Il metodo di Lachmann PDF

Title Il metodo di Lachmann
Author Shohrat Amanov
Course Storia della lingua italiana
Institution Università per Stranieri di Perugia
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Summary

Filologia Italiana - Il metodo di Lachman...


Description

Delle due parti in cui Lachmann divise la critica del testo - recensio ed emendatio – la seconda era pratica fin dall’antichità. Capitolo 1 Le edizioni principi umanistiche furono basate su codici recenti. Esse riproducevano un testo aggiustato e abbellito da copisti. Questo testo, diffondendosi, costituì la vulgata. Per correggerla si poteva ricorrere a congetture o alla collazione di codice ritenuti più autorevoli. Anche i fautori dei codici non solevano mettere a fondamento costante delle loro edizioni i codici che essi ritenevano migliori ma mantenevano la vulgata e ai codici ricorrevano solo dove la vulgata non soddisfaceva: non recensio e emendatio, ma due tipi di emendatio: l’emendatio ope codicum e ope ingenii. Nell’età umanistica il più rigoroso fautore dell’emendatio ope codicum fu Poliziano. Nei Miscellanea primi e scondi egli ricorre di rado a congetture ma contrappone alla lezione depravata quella genuina. Spesso però aggiunge una considerazion di carattare genealogico: i codici recenti sono copie del più antico, non hanno valore di tradizione indipendente. Nell’800 questa operazione di eliminatio codicum descriptorum è diventata un comodo espediente per risparmiare tempo al filologo. In Poliziano c’è anche al consapevolezza che la congettura, quando necessaria, deve prendere le mosse dallo stadio più antico della tradizione: un criterio che solo in età lachmanniana troverà riconoscimento. Poliziano aveva capito la necessità di collazionare i codici sistematicamente, registrando tutte le lezioni divergenti dal testo vulgato: giù incominciava a superare il concetto di emendatio ope codicum, che implica saltuarietà e non costanza delle collazioni. L’orientamento di Poliziano verso una critica testuale conservativa si ritrova con Pier Vettori, il quale rimane esitante quando una lezione è attestata concordemente dai codici antichi. Era un’esitazione legittima finché non si fosse giunti al concetto di archetipo. All’uso di questo concetto era arrivato Erasmo. Prima si pensava che gli umanisti indicassero col termine archetypum l’esemplare ufficiale, invece un’indagine realizzata dalla Rizzo, ha messo in chiaro che indicava anche il termine di manoscritto da quale tutti gli altri sono derivati. Ciò che ancora manca per arrivare all’uso lachmanniano di archetipo è la limitazione del termine ai soli capostipiti perduti. L’importanza di Erasmo sta nell’affermazione del diritto di correggere una lezione che appare erronea senza lasciarsi intimidire dal consensu codicum: non è stato commesso lo stesso errore da ciascun copista ma il responsabile è solo uno e i copisti successivi lo hanno ripetuto. I filologi francesi del 500 sentirono l’esigenza di ricercare codici antichi e di utilizzarli per le loro edizioni: tra questi Giuseppe Scagliero. Egli fu il primo a porsi il problema della ricostruzione d’archetipo medievale, polemizzò contro gli interpolatori quattrocenteschi ma comprese che a loro volta i codici antichi sono inquinati da corruttele che devono essere sanate per congettura. Egli sviluppò l’esigenza di una collazione completa dei codici. La conoscenza del materiale manoscritto fu accresciuta grazie a filologi olandesi del 600, tra cui Nicolaas Heinsius. Riguardo al testo di Petronio, egli compre che molte anomalie non dipendevano da corruttela ma dallo stilo personale dell’autore. Le discussioni riguardo a Heinsius derivano dal fatto che egli fu una personalità di trapasso, mezzo umanista e mezzo filologo. Nel 600 l’esame dei codi fece progressi in estensione piuttosto che in profondità: gli spunti di storia della tradizione manoscritta di Poliziano, Erasmo e Scagliero, non furono sviluppati. Grandi capacità di sviluppare i codici ebbe Richard Bentley. Nel suo modo di lavorare il ricorso ai codici e il lavoro congetturale non si susseguirono ma si intrecciarono. Questo aspetto dell’attività critico testuale fu messo in luce solo 100 anni dopo la sua morte, grazie a Lachamann. Egli sosteneva che la congettura, proprio perché impegna la responsabilità del filologo, finisce col dare risultati più sicuri che l’accettazione della lezione tramandata o la scelta tra varianti. L’argomento aveva la sua verità ma tendeva a porre come meta dell’edizione critica il testo migliore secondo il gusto dell’editore, e non quello storicamente più probabile. Nell’edizione di Orazio le congetture bentleiane

sono correzione no alla lezione tramandata ma al poeta. Filologi del 700 seguirono il suo esempio, era congetturatori ma sentirono l’esigenza di rifarsi ai codici. Capitolo 2 A far progredire la tecnica della recensio furono soprattutto gli studi sul Nuovo Testamento greco. Lo ha osservato Giorgio Paquali e ne ha indicato le ragioni: il N.T. ha una tradizione manoscritta ricchissima; poco vi è da fare per la critica congetturale. E qui, ogni questione critico testuale, implicava questioni teologiche. L’editio princeps del NT greco, curata da Erasmo, era eseguita in fretta ma la maggior parte delle edizione successive riprodusse, con quel contaminazione, il testo dell’editio princeps. Una di queste edizioni ebbe la massima diffusione e fu adottata dalle chiese protestanti. Ogni tentativo di introdurre modificazioni nel testo incontrò l’opposizione dei teologi. Nei paesi protestanti tale intolleranza fu più forte che nei cattolici. Bisogna però aggiungere che un simile equivoco, per cui il textus receptus era venerato come la tradizione e il ritorno ai codici antichi appariva un’innovazione temeraria non era caratteristico dei soli teologi, ma derivava da quell’errore di prendere per base la vulgato, salvo poi emendarla ricorrendo ai codici e alle congetture. Del resto, se i più ostinati difensori del receptus furono protestanti, fu lo spirito stesso della Riforma a promuovere la critica testuale neotestamentaria e dei testi classici. Ai principii ispiratori della Riforma si appellò il Wettstein, il quale capiva che essi rimanevano vivi negli sviluppi razionalistici delle correnti eretiche del protestantesimo. A tali correnti appartennero i critici neotestamentari: Le Clerc, Johannes Vossius e il Grotius, Semler, Benegl. In confronto i cattolici contribuirono poco alla critica del NT greco, tranne Simon. Quest’ultimo si pose problemi di autenticità, di stratificazione, di critica stoica. Il Le Clerc si occupò invece di questi stessi problemi, anch’egli con una critica fortemente razionalistica. Egli trattò testi latini e greci profani, applicò i suoi principii insieme alla filologia latina, greca ed ebraica, nell’esemplificazione di cui correda l’Ars Critica ricorre a passi dell’antico e nuovo testamento. L’indirizzo conservativo di Ars Critica più volte consiglia la sua polemica contro le congettura. Nell’epoca in cui Le Clerc operava era però giustificata: Le Clerc sa bene che i testi antichi sono in più punti corrotti, sa che molte corruttele sono già antiche, e lo documenta con ricchezza di testimonianze. Si rende conto che la maggior parte degli errori proviene dal fatto che i copisti non trascrivono parola per parola: ammette l’esistenza di corruttele inspiegabili. L’Ars Critica quindi spianò la strada allo sviluppo della critica testuale neotestamentaria. Il primo progetto di edizione del NT si deve a Bentley, il cui scopo era quello di difendere l’autorità del testo biblico contro i liberi professionisti (deisti). Egli progettò un’edizione basata sul confronto dei più antichi codici greci con la Vulgata latina e con e citazione nei testi patristici. Egli si rendeva conto che la recensio doveva venire in primo piano rispetto alla critica congetturale ma il suo progetto incontrò l’opposizione dei teologi. Lui volveva metter da parte il receptus e rifarsi ai codici. Su questa via abbiamo Bengel e Wettstein. Spetta al Bengel il merito di aver cercato per primo di determinare i rapporti di parentela tra i manoscritti. Egli si basò anche sulla comunanza di lezioni; secondo lui tutta la storia della tradizione neotestamentaria avrebbe potuto essere riassunta in una tabula genealogica, cioè quello che più tardi si userà chiamare stemma codicum. Ciò secondo lui avrebbe fornito un criterio sicuro per la scelta tra le varianti: l’importante è che una lezione sia attestata dalla maggioranza delle famiglie; solo all’interno di ciascuna famiglia, per ricostruire la lezione del suo capostipite, ha valore la maggioranza dei codici. Il Bengel ribadisce che la garanza dell’antichità di una lezione è data dal consenso di codici appartenenti a diverse famiglie. Il Wettstein proseguì la polemica contro il receptus iniziata dal Bentley ma rimase attaccato al criterio di maggioranza. Tuttavia nei Prolegomena, egli dava la preminenza ai criteri interni, ossia usus scribendi e lectio difficilior. L’usus scribendi era già ben noto ai grammatici antichi, l’avevano poi usato i filologi dei secoli XV e XVII. Anche del criterio della lectio difficilior si possono trovare anticipazioni; il primo a formularlo era stato Le Clerc.

Nel secondo 700 Semler distinse tra antichità del codice e antichità delle lezioni da esso attestate: un codice più recente di un altro può contenere lezioni più antiche. Intanto i filologi classici si erano accorti di essere rimasti indietro rispetto ai teologi. L’esigenza di porre i codici a fondamento perpetuo del testo venne riaffermata dall’Ernesti nella sua prefazione a Tacito e da Wolf all’inizio dei Prolegomena. L’uno e l’altro osservarono che, seguendo il metodo di ricorrere ai codici solo quando la vulgata non soddisfa, si finiva col lasciare nel testo piccole corruttele. Solo dopo una recensio sistematica si potrà passare all’emendatio congetturale. Così il vecchio concetto dell’emendatio ope codicum era superato. Anche l’esigenza di uno studio genealogico dei manoscritto si andò diffondendo tra i filologi classici in quell’ultimo trentennio del 700. L’Ernesti chiarì il principio che più codici derivati da un medesimo capostipite valgono per uno. In tanti casi è impossibile tracciare uno stemma codicum a causa della contaminazione. Capitolo 3 Nel primo quindicennio dell’800 si assiste a un ritorno a vecchie posizioni. I due maggiori critici testuali, Hermann e Bekker, rimasero estranei all’esigenza di una recensio sistematica. Hermann arrecò contributi di importanza decisiva allo studio della metrica ma per la tradizione manoscritta non ebbe interesse: le sue edizioni sono fondate su edizioni precedenti e i miglioramenti apportati al testo dei poeti greci sono frutto di congettura o di scelta basata su criteri interni. Il Bekker invece fu un esploratore di codici eppure, non pensò mai ad una recensio sistematica, si lasciava guidare solo dal suo senso di lingua e di stile. Questo regresso spiega in parte l’impressione di grande originalità di Lachamann. Quest’ultimo iniziò la sua attività con l’edizione di Porpoerzio, a cui seguirono quelle di Catullo e Tibullo. In questa prima fase del suo pensiero, il Lachmann afferma che il compito più urgente è quello di fornire edizioni diplomatiche, le quali riproducano la tradizione manoscritta nella forma più antica per noi raggiungibile. Fino ad allora le edizioni critiche erano state per lo più esegetiche; il Lachmann invece dà edizioni meramente critiche. Quanto alla tradizione manoscritta, egli insiste sulla distinzione tra codici interpolati e non interpolati. I codici che contengono interpolazioni umanistiche devono essere scartati. In questa polemica per la verità il Lachamann si sente vicino a Scagliero. Accanto alla pura esigenza di verità documentaria, si avverte un motivo critico estetico: la lezione originaria è più bella dell’interpolata. Ma una volta esclusi i codici interpolati, come costituire il testo là dove i non interpolati divergono tra loro= il Lachmann non ricorre a nessun criterio meccani per determinare la lezione originaria, anche perché non traccia una genealogia dei codici. La distinzione che egli fa tra codici sinceri e interpolati riguarda solo il loro valore, non la loro origine: lui non elimina gli interpolati perché copie di codici tuttora esistenti, ma perché non fededegni. Egli finì col basare le sue edizioni su un numero ristretto di codici. Inoltre svolgeva un’intensa attività critico testuale anche nel campo della poesia medievale tedesca, dove portò un metodo rigorosamente filologico e contribuì alla nascita di un indirizzo scientifico di studi. In questa parte della sua attività si può notare il suo interesse e la maggior cura nel ricercare il materiale manoscritto, nell’indagare i rapporti di parentela tra i codici. Ecco quindi il Lachmann germanista affermare che per ricostruire un testo nella sua forma originaria occorrono almeno 4 codici. E a questa critica, prima di testi classici, tentò di applicare un criterio meccanico di scelta delle varianti. Purtroppo le regole formulate sono un vero rompicapo che lo stesso Lachmann finì per non utilizzare. Capitolo 4 Nel quindicennio 1830-45 possiamo distinguere nell’attività critico-testuale del Lachmann due linee parallele: da un lato una serie di testi tramandati in un codice solo o in una sola editio princpes; dall’altro il NT, di cui uscì l’editio minor nel 31 e l’editio maior nel 42. Il Lachmann attuò ciò che Bentley aveva progettato: un’edizione fondata solo sui codici antichi e sulla Vulgata di S. Girolamo.

Accanto all’esempio del Bentley, agì sul Lachmann quello del Bengel: le due famigle del NT corrispondono alla due nationes del Bengel; da lui deriva il metodo meccanico di scelta delle varianti. Lachamann scrive: ogni lezione comune a entrambe le famiglie dimostra di essere diffusa e merita di essere accolta nel testo; pari autorità hanno la lezione di una famiglia e quella contrapposto dall’altra famiglia; da eliminare è una lezione attestata solo da una delle due famiglie. A questi casi, il primo subisce una quadripartizione. La terza regola introduce una considerazione geografica: la concordanza di alcuni codici di una famiglia con alcuni di un’altra ha maggior valore se i codici provengono da luoghi molto lontani tra loro. La lontananza è garanzia contro la contaminazione. Sull’importanza di questo criterio ha insistito Pasquali. Il criterio delle aree laterali può essere inteso in due modi diversi, uno meccanico e l’altro socio culturale. Nel primo caso si tratta di un calcolo di probabilità: se due testimoni a grande distanza l’uno dall’altro concordano bisognerà concludere che essi conservano tradizione genuina. Invece nella formulazione dei neolinguisti e del Pasquali, l’accento batte sul fato sociale culturale: la provincia è più arretrata del centro, la garanzia della maggiore arcaicità dei fatti attestati nelle aree laterali è data dal minore dinamismo e prestigio culturale di chi le abita. Lach mann distingue tra recensio ed emendatio, ma ribadisce anche il distacco della recensio dall’interpretazione. Il recensere sin interpretatione era una pura vanteria perché, una volta compiuta l’eliminatio lectionum singularium, restava una gran massa di varianti di pari autorità documentaria tra cui anche il Lachmannn doveva scegliere in base a criteri interni. Capitolo 5 Nel quarto decennio dell’800, altri filologi avevano apportato al metodo critico testuale contributi di importanza notevole. Orelli ebbe il merito di ravvivare l’interesse per l’indagine dei rapporti genealogici tra i manoscritti. La sua edizione ciceroniana stimolò lo stesso Madvig a dare, nell’epistola ad Oriellum, un primo abbozzo genealogico della tradizione delle Verrine. Anche Zumpt, scolaro del Wolf, aveva appreso l’esigenza di dare un testo basato sui codici migliori. Nell’edizione delle Verrine, per la difficoltà di procurarsi collazioni attendibili, aveva dovuto cominciare a lavorare su vecchie edizioni a stampa; solo in un secondo tempo poté risalire da queste ai codici. Un’innovazione tecnica importante era lo stemma codicum che lui tracciava a conclusione e a riassunto della sua indagine. È questo il primo stemma? No: lo Zumpt tracciò il suo stemma senza sapere di avere un precursore nello Schlyter. Ancora prima di Schlyterm Goerenz aveva riassunto in una tabella la sua suddivisione in due classi dei codici del De Legibus e del De finibus, ma era ancora una classificazione secondo il valore dei manoscritti e non secondo i loro rapporti di derivazione. Lo Zumpt invece indica già la filiazione dei codici e introduce per primo anche il termine stemma. Al Wolf si riconnette anche il giovane Ritschl, il quale propone anche di ricostruire i precisi rapporti genealogici tra i manoscritti. Egli realizza uno stemma dei codici in cui i manoscritti perduti sono indicati con le lettere greca (vedi pag.63), ma non precisa le relazioni tra i capostipiti. Rispetto allo Zumpt, il Ritschl compie un passo in avanti, in quanto precisa la posizione di ciascun codice nello stemma, mentre lo Zumpt si era accontentato di indicare alcuni gruppi di codici affini. Ritschl si trovò di fronte a una tradizione molto contaminata e dovette indicare per parecchi testimo ni una duplice derivazione. Con lo stesso metodo, indagò le tradizione manoscritte di Dionigi d’Alicarnasso e di Plauto. In questi casi riassunse in uno stemma codicum i risultati a cui era giunto. Ma a questa capacità di ricostruire la storia di un testo non fece ricorso nel Ritschel l’esigenza di utilizzare lo stemma per determinare le lezione dell’archetipo: egli non ricorse mai a regole meccaniche per l’eliminatio lectionum singluarium, quali erano state indicate dal Bengel e dal Lachmann. Forse non conosceva le regole formulate dal Lachmann o forse gli sembrò che quelle regole non avessere utilità pratica. Così il Ritschl e il Lachmann presentano un contrasto: l’uno appassionato alla storia della tradizione, l’altro con lo scopo di liberare il testo dalle interpolazioni tarde e di restituirne la forma più antica a noi raggiungibile. Tra i due vi era anche differenza espositiva: Ritschel era amante della

chiarezza didattica, Lachmann prediligeva lo stile oracolare (anche per questo non usò lo stemma codicum). Nel 1833 Madvig tracciava uno stemma codicum, il quarto in ordine di tempo dopo Schylter, Zumpt, Ritschl. Qui compaiono due innovazioni: il Madvig fa risalire le sue tre famiglie di codici a un unico capostipite medievale perduto e lo indica con l’espressione codex archetypus, la quale assume il preciso significato tecnico che ancora oggi le attribuiamo. Inoltre si propone esplicitamente di utilizzare lo stemma per ricostruire le lezioni dell’archetipo. Qui dunque l’esigenza genealogica del Ritschl è congiunta al metodo meccanico di Lachmann. Poco più tardi il Sauppe pubblicava l’Epistola critica ad Hermannum, un modello di esposizione chiara di alcuni principii della recensio e dell’emendatio. Egli si soffermò sull’elimiatio codicum descriptorum. [Più tardi Boivin in una annotazione autografa all’inizio del Parisuns graec dimostrò che il testo contenuto in quel codice era la fonte di tutti gli altri manoscritti conservati. Il Boinvin si accorse anche che li apografi erano stati tratti dal Parigino]. Il Sauppe estese il procedimento dell’eliminatio anche al di là dei limiti consentiti: incominciava così la tendenza a elimiationes volontaristiche. Capitolo 6 Gli ultimi due lavori critico testuali del Lachmann furono i Gromatici e Lucrezio. Quest’ultimo era il più adatto per applicarvi i canoni della nuova ars critica: pochi codici medievali i cui rapporti genealogici sono ricostruibili. Anche per Lucrezio, come per Cicerone, la via era stata indicata dall’Orelli e Madvig. Il primo aveva accennato alla derivazione di tutti i codici lucreziani da un unico capostipite; il secondo aveva confermato la testi e notato la parentela tra la Schedae e uno dei due Vossiano, (il Quadratus). Nel 1845 Lachmann cominciò a lavorare alla sua edizione che vide la luce nel 50, anno in cui l’università di Bonn bandì un concorso per un lavoro sul testo lucreziano vinto da Bernays. Anche lo studioso Purmann aveva affrontato gli stessi problemi. Ai lavori di Purmann e Bernays, il Lachmann accenna con sufficienza e si esime dal citarli nel suo lavoro. Il Lachmann si ritiene l’ideatore del termine archetypon, che invece era dovuto a Madvig. In realtà tra il lavoro di Purmann e di Bernays c’è differenza. Il primo proponeva congetture acute ma si limitava ad arrecare conferme a ciò che aveva notato Madvig sulla derivazione di tutti i codici da un archetipo e sull’importanza dell’altro Vossi...


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