La comunità terapeutica per persone tossicodipendenti- Coletti Grosso PDF

Title La comunità terapeutica per persone tossicodipendenti- Coletti Grosso
Author Aida Gurgoglione
Course Modelli e tecniche di intervento nei servizi di comunità
Institution Università di Bologna
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Summary

Riassunto capitoli 1-2-3-5...


Description

Le comunità terapeutiche 1. 50 anni di storia delle comunità, le lezioni apprese •

La prima comunità terapeutica per tossicodipendenti nasce in California sul finire degli anni '50 ad opera di Charles Dederich, un ex alcolista. É il periodo in cui i consumi aumentano, soprattutto nella popolazione giovanile, e la droga non è più appannaggio delle classi elitarie quindi non sembrano più adeguate le uniche due strategie allora presenti: detenzione e internamento in strutture psichiatriche. La comunità di Dederich, e quelle che ad essa si ispirarono, si basa sui principi degli alcolisti anonimi, uno dei più estesi movimenti basati sull’auto-mutuo aiuto uniti alla residenzialità (struttura alla cui gestione gli ospiti partecipavano attivamente), su una totale astinenza dalla sostanza, sul lungo periodo e sul totale rifiuto dei trattamenti tradizionali (medici e farmacologici).



In Italia le prime comunità nascono negli anni '70 (quando il boom economico aveva generato anche un aumento dei consumi di stupefacenti) ad opera di gruppi religiosi o del mondo del volontariato, non hanno un modello chiaro e spesso non sono guidate da ex tossicodipendenti o professionisti ma da persone spinte da un sentimento altruistico (sono comunità di vita prima che terapeutiche); ebbero un grande impegno anche sul fronte sociale e politico. -Tra le più importanti ci sono il Gruppo Abele: fondato da don Luigi Ciotti, che nel 1974 aprì la prima comunità agricola italiana per persone tossicodipendenti, a Murisengo. Un’attenzione particolare venne data al reinserimento lavorativo e alla creazione di posti di lavoro (tramite cooperative di tipo B). Nel 1982 su iniziativa del Gruppo Abele nacque il CNA (Coordinamento Nazionale delle comunità di accoglienza) a cui aderiscono attualmente 250 gruppi e associazioni. -Un’altra realtà è il Progetto uomo del gruppo Ceis (centro italiano di solidarietà) fondata da don Mario Picchi, essa si distinse per due scelte: venne data voce al soggetto, prima che alla demonizzazione della droga e fu avviato un centro studi del Ceis. La comunità si fondava su un lavoro intenso di formazione e non sullo spontaneismo. Era peculiare anche per il suo essere aperto vs l’esterno e di sperimentazione continua (uso dello psicodramma, approccio umanistico di C. Rogers, l’intervento psicoanalitico, ecc.). -La comunità di San Patrignano fu fondata nel 1978 da Vincenzo Muccioli sulle colline di Rimini, essa si caratterizza per tre punti: 1) l’assoluta dipendenza dal leader (sistema piramidale), 2) il coinvolgimento dei residenti in attività di lavoro e responsabilità progressive, 3) il rifiuto di qualsiasi ricorso a trattamenti farmacologici e psicologici. L’obiettivo principale era quello di abbandonare lo stile di vita precedente e il consumo di sostanze a esso connesso. Attualmente vi è più un’apertura verso le relazioni esterne. -Saman di Rostagno, fondata nel 1981 vicino Trapani dal sociologo Mauro Rostagno, con aspetti di filosofia orientale, il perseguimento di una disciplina interiore, centralità sul proprio corpo e sulla motricità. -Villa Maraini gestita dalla CRI di Roma, residenziale e diurno, si occupa anche della riduzione del danno a bassa soglia. -Comunità terapeutiche pubbliche: città della Pieve, Pratolungo (vicino Ferrara), Marzaglia nel modenese. -Cascina Verde nacque nel 1974 a Milano ad opera di un missionario, insieme ad una suora, un farmacologo e una psichiatra coniugando lo spirito scientifico con quello religioso, dall’idea che ogni dipendenza venisse da un profondo malessere psichico e che quindi non bastasse la semplice vita comunitaria. -Exodus: si rivolgeva ad adolescenti e giovani adulti, nata dall’impegno di don Mazzi, intervenendo sulle pratiche educative e puntando molto sulla prevenzione. -Emmaus: fondata da Abbé Pierre nel 70, e diffusa in Italia nell’89. È un movimento di poveri che comprende l’accoglienza di gruppi in situazioni di esclusione (ex carcerata, portatori di handicap, tossicodipendenze…), chiede sobrietà ed essenzialità ai volontari, aperto a chiunque voglia sperimentare stili di vita alternativi. -Ignote, non accreditate, non validate scientificamente: Lautari (firma per la droga), Narconon (sotto Scientology). Document shared on www.docsity.com Downloaded by: aida gurgoglione (annaritafg96@hotmail it)



Negli anni '80 i mass media si interessano al consumo specialmente di eroina, facendo nascere così il "problema droga" (nasce qui la figura stereotipica del tossicodipendente) e dando alle comunità terapeutiche grande rilevanza e successo. La comunità viene vista come unico trattamento possibile per la dipendenza, indipendentemente dalle differenze individuali e in una rigida dicotomia on/off, dipendenza vs guarigione; in realtà per molti soggetti la comunità non fu utile in quanto non adeguata per situazione personale e risorse e in quanto le comunità vennero invase da domande troppo alte e complesse che non potevano gestire (a discapito quindi dell’intervento individuale con l’utente).



Questa visione delle comunità come unica soluzione alla quale tutti gli altri trattamenti dovevano essere preparatorie e per la quale bisognava far toccare il fondo alle persone e allontanarle dai familiari aveva portato per molti dipendenti conseguenze peggiori (prostituzione, carcere) e per le comunità una visione autoreferenziale che le aveva trasformate in sette (rimanendo chiuse e restie all’esterno e ai servizi pubblici). Inizia tuttavia a cambiare perché ci si rende conto delle sue criticità (selettività, mancanza di alternative, ricadute in chi completava, alto tasso di drop-out, trattamento di un 20% del totale) e a causa dell'epidemia di HIV. Negli anni '90 avvengono alcuni importanti cambiamenti: •

Superamento della fase spontaneistica, con un maggiore riconoscimento da parte del servizio pubblico (con l’Atto di intesa del 1990, comunità terapeutiche sono accreditate e ricevono fondi dalle regioni), ma anche maggiore regolamentazione e standard qualitativi da rispettare (igiene, qualità, qualificazione del personale). Le istituzioni, che fino a questo momento avevano lasciato che le comunità operassero fondamentalmente in modo autonomo, iniziano ad avvertire la necessità di regolamentarne maggiormente l’attività: le Comunità Terapeutiche vengono definitivamente legittimate e riconosciute quali partner principali dei Ser.T (Servizi pubblici per le tossicodipendenze, istituiti da una legge del 1990), ricollocandosi nel panorama dei servizi sociosanitari.



Riduzione delle strutture attive, perché non rispettavano i requisiti, per mancanza di fondi e per ora del filtraggio del servizio pubblico territoriale.



Introduzione di alternative come gli interventi di riduzione del danno, dovuti all'epidemia di HIV, che permettono di rivoluzionare l'approccio alla problematica, e le unità mobili di strada, i drop-in, i trattamenti farmacologici sostitutivi che si pongono quale obiettivo primario non l’astinenza, ma il contenimento dei rischi e dei danni, individuali e sociali, conseguenti al consumo di sostanze. Il movimento delle comunità entro in crisi dal momento che i consumatori preferivano assumere metadone rispetto agli sforzi richiesti dalla comunità, che era avversa rispetto le terapie farmacologiche. Cambiamento della percezione sociale della droga, da foriera di autodistruzione a merce di consumo

• •

Le comunità vengono quindi ridefinite per adeguarsi a contesti e utenze diverse a quelli per cui erano nate (da essere comunità di vita divennero di specifica durata per agevolare il raggiungimento degli obiettivi specifici), per riuscire a fare rete con gli altri servizi che si occupano della persona, per specializzare i trattamenti in base ai diversi tipi di utenti e per iniziare ad affrontare il tema della doppia diagnosi (grazie al contributo di George Leon, che collegò i sintomi dei consumi con i disturbi di personalità o comunque con problemi psichici). Oggi la comunità è un importante strumento riabilitativo ma non l’unico, anzi spesso i servizi ambulatoriali ricorrono a queste come “ultima spiaggia” o come alternativa al carcere/ricovero post scompenso psichico. Inoltre presenta delle innovazioni rispetto alla “tradizionale comunità”, in quanto i programmi sono individualizzati al singolo e non viceversa, la relazione è al primo posto invece della regola, anche la trasgressione della regola e la punizione sono subordinate alla relazione stessa. Anche il concetto del fallimento assume una nuova accezione, qualunque sia stato il loro periodo di permanenza in comunità, questo può essere utilizzato per comprendere meglio le difficoltà, i limiti del proseguimento del percorso. La comunità odierna deve far in modo di lavorare il meno possibile all’interno della “campana di vetro” e “mettere alla prova” l’ospite già nella fase centrale del trattamento per prepararlo al post comunità, evitando così anche ricadute repentine post dimissione (e quindi rischi Document shared on www.docsity.com Downloaded by: aida gurgoglione (annaritafg96@hotmail it)

overdose, dal momento che la solita dose assunta dopo tempo è più letale), lavorando a stretto contatto con il territorio e conducendo attività di prevenzione primaria e secondaria. Il tasto dolente si ha nella valutazione, poiché la “completa guarigione” in questo ambito è quasi mai possibile perché ci sarà sempre una vulnerabilità alla ricaduta; si può però valutare la stabilizzazione, una migliore qualità di vita, una diminuzione dei danni e dei rischi inerenti al consumo. Il rischio di questo percorso presenta tuttavia il limite a volte di una eccessiva individualizzazione del percorso che fa perdere di vista il gruppo come risorsa.

2.1 L'accesso in comunità Il metodo classico: percorso preliminare e selezione dell'utenza •

Oggi, con l'inserimento delle comunità nel servizio pubblico, la domanda di ingresso deve passare attraverso il Ser.T che valuta lo stato di dipendenza e analizza la domanda attraverso una diagnosi multiprofessionale, che richiede circa un mese. Non sempre l'invio in comunità viene realizzato, alcuni servizi preferiscono cogliere al volo la chance, altri invece se vedono che motivazione è estrinseca o la tolleranza alla frustrazione troppo bassa consigliano altri tipi di percorsi; inoltre le ASL dispongono di meno fondi rispetto al passato, quindi tranne per casi specifici (minori, donne incinte, malati) l'invio non è più un automatismo.



Quando gli operatori del Ser.T inviano presentano alla comunità una diagnosi di tipo categoriale (DSM) e dinamica (funzionamento dettagliato della persona), così gli operatori di comunità svolgono solo alcuni colloqui con il duplice scopo di conoscere personalmente la persona e confrontarsi con la diagnosi del servizio inviante, ma anche di anticipare i problemi facendo conoscere i propri metodi e i problemi che incontrerà e facendo leva sui suoi punti di forza e di debolezza, con lo scopo di allineare le aspettative della persona a quella che poi sarà la realtà comunitaria.



Buone prassi per l'ingresso in comunità sono anche la disintossicazione, che prima veniva ritenuta indispensabile e segno di adeguata motivazione mentre ora si accolgono anche persone in regime di disassuefazione con metadone o buprenorfina (oltre a coloro con doppia diagnosi che assumono anche psicofarmaci), e l'alleanza con la famiglia dell'utente, anche se oggi questa risulta molto complessa soprattutto quando le famiglie di origine sono molto anziane e quindi con meno energie e scoraggiate e quando le famiglie acquisite sono rotte, conflittuali e vi è il problema dei figli minori. Con le famiglie che si riesce ad agganciare si attua un trattamento parallelo per ottenere collaborazione da parte loro; pre ingresso in comunità si chiede loro di contribuire alla preparazione dell’ingresso, creando un clima di fiducia, rassicurando il pz che non verrà abbandonato e assegnando alle famiglie delle prescrizioni preliminari che riguardano i limiti rispetto alla consegna di denaro, alle uscite fuori di casa, agli accompagnamenti fuori, alle responsabilità da assolvere, ecc. La comunità terapeutica ridefinita fa una minore selezione all'ingresso, ma questo significa anche avere a che fare con casi di gravità molto elevata.

La sofisticazione del metodo: analisi della domanda e tentativo di matching • La riflessione sul matching nel campo delle addiction è molto recente e il tentativo pratico è stato compiuto soltanto all'estero. Per matching si intende l'insieme di criteri standardizzati e condivisi che permettono di individuare il trattamento più adeguato per quel paziente o per la sua attuale fase evolutiva; l'approccio a questo metodo però pone difficoltà di tipo teorico, metodologico e di riorganizzazione dei servizi. Ancora meno chiara è la questione del mismatching, ossia dell'individuazione di quali trattamenti possono essere dannosi per l'utente e la loro esclusione (ad esempio si può dire che la comunità residenziale, in quanto trattamento ad alta intensità ed alta soglia non è adeguato a chi è ancora molto legato alla sostanza e propende per i vantaggi, mentre lo è per un soggetto in crisi che vuole cambiare vita).

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Collaborazione e conflitto tra Ser.T e comunità terapeutica • L'introduzione dei trattamenti farmacologici aveva messo in conflitto i servizi ambulatoriali, che vedevano finalmente una loro rivalsa e un riconoscimento del ruolo del medico, e le comunità, che vedevano diminuire i loro utenti. Con l'Atto di intesa Stato-Regioni del 1999 le comunità vengono riconosciute dal servizio pubblico e ne dipendono, in quanto invia i pazienti e paga le loro rette anche se con un meccanismo complesso.

Diritto al percorso di comunità, territorialità e tetto di spesa • In un sistema di welfare sanitario universale come il nostro, il cittadino ha diritto di accedere a servizi sanitari su tutto il territorio nazionale (diritto sancito anche dall'art. 32 della costituzione). Questo diritto viene però mitigato da tre validi motivi: 1) mancanza di risorse nel settore sanità che obbliga le comunità a pianificare attentamente le voci di spesa, 2) obbligo professionale di accertare l'appropriatezza della richiesta, 3) una comunità sul territorio di residenza è più collegata con il Ser.T e può seguire più attentamente il processo residenziale e in particolare quello post cura. Inoltre bisogna considerare che le rette pagate per questo genere di comunità sono in genere basse e che i requisiti che la comunità deve avere per l'invio di pazienti sono sempre più elevati.

2.2 La comunità e le sue fasi Dall'accoglienza al blackout •

Ci sono due differenti percorsi di accoglienza in comunità, quello propriamente detto non si svolge in comunità ma con dei colloqui preliminari che vengono svolti presso il servizio pubblico inviante e che hanno lo scopo di approfondire la situazione raccogliendo dati, di avviare gli accertamenti tossicologici per verificare che il paziente sia pulito, di analizzare la motivazione, di prendere contatto con i familiari e di offrire tutte le informazioni sul trattamento residenziale; si definisce la data dell'ingresso e si fornisce l'elenco dei generi necessari, consentiti e proibiti. Nel caso di ingresso dal circuito penale il percorso presenta ovviamente alcune differenze.



All'ingresso nella casa avviene un'altra accoglienza, l'utente viene presentato prima allo staff e poi ai compagni in modo che inizi a conoscere lo stile della casa e i suoi compagni di vita; in alcune comunità c'è ancora la tradizione dell'angelo custode, ossia un ospite lì da più tempo che segue il nuovo entrato completamente.



In questa fase è necessario un totale stacco dal contesto di provenienza, quindi si evita ogni contatto con il sistema di riferimento del soggetto, indipendentemente dalla patogenicità. Questa chiusura viene accompagnata dal coinvolgimento in nuove abitudini, in un nuovo stile di vita e in nuove relazioni interpersonali e deve essere adeguatamente motivata dallo staff e dagli altri ospiti, altrimenti potrebbe essere vista come un'imposizione troppo dura ed essere causa di dropout precoce. Le funzioni di questa fase sono quella di contenere tutti gli stimoli che possono essere causa di craving in una situazione astinenziale ancora non completamente risolta, di proteggere la persona in una fase di ambientazione molto complessa e di fungere da rito iniziatico al cammino in comunità; la persona apprende rituali della comunità, appuntamenti, regole e sanzioni e comincia a confrontarsi con le aree in cui dovrà impegnarsi: lavoro su di sé, assunzione di responsabilità, saper fare ed espressione delle proprie capacità.

La fase del lavoro su di sé •

Una volta che il residente ha passato la fase di stacco deve iniziare ad adeguarsi alla vita quotidiana ed iniziare il processo di interiorizzazione (che come dice De Leon è il passaggio dall'influenza del contesto esterno all'apprendimento come esperienza interiore); questo comporta un conflitto interiore che genera opposizioni, sfide, ribellione a causa della dissonanza cognitiva tra il normale modo di vivere della persona e quello che la comunità richiede, in assenza di questi segnali potrebbe trattarsi di mimetismo e adeguamento passeggero. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: aida gurgoglione (annaritafg96@hotmail it)



Il residente inizia poi il lavoro su di sé, che in comunità è totale perché in ogni momento si affrontano i temi centrali per il recupero, vari per ogni individuo ma che di solito comprendono autostima, senso di responsabilità, rispetto dell'altro e delle gerarchie, conoscenza e rispetto della propria storia, senso del gruppo e capacità di relazione con l'altro.

La fase della messa alla prova • Una volta raggiunti i primi obiettivi il residente dovrebbe avere acquisito nuovi comportamenti e una prima consapevolezza sulla funzione che le sostanze avevano nella sua vita, sulle sue tendenze relazionali e su alcuni aspetti interni critici. Viene quindi messa alla prova per riconoscere i propri limiti personali e relazionali e migliorare il proprio atteggiamento attraverso un impegno pratico di responsabilità nella cura della casa, nelle attività lavorative interne ed esterne e un impegno nella riflessione su di sé, sui propri comportamenti e sulle proprie modalità di relazione. Questa fase è altrettanto dura di quella dello stacco perché la persona deve giungere a riconoscere, affrontare e se possibile superare i propri aspetti critici e problematici.

La fase del rientro •

Nelle comunità classiche la fase di rientro era compito della persona e una sua dimostrazione della buona riuscita del percorso comunitario, ma a fronte dell'evidenza che le ricadute erano troppo numerose gli staff hanno iniziato a farsi carico anche di questa fase di rientro nel mondo esterno. Questo anche dovuto al riconoscimento del fatto che la società non è sempre favorevole al reinserimento dell'ex-tossicodipendente, che il mercato di lavoro e la ricerca di un alloggio erano sempre più complessi e che questo inevitabilmente generava frustrazione; si è quindi ritenuto opportuno che negli ultimi mesi di percorso il soggetto assolva a questi compiti nel mondo esterno ma avendo sempre una residenzialità, un gruppo e degli operatori con cui confrontarsi.



Le persone che stanno ancora in comunità ma trascorrono le loro giornate all'esterno possono a volte creare dei problemi di gestione e dei malumori negli altri ospiti, si sono quindi scelte delle soluzioni come l'iniziale inserimento in una parte della comunità separata da quella degli altri ospiti ma che permette comunque di vivere con gli altri la sera e nei weekend e il successivo inserimento in appartamenti esterni ad alta autonomia con un controllo, seppur minore, da parte degli operatori.

Il post-trattamento e i contatti successivi • La fase di rientro è più ...


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