione di Napoli.

2. Rea ha mantenuto una sostanziale fedeltà all’archetipo di una città feroce e crudele, eppure perpetuamente viva. Dai racconti iniziali fino alle ultime pagine della sua opera ha continuato a dare forma e voce a una realtà immobile, uguale a sé stessa. Dentro i suoi confini si muovono creature in preda a bisogni e a istinti, condannate a sentire la tremenda potenza di entrambi. Come si sa, Rea non ha scritto solo racconti o romanzi e testi teatrali, ma è stato anche un acuto e potente saggista. Una parte cospicua dei suoi interventi è confluita in due volumi, in qualche modo l’uno contiguo all’altro. Si tratta del Diario napoletano (Rea 1971) e dei Pensieri della notte (Rea 1987), raccolta di articoli apparsi sul 4 Mattino e stampati per la prima volta da Rusconi . In particolare i Pensieri della notte meritano un’attenzione specifica per la loro peculiare natura. Proprio nella costruzione di un’opera come questa Rea prova a mettere insieme tutti gli aspetti della sua fisionomia artistica: il saggista originale e coraggioso, il celebrato autore di racconti e il meno apprezzato costruttore di romanzi. Soprattutto in rapporto a tale prospettiva, il testo offre una marcata originalità che merita di essere definita. I Pensieri della notte, infatti, fondono due tratti dell’esperienza di Rea, spesso pensati in antitesi tra loro: il romanzo e il racconto. Come se l’abilità prima, riconosciuta immediatamente da tutti i lettori, di saper offrire magnifiche storie 4

Entrambi i testi non sono compresi nella raccolta curata da Durante (cf. Rea 2005). I Pensieri della notte sono stati ripubblicati nel 2006 da una meritoria casa editrice come Dante & Descartes di Raimondo Di Maio, con la prefazione di uno studioso come John

Butcher, agguerrito conoscitore delle opere di Rea (cf. Rea 2006).

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brevi, avesse pesato sulla capacità di ordire romanzi, dotati di uno sviluppo più lento e articolato. Quando organizza il suo nuovo testo, Rea, tuttavia, allestisce un romanzo di specie tipica. Lo costruisce utilizzando frammenti distinti, autonomi, che tuttavia non restano indipendenti. Si richiamano l’uno con l’altro, si succedono in progressione lineare, si combinano in modo da comporre un unico sistema. Questo sistema costituito di unità autonome deriva dalla natura dell’opera e dalla sua genesi. I singoli pezzi, si è già anticipato, erano in origine articoli scritti per il «Mattino». Questi interventi, tuttavia, ora sono ripresi come capitoli consecutivi di una organica narrazione. Il libro che nasce acquista, attraverso la sequenza stabilita dallo scorrere degli eventi e in forza della compiutezza supplementare che la storia guadagna, un pregio autosufficiente. Si presenta sotto specie di un’unità fatta di cellule distinte ma affini, che tutte insieme compongono un organismo a sé. Si può sostenere paradossalmente che si tratta di un romanzo fatto di racconti. Questa formula, che sembra descrivere un curioso azzardo, identifica, invece, una specifica avventura del linguaggio e dell’immaginazione. Il risultato ottenuto diventa un modo preciso di raccontare Napoli. Prima di tutto, riproduce, con la sua tessitura variata, la forma plurale, stratificata ed eterogenea, che la città ha. I Pensieri della notte costituiscono, infatti, un’esplorazione del corpo di Napoli. Ne disegnano l’identità fatta di luoghi mol5 teplici e perfino reciprocamente incompatibili . Mostrano i destini differenziati 6 che popolano il suo spazio , ciascuno con la sua incomparabile storia. Perché Pensieri della notte? Il protagonista di queste avventure si muove tendenzialmente quando la città sprofonda nel buio e solo allora sembra vicina a svelare un’altra sua identità. La notte altera la rappresentazione ordinaria delle cose. Scompiglia l’automatismo regolare dello sguardo e fa emergere una seconda realtà: un volto ancora più cupo e sfigurato, o, al contrario, sorprendentemente pacificato. In questo tempo capovolto in cui si abitua a muoversi il prota5

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«Napoli ha tante differentissime zone per cui siamo dell’opinione che fino a poco tempo fa gli abitanti di Posillipo non conoscevano quelli di Forcella e questi come quelli avevano abitudini e costumi diversi. Ci siamo convinti che, nei tempi antichi, Napoli era come gli Stati Uniti» (Rea 1987: 14). Basti pensare, su tutti, al ritratto di Donna Ruffinella, emblema di quella coesistenza di sopraffazione e di vitalità propria di Napoli: «La sua vita è stata un inferno o, come diceva Mastriani, quella di un uccello ad ali spiegate lanciato nel fuoco. Ha una faccia con uno strappo allo zigomo, una bocca che tira a sinistra su alcuni residui di denti. Sembra che abbia ricevuto un colpo alla spalla destra e cammina, appoggiando, ogni tanto, la mano alla coscia destra. Eppure, non c’è donna più lieta e giuliva e più attaccata alla tradizione della sua miseria. Se si potesse la si dovrebbe sollevare su un piedistallo come la statua di ciò di cui è stata capace Napoli nella sua allegra spietatezza contro le sue vitti-

me» (ivi: 59). Della stessa specie è il ritratto del garzone di fioraio Giacumiello (ivi: 26).

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gonista-scrittore, testimone ed osservatore, esce di casa. Segue, in compagnia di altri picari inquieti come lui, itinerari anche comuni, che tuttavia di giorno sono intransitabili e ostili. Si muove attraverso luoghi, spazi, paesaggi che appaiono ora, nel ribaltamento delle abitudini, secondo una prospettiva ignota. I pensieri, nell’ordine del libro, si succedono numerati uno dopo l’altro. Ciascuno di essi contiene il resoconto di un’avventura accaduta. Tutti insieme danno forma a una sorta di enciclopedia delle esperienze possibili a Napoli: comiche, grottesche, esilaranti, folli o dolorose. Può perfino accadere che la stessa «Napoli, che di 7 giorno sembra l’intruglio di un pacco intestinale, fra l’alba e l’aurora è una città lieve e sospesa. Sta più in alto del mare. Il Vesuvio e il Faito si potrebbero accarezzare come due pecore. Le navi in porto, con i lumi accesi, si stagliano sul cielo. Fanno pensare ad avventure ai confini del mito» (Rea 1987: 31-32). Quasi l’epifania di un altro mondo, un mito luminoso e aereo, estraneo alla pesantezza 8 quotidiana di patimenti e di ripetute aggressioni . Questo mito pure esiste, nascosto sotto la superficie diurna di una patologia diffusa e normale, propagata da «macchine e lanzichenecchi» (ivi: 13), che sono gli esclusivi padroni del gior9 no . La visione «lieve e sospesa», che segna il passaggio dall’alba all’aurora, si congiunge con un opposto sentimento, che è chiamato, altrove, un «senso di terrore e di sporco addosso» (ivi: 105). Le due condizioni sono parte l’una dell’altra e costituiscono, insieme, l’essenza della città. Attraverso le avventure inconsuete dei personaggi che la osservano, essa si rivela talvolta nelle sue improvvise, inattese bellezze, ma più spesso, al contrario, si incupisce dentro una oscurità più tenebrosa e selvaggia. La duplicità insopprimibile di tenebra e di luce, di «tempestoso» e di «azzurro», è, d’altra parte, il contrassegno stesso di Napoli, la ragione della sua perturbante eccezione: «Un cielo, a momenti tempe10 stoso e goyesco, un secondo dopo diventa azzurro e sonoro di sole» (ivi: 8) . Proprio come in un moderno romanzo picaresco, gli eroi di queste prodigiose avventure notturne avanzano sulla «strada maestra attraverso il mondo natio» 7

Analoga immagine della topografia di Napoli, applicata alle descrizioni di Mastriani, era già stata utilizzata nelle Due Napoli: «I quartieri di vicoli rassomigliano a un intricato apparato intestinale» (Rea 2005b: 1341). 8 Allo stesso modo è descritta Pozzuoli: «Non siete mai stati a Pozzuoli tra alba ed aurora? Malissimo. Qui tutto è sospeso nell’aria. Pozzuoli è un miraggio da carta topografica antica» (Rea 1987: 11). 9 Cosi termina il primo brano: «Si era fatto giorno. Cominciavano a spuntare macchine e lanzichenecchi da tutte al parti. E allora pensai che era meglio andarsi a nascondere in casa in attesa della prossima notte» (ivi: 13). 10 Altrove si legge: «il cielo di Napoli anche nero, nerissimo ha sempre un foro donde piove

una luce abbagliante» (ivi: 50).

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(Bachtin 1979: 311). Attraversano bettole e vicoli, conoscono personaggi emar11 ginati o ribaldi, mangiano cibi rabelaisianamente eccessivi , si imbattono in fi12 gure di aggiornati, luciferini monatti . Lo sguardo eccentrico che nasce dentro la notte getta una luce inedita sugli uomini e sulle cose. Grazie a un tale coerente straniamento, i personaggi, le strade, i luoghi, gli oggetti acquistano un’intensità più forte. Sono trasfigurati. Rivelano la verità del loro essere. Per Rea l’obiettivo principale dell’atto estetico consiste proprio nella capacità di saper trasfigurare i fatti: rendendo gli eventi più veri, vedendoli meglio e più a fondo, e perciò restituendoli, agli occhi del lettore, più carichi di senso. A Mastriani, che pure aveva saputo guardare dentro i vicoli di Napoli, Rea rimproverava esattamente l’incapacità di mostrare il senso potente delle cose, non solo descrivendole, ma proprio trasfigurandole: «nei 114 romanzi di Mastriani, l’arte, sfortunatamente, decade e i romanzi si trasformano in macchine apoplettiche che 13 riproducono i fatti fedelmente senza trasfigurarli» (Rea 2005b: 1341) . La notte è il reagente che, nel racconto di Rea, permette questa trasfigurazione. La autorizza attraverso gli scenari ignoti che essa rivela. Altera la registrazione meccanica del mondo e permette che la sua anima segreta emerga con rinnovata evidenza. Nel Pensiero n. 2 Rea lascia che un mondo intero sia visualizzato a partire dai residui deposti nei sacchetti dei rifiuti. Come in un ragionamento indiziario, a partire dalla qualità dei resti, analizzati e classificati con rigorosa tassonomia, il «caporione» dei netturbini ricostruisce un intero microcosmo. Per mezzo dei «sacchetti enfi come otri, menci come vesciche, mal legati, aperti o sfondati» (Rea 1987: 17), arriva così a isolare, uno per uno, i diversi tipi umani che lo compongono, distinti per geografia e per qualità di comportamento: «Guardate qua: queste so’ spine di baccalà e ceci. Certamente si tratta di un vicentino. A Vicenza ho fatto il soldato e questo mangiano, baccalà, mattina e sera. Qua c’è un resto di fagioli a’ maruzzaro. Certamente si tratta di un napoletano. Come questo qua, che, vedete, dev’essere un porco. Guardate quanti preservativi. Dico 11 «[…] sulla tavola troneggiava una zuppiera colma di carnacotta e di “per ’e ’o’ musso”: carne callosa delle estremità del porco e della vaccina bollite , fette di limone e sale. Roba che si mangia con le mani. Ed era squisito. Poi, Filuccia […] ha scaricato una sperlunga di alici fritte. Per terzo piatto: perciatielli con sugo di alici e peperoncino; per quarto: salsicce e patate e per quinto: testine di agnello e ’ntestinielli, ossia intestini di capretto» (Rea 1987: 61). 12 «In quel mentre è arrivato il terribile carro dei monnezzari. Più che addetti alla N.U. e più che spazzini − sbracati, sporchi con bicipiti da forzati o da tubercolotici − i netturbini sembravano monatti» (ivi: 15-16). 13 Sui romanzi di Mastriani cfr. anche le osservazioni contenute in Le illuminazioni di Mastriani, nello stesso volume di Rea (2005a: 1449-1472). Sull’importanza dell’idea esteti-

ca di trasfigurazione mi permetto di rinviare a Palumbo (2007)....


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