Il principio maggioritario PDF

Title Il principio maggioritario
Author Diletta Rugini
Course Giurisprudenza
Institution Università degli Studi di Perugia
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IL PRINCIPIO MAGGIORITARIO Edoardo Ruffini  Figlio di Francesco Ruffini (l’autore de I diritti di libertà, 1926), Edoardo Ruffini fu particolarmente attento al fenomeno delle volontà collettive, a cui dedicò numerosi studi  Pubblicò Il principio maggioritario nel 1927, in pieno fascismo, pochi anni dopo che la Legge Acerbo (1924) aveva alterato le regole della rappresentanza politica, mettendo in pratica la «tirannia della maggioranza»  Chiamato ad insegnare dal 1° novembre 1931 nell’Università di Perugia, appena un mese dopo fu richiesto di prestare il giuramento di fedeltà imposto dal regime fascista a tutti i professori; si rifiutò di giurare e fu perciò costretto a lasciare la cattedra (che riprenderà nel 1947)

Le costituzioni elleniche e il contributo del pensiero filosofico greco al problema delle maggioranze Le grandi monarchie d’oriente non conoscevano sovranità se non come dispotismo, né amministrazione se non come gerarchia. Le prime deliberazioni collettive organizzate le troviamo in quelle fucine di civiltà, in quei veri laboratori di esperienze politiche, che furono le città-stato greche. E’ la Grecia la terra d’origine del principio maggioritario. Le prime decisioni per maggioranza ci appaiono sotto forma di un’assemblea che acclama, da un lato, e di un capo, dall’altro lato, che giudica se prevale il favore o il disfavore. Gli spartani avevano perfezionato questo sistema ma Aristotele, avendo sotto gli occhi la costituzione di Atene li deride dicendo che la loro procedura era infantile. Ad Atene i candidati sfilavano, secondo l’ordine determinato dalla sorte, davanti all’assemblea, che al passaggio di ognuno manifestava con urla il proprio favore o di sfavore. Ma a giudicare chi avesse riscosso le grida di simpatie più intense toccava ad un uomo collocato in maniera da poter soltanto udire l’assemblea senza vederla. Il primo esempio di maggioranza calcolata avviene quando Tucidide pone all’assemblea degli Spartani il partito della guerra contro Atene e non pontendo distinguere quale voce fosse maggiore, ordinò che l’assemblea si dividesse secondo le opinioni  prevalse il partito della guerra. La maggioranza decideva poi fra i cinque efori a Sparta. Aristotele dopo aver attribuito alle tre forme perfette di governo, l’aristocrazia, l’oligarchia e la politia, i tre caratteri differenziali della virtù, della ricchezza e della libertà, soggiunge che a tutte è comune il principio del prevalere della maggioranza. È con la politia, il governo popolare, che il principio maggioritario più profondamente si compenetra. Per Aristotele, se l’uguaglianza non è in ragione del merito, ma del numero, la decisione della maggioranza coincide con la giustizia assoluta, perché si fonda sul principio che tutti i cittadini hanno poteri uguali. Il limite del potere della maggioranza è individuato da Aristotele nella legge, che garantisce dalla tirannia e dall’oppressione della minoranza: il limite della legge fa sì che il danno alla minoranza sia un danno allo Stato.

La costituzione romana e il contributo del pensiero giuridico romano al sistema maggioritario A Roma un vasto campo di applicazione era precluso al principio maggioritario: le magistrature collettive. Per l’istituto dell’intercessio, il dissenso di un collega arrestava ogni procedimento, anche nelle magistrature composte di più di due membri, come il Tribunato della plebe. Nella procedura comiziale il principio maggioritario era applicato con un semplicismo brutale, da travisare spesso la volontà stessa dei cittadini. Nei comizi tributi quando si trattava di eleggere, le tribù votavano contemporaneamente e ognuno proponeva tanti nomi quanti erano gli uffici da ricoprire. I candidati che in ogni tribù avevano avuto la maggioranza relativa dei voti, erano ritenuti eletti da quella tribù  quindi il presidente sorteggiava la tribù dalla quale si doveva cominciare lo spoglio, proclamava, sommandoli, i risultati della votazione di ogni tribù, finché e tanti candidati quanti erano i posti da ricoprire avessero avuto una maggioranza assoluta rispetto a tutte le tribù.

A questo punto si troncavano le operazioni e i voti delle altre tribù non erano neppure più considerati. Nei comizi centuriati succedeva più o meno lo stesso con la gravante che, essendo i cittadini chiamati al voto sempre in ordine decrescente di censo, la cessazione delle operazioni elettorali appena ottenuta la maggioranza favoriva necessariamente più ricchi. Anche quando nei comizi si trattava di deliberare e non di leggere, lo spoglio era troncato appena il sì o il no era prevalso  equi appunto possiamo rilevare un tratto caratteristico del principio maggioritario in Roma. Per i giuristi romani quello che vuole la maggioranza (anche la metà più uno dei voti) deve ritenersi come voluto da tutti. Fingere che la maggioranza sia la totalità è una scelta ‘decisionista’: ci si rassegna ad adottare il principio maggioritario perché difficilmente in un’assemblea tutti sono dello stesso parere.

La Chiesa primitiva non ammette che l’unanimità L’ordinamento corporativo di romani e l’ordinamento municipale non hanno però tramandato alla Chiesa il sistema di votazione loro proprio: il maggioritario. La ragione di questo fatto va cercata in alcune idee proprie del cristianesimo, che seppe imprimere una fisionomia particolarissima a tutta la dottrina canonica degli atti collettivi. Nella funzione di eleggere e di deliberare il cristianesimo sovrappose alla volontà umana la volontà divina. Ciò introduceva un nuovo fattore ideale e trascendente e di tanta potenza che valse a trasportare l’istituto elettorale dalla sfera del diritto alla sfera della rivelazione  questo non è un fatto nuovo infatti esiste in tutte le società primitive una tendenza ad affidare alla sorte le più gravi decisioni. La Chiesa primitiva è sostanzialmente in quest’ordine di idee, ma la tradizione cristiana si stacca dalle altre tradizioni similari, per un tratto che le è tutto proprio. Non potrà essere, per lei, un evento esteriore il portavoce divino: la sorte avrebbe troppo sapore di oracolo. La voce divina non può parlare che nel segreto della coscienza. La religione sovrappone alla volontà degli uomini la volontà di dio. Se gli elettori sono meri testimoni della volontà divina, il suffragio non potrà essere che unanime. Le maggiori difficoltà a raggiungere il pieno accordo dei suffragi la Chiesa le incontrò nei concili, ove la delicatezza delle materie trattate non sempre si presentava ad un voto per acclamazione. Mentre era proprio nelle più delicate di tutte, quelle relative alla fede, che la Chiesa si tenne stretta con maggiore fermezza all’ideale dell’unanimità. Per 11 secoli la Chiesa non ha riconosciuto che elezioni e deliberazioni unanimi; spesso però non erano che unanimità fittizie, conseguenza o della persuasione della minoranza, convertita al volere dei più, o della scomunica dei dissidenti.

La dottrina della sanioritas Quando la persuasione e la conversazione non erano possibili la Chiesa superava le eventuali, anzi in evitabili discordi con la cosiddetta teoria del sanioritas, ossia della prevalenza della parte più ‘sana’ o saggia o migliore del collegio, spesso fatta coincidere con il superiore gerarchico, al cui voto veniva attribuito un peso maggiore (sanioritas = maggiore auctoritas). Sanioritas = i voti non vengono più contati, quando l’ideale dell’unanimità è irraggiungibile, ma pesati in base ad un criterio di qualità o gerarchico. Nella chiesa i corpi elettorali hanno quindi, oltre al diritto di eleggere, anche il dovere morale di eleggere bene, secondo un principio di giustizia obiettiva, di cui è interprete e giudice un’autorità estranea al corpo elettorale medesimo: il superiore gerarchico  egli riconosce ogni volta in quali coscienze il soffio divino sia penetrato: questo era l’unico mezzo per salvare il mistico principio della deliberazione collettiva canonica. Intanto nuovi campi si aprirono nell’ambito della Chiesa, alla pratica e alla teoria delle deliberazioni collettive, in forza di quel fenomeno storico singolare per la sua universalità, che fu l’usurpazione dei diritti elettorali del popolo da parte di una corporazione laica o ecclesiastica. Rispetto all’elezione dei pontefici romani mancano un superiore gerarchico che giudicasse delle qualità dei cardinali e della loro scelta; così si dovette adottare per necessità il principio maggioritario. Il Concilio Lateranense III (1179) stabilì che per tutti i procedimenti elettorali dovesse valere il principio della maior et sanior pars, mentre l’elezione del papa doveva farsi con la maggioranza qualificata dei 2/3.

La teoria classica della finzione fu posta alla base degli ordinamenti corporativi. Ora il diritto canonico nel creare la teoria delle persone giuridiche, non ripudiò la finzione umana ma nella proposizione “la maggioranza equivale alla totalità” integrò il significato puramente aritmetico di maggioranza con la valutazione morale formulata dalla Chiesa. Dapprima prevalse la dottrina: quando la minoranza supera in impegno, autorità e dignità la maggioranza, quest’ultima soccombe. Altri sostenevano che dovesse prevalere il partito ove concorrevano due almeno dei tre requisiti: numero, zelo e dignità. In un secondo momento prevalse poi la tesi che numero e sanità dovessero concorrere, cosicché se un partito aveva per sé il primo e l’altro il secondo, nessuna deliberazione era valida. Gli inconvenienti pratici di questo sistema risultavano subito evidenti e allora si ricorse alla presunzione che la maggioranza numerica fosse anche la parte più sana del collegio, salvo prova contraria. L’onere della prova spettava alla minoranza anche se composta di un uomo solo; il giudizio sul ricorso toccava sempre il superiore. Era questo il primo passo verso il principio maggioritario  ma non si tardò a farne un secondo. La prova contraria non sarà più ammessa quando la maggioranza numerica sia notevole  e fu questa la dottrina che divenne legge per opera di Gregorio X nel Concilio di Lione del 1274. La difficoltà di combinare insieme i due criteri (maior et sanior pars) portò ad una soluzione che di fatto farà prevalere il numero sulla sanità, la quantità sulla qualità: la soluzione dettata dal Concilio di Trento fu quella di ordinare la segretezza degli scrutini, che tolse la possibilità pratica di pesare i voti. Importanza della modalità delle procedure di voto: il voto segreto cambia spesso l’esito della votazione rispetto al voto palese.

La dottrina dei canonisti e dei leghisti sul problema della maggioranza La separazione fra diritto civile e diritto canonico è stata nettamente segnata e giustificata da un canonista del 400, il cardinale Alessandrino. Egli spiega che nelle terre dell’Impero basta la maggioranza numerica senza la sanità  così vuole il rigore delle leggi civili, dato che ogni membro capace della corporazione e pari a qualsiasi altro membro.ma il diritto canonico che segue l’equità e non le sottigliezze del diritto, deve risolvere le faccende corporative non solo in base al numero, ma in base alla saggezza e alla maturità delle deliberazioni. Il canonista Sinibaldo de’ Fieschi ha spiegato che la sanioritas non ha voluto negare alla maggioranza numerica una certa capacità di decidere bene  egli crede che il membro di un collegio non piò rappresentare un membro assente perché non può votare due volte. I Civilisti se ne curano ancora meno dei Canonisti.

Il medioevo barbarico segna il trionfo dell’unanimità Il medioevo barbarico segna la preistoria del principio maggioritario. I popoli nordici avevano delle deliberazioni un concetto che stava a quello dei romani come tutta la loro civiltà stava quella latina. Gli individui appartenevano al gruppo in quanto e fin quando ne avevano interesse, fin quando i vantaggi che i singoli ricavavano dalla comunanza non erano annullati dei sacrifici che la comunanza stessa imponeva  ci riferiamo a tutti quei multiformi raggruppamenti di individui, di carattere privato e politico insieme che assorbono quasi totalmente la personalità individuale primitiva. Nuclei, che entro un organismo statale primitivo, ove pure malfermi sono i confini tra pubblico e privato, possono facilmente porsi in contrasto e minacciare la secessione e la guerra. La risoluzione del conflitto di volontà dipendeva unicamente dalla direzione nella quale si rompeva l’equilibrio fra le forze centripete e le forze centrifughe sollecitato i degli enti minori rispetto a quello maggiore  prevalevano le prime e la parte più debole cedeva/prevalevano le seconde e si veniva alle armi. Con il rassodarsi del vincolo statale, e la più netta e stabile delimitazione territoriale dello Stato stesso, si rese sempre più difficile la secessione dei dissidenti. In relazione a ciò, il conflitto armato, comunque terminasse, diveniva sempre più pericoloso per entrambe le parti e allora si venne alla votazione. La votazione è l’anticipazione di quello che sarebbe stato il risultato probabile del conflitto armato che si voleva evitare.

Negli ordinamenti barbarici alto medievali, in cui a dominare era il principio della forza e la collettività prevaleva sui singoli individui, era fatale che dominasse la regola dell’unanimità (vox populi, vox dei). La conseguenza logica che ci aspetteremmo dalla genesi delle votazioni sarebbe il riconoscimento immediato del principio maggioritario  invece prevalse il principio dell’unanimità. Le ragioni di questo fenomeno sono molte e complesse; alcune hanno vaste radici psicologiche, altre non dipendono che le circostanze esteriori e fortuite. Anche quando il gruppo venne a rappresentare non solo una causale raccolta di uomini ma un’entità politica, la concreta e ingenua mentalità del barbaro non seppe elevarsi al concetto di un ente collettivo distinto dei singoli membri, e quindi tanto meno a quello della volontà di un ente che non fosse la somma dei voleri dei singoli. Le maggioranze non erano disposte a farsi contraddire  da questo formalismo risorse la violenza che la votazione avrebbe dovuto bandire. Posta infatti l’unanimità come condizione per poter ritenere efficace una deliberazione, ne venne che la maggioranza fosse tentata di imporre con la forza alla minoranza di consentire. C’erano poi delle ragioni obiettive che favorivano l’unanimità fra i popoli primitivi e contribuivano a rinsaldare l’idea che questa fosse necessaria. È stato osservato come la probabilità di raggiungere l’unanimità in un’assemblea cresca in ragione inversa del livello intellettuale dell’assemblea stessa. L’acclamazione è la progenitrice di tutti gli scrutini, l’espressione vocale della propria volontà: il frastuono delle voci, il rumore degli applausi, lo strepito delle armi soffocano il dissenso e lo riducono al silenzio. L’acclamazione doveva dare l’espressione di una volontà unitaria. L’unanimità era favorita poi anche dal fatto, che il voto si riduceva alla semplice alternativa di accettare o respingere una proposta di coloro che godevano maggiori autorità. Le fonti medievali parlano quasi sempre di assemblee che approvano, raramente di assemblee che disapprovano, quasi mai di uno o pochi individui che si mettono contro la corrente predominante dell’assemblea. Gli stessi modi di esprimere la volontà collettiva sono prevalentemente positivi alle origini. Nell’età del Sacro Romano Impero il principio maggioritario entrò progressivamente anche nel mondo germanico. Nel 1356 Carlo IV con la Bolla d’Oro introdusse definitivamente il principio maggioritario nell’elezione dell’imperatore. Il ruolo dell’elemento psicologico: la paura di essere minoranza, la convenienza di votare come votano i più, condizionano l’espressione della volontà: quando un voto è veramente libero?

Come il principio maggioritario entrò nel mondo germanico Con il progredire delle istituzioni e la conseguente estensione delle norme del diritto a una sfera sempre più vasta di rapporti, i primitivi sistemi di deliberazione collettiva furono superati anche nel mondo nordico. Si trasformavano i mezzi per ottenere l’unanimità. L’obbligo di piegarsi non fu più imposto alla minoranza della forza fisica della maggioranza, ma fu sancito da una norma di diritto positivo. Il principio maggioritario lo possiamo trovare in qualsiasi diritto, che abbia subito l’impronta di quello germanico. Però il diritto non richiedeva solo alla minoranza di accertare le conseguenze di quando i più avessero voluto, ma richiedeva un vero e proprio atto di consenso formale e palese. Il principio maggioritario non era che è un mezzo per ottenere l’unanimità; e essendo l’unanimità indispensabile, la minoranza commetteva un vero e proprio reato se, con il suo dissenso, la ostacolava  alcuni diritti stabiliscono quali dovevano essere le sanzioni penali, ad esempio per i giudici islandesi era l’esilio, per i danesi era una multa. È singolare l’assurdo, a cui il culto dell’unanimità ha potuto dar luogo. Assurdo giuridico, secondo l’insegnamento classico, perché ne risultava un’obbligazione è un atto positivo, un facere  e qui si rivela la scarsa praticità del sistema germanico di fronte a quello romano, che aveva considerato la minoranza come inesistente, evitando così il rischio di una sua eventuale resistenza passiva. Assurdo etico, in quanto che si costringeva un uomo ad approvare ad alta voce ciò che nel suo intimo disapprovava.

L’elezione del Re in Germania Dalle lezioni di colui che doveva ricevere dal Papa la corona dell’impero, la superstizione dell’unanimità non fu sradicata del tutto che ai primi anni 300. E leggeva il re, un tempo, per concorso di tutte le stirpi tedesche. Concorso simultaneo o anche successivo poiché non sono rari i casi in cui l’eletto costringeva con rappresaglie a sottomettersi quelli che al momento dell’elezione avevano disertato l’assemblea per non riconoscerlo. Verso la metà del XIII secolo i sei grandi principi (gli arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia, il conte Palatino, il marchese di Brandeburgo e il Duca di Sassonia) convertirono il loro privilegio di disegnare il candidato all’approvazione dell’assemblea in un esclusivo diritto elettorale. Il collegio fu poi integrato con l’aggiunta del re di Boemia, ma ad onta che così si raggiungesse un numero dispari favorevole all’applicazione del principio maggioritario, questo non vi fu adottato. L'assenza di ogni regola per risolvere i dispiaceri provocò non solo le disastrose guerre fra i re e anti-re, che seguivano le frequenti duplici elezioni, ma fu ancora uno dei più abusati pretesti di lotta tra papato e impero. Molte volte infatti l’elezione discorde offrì al Papa l’appiglio per immischiarsi nelle faccende di Germania. Il primo tentativo di risolvere una di quelle scissure con il mezzo del principio maggioritario lo fece Innocenzo terzo nella contesa tra Filippo di Svevia e Ottone di Brunsvick; ci furono altri tentativi di carattere polemico. La spinta decisiva verso l’applicazione del principio maggioritario la diede l’arcivescovo di Treviri nel ‘300. Gli elettori tedeschi laici sarebbero stati ricompensati del perduto diritto con danari e terre; mentre quanto a quelli ecclesiastici il Papa avrebbe pensato a ridurli all’obbedienza. L’arcivescovo di Treviri, Balduino, nel decreto elettorale, affermò il carattere corporativo del collegio dei principi elettorali, nel senso che titolare solo ed esclusivo del diritto elettorale fosse il collegio come persona giuridica e non i suoi componenti, ai quali non restava che la funzione di nominare. Da ciò conseguiva che non ne restava più per nulla intaccata l’unità del collegio, finché rimaneva una maggioranza decisa a difendere la preziosa prerogativa dell’impero. Insieme al principio corporativo trionfava il principio maggioritario. Il principio corporativo divenne poi la mamma più tagliente di Ludovico il Bavaro nella contesa con Federico da Austria e anche nella contesa con Curia Romana. Il principio maggioritario dopo tanta laboriosa preparazione del terreno politico, fu interrotto definitivamente da Carlo IV con la Bolla d’Oro (1356) che disciplinò in maniera esauriente e definitiva l’elezione imperiale. Il sistema germanico del principio maggioritario fu efficace  infatti finché l’unanimità nel campo politico riveste quel carattere indifferenziato e approssimativo, che corrisponde al modo s...


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