La fondazione di Roma e la leggenda di Romolo e Remo PDF

Title La fondazione di Roma e la leggenda di Romolo e Remo
Author Massimo Pannullo
Course Storia Romana
Institution Università degli Studi del Molise
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Utile per lo svolgimento dell'esame di storia romana...


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La fondazione di Roma e la leggenda di Romolo e Remo 24' Introduzione

La maggior parte delle fonti antiche è concorde nell’affermare che Roma fu fondata verso la metà dell’VIII secolo a.C. da Romolo, discendente della dinastia dei re di Alba Longa 1. Secondo la tradizione, Rea Silvia, figlia di Numitore, legittimo re di Alba ma spodestato dal fratello Amulio, si sarebbe unita con il dio Marte e avrebbe dato alla luce due gemelli, Romolo e Remo. Amulio, temendo che un giorno la discendenza di Numitore lo avrebbe spodestato dal trono, avrebbe ordinato alle sue guardie di abbandonare i due gemelli appena nati sulle sponde del Tevere. I gemelli, tuttavia, sarebbero sopravvissuti grazie all’intervento di una lupa, e dopo essere stati allevati da un pastore di nome Faustolo avrebbero infine aiutato il nonno Numitore a tornare sul trono uccidendo Amulio. Fatto ciò, essi avrebbero quindi fondato una nuova città - Roma, appunto - nei luoghi in cui avevano trascorso la loro infanzia.

Videolezione "Le cause della Prima Guerra Mondiale" (partirà tra 13 secondi)

La leggenda della fondazione, i cui elementi essenziali si svilupparono già durante l’età medio-repubblicana (III-II secolo a.C.), si arricchì poi di ulteriori particolari in epoca augustea (fine I secolo a.C.), quando storici, antiquari e poeti contribuirono a nobilitare in modo significativo le origini della città ormai padrone di quasi tutto il mondo abitato. In quest’epoca venne in particolare rafforzato il legame tra Romolo e l’eroe troiano Enea. Questi, sfuggito alla distruzione di Troia con alcuni compagni, sarebbe giunto in Italia dopo un lungo peregrinare e avrebbe fondato la città di Lavinio. Il figlio di Enea, Ascanio, avrebbe a sua volta fondato la città di Alba Longa, dando vita alla dinastia da cui sarebbe nato infine lo stesso Romolo. Fino al XVIII secolo gli studiosi di antichità romane attribuirono alla leggenda (o almeno ad alcune delle sue parti) un importante valore storico. Tuttavia, a partire dal XIX e soprattutto dal XX secolo, lo sviluppo di una scienza antichistica più critica e la conduzione di diverse campagne di scavo nell’area del Palatino, del Foro e del Campidoglio hanno permesso di tracciare con più precisione i confini tra mito e storia e di delineare in modo più sicuro (ma certamente non definitivo) l’evoluzione di Roma arcaica da centro proto-urbano a vera e propria comunità cittadina.

Immagine: la Lupa “capitolina” (Roma, Musei Capitolini)

La tradizione letteraria e antiquaria

La formazione di un’articolata “leggenda” riguardo alla fondazione di Roma conobbe un decisivo impulso in età augustea. Le ragioni di questo sviluppo sono abbastanza chiare: Roma era ormai diventata il centro politico, economico e culturale di tutto il Mediterraneo e Augusto, nella sua vasta opera di riorganizzazione della compagine statale romana, mirava ovviamente a nobilitarne il passato e a dare così ragioni “culturali” del suo dominio sul mondo. Frutto di questa politica propagandistica e culturale furono in particolare tre opere, ossia l’Eneide di Virgilio (modellata sui poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea), gli Annali (chiamati anche Ab Urbe condita libri) di Tito Livio, e le Antichità romane di Dionisio di Alicarnasso. Questi tre autori concorsero a fornire un resoconto dettagliato e particolareggiato sulla fondazione di Roma, risalendo a tempi molto antichi (addirittura precedenti alla guerra di Troia, all’inizio del XIII secolo a.C.) e presentando una successione continua e omogenea di fatti per loro “storici” e attestati.

Roma prima di Roma: le origini greche, le avventure di Enea e i re di Alba Longa

Secondo Dionisio di Alicarnasso, il sito della futura Roma sarebbe stato occupato, sin da età antichissima, da popoli di stirpe greca. Per primi gli Aborigeni, popolo proveniente dall’Arcadia, avrebbero cacciato dalla zona i Siculi, dopo essersi alleati con i Pelasgi, provenienti invece dalla Tracia. Questo sarebbe avvenuto tre generazioni prima della guerra di Troia, quindi verso l’inizio del XIII secolo a.C. Trent’anni dopo sarebbero giunti nella zona alcuni abitanti della città greca di Pallantio, sempre in Arcadia, guidati da un certo Evandro. Gli Aborigeni, allora governati da Fauno, avrebbero accolto benevolmente gli Arcadi, che si sarebbero stabiliti sul colle Palatino, così chiamato proprio in memoria della città di Pallantio, introducendo nella regione l’alfabeto greco e modi di vita più civili”. Un’ultima migrazione avrebbe invece visto come protagonista il famoso Eracle, che giunto nel Lazio di ritorno dalla conquista dell’Iberia, avrebbe ucciso il brigante Caco. In suo onore gli abitanti del Palatino avrebbero istituito un culto e delle festività.

Immagine: Scultura di Eracle e Caco (Baccio Bandinelli, Firenze, Piazza della Signoria)

A questo punto la narrazione di Dionisio si accorda con quella di Virgilio e Tito Livio nel raccontare l’arrivo in Italia di Enea. Dopo esser sfuggito alla distruzione di Troia insieme con alcuni compagni, Enea, al termine di un lungo peregrinare, sarebbe infine approdato sulle coste del Lazio, fondando la futura città di Lavinio. Il re

degli Aborigeni, Latino, avrebbe stretto con Enea un’alleanza, cementata con il matrimonio tra l’eroe troiano e la figlia del re, Lavinia.

Immagine: Enea alla corte del re Latino (Ferdinand Bol, olio su tela, ca. 1661-1663, Amsterdam, Rijksmuseum)

Quest’ultimo fatto avrebbe però scatenato l’ira di Turno, re dei Rutuli e promesso sposo di Lavinia, il quale, alleatosi con l’etrusco Mezenzio, avrebbe infine mosso guerra a Latino e ad Enea. Lo scontro, violentissimo, si sarebbe concluso con la morte di Turno e la vittoria dei Troiani-Aborigeni. A seguito della morte di Latino, anche lui perito negli scontri, Enea avrebbe assunto il comando dei due popoli, che da quel momento si sarebbero comunemente chiamati Latini. Pochi anni dopo, morto Enea, il trono sarebbe passato nelle mani del figlio Ascanio, che avrebbe infine fondato la città di Alba Longa, su cui i suoi discendenti avrebbero regnato per sedici generazioni.

La fondazione della città: Romolo e Remo

Immagine: Romolo e Remo allattati dalla lupa (dipinto di Rubens, ca. 1616, Roma, Musei Capitolini)

In seguito il trono sarebbe passato nelle mani di Numitore. Il fratello minore di costui, Amulio, desideroso di impossessarsi del trono, avrebbe però ordito un complotto ai danni del re facendo uccidere il figlio e costringendo la figlia Rea Silvia a diventare una vergine vestale 2, impedendole così di dar vita a una successione legittima. Poco tempo dopo, tuttavia, Rea Silvia sarebbe rimasta incinta: secondo alcuni a seguito di uno stupro perpetrato da uno dei suoi corteggiatori, secondo altri per opera del dio Marte. Amulio, temendo che questo potesse intralciare i suoi piani, avrebbe fatto rinchiudere Rea Silvia e, dopo che ella ebbe dati alla luce una coppia di gemelli, Romolo e Remo, avrebbe ordinato alle sue guardie di condurre i bambini presso un’ansa del fiume Tevere e lì di abbandonarli al loro destino. I gemelli sarebbero però sopravvissuti grazie all’intervento di una lupa, che, udendo i vagiti dei neonati, li avrebbe allattati. Romolo e Remo sarebbero poi stati recuperati da un pastore della zona, Faustolo, che li avrebbe cresciuti insieme alla moglie Acca Larentia. Romolo e Remo una volta raggiunta l’età adulta e scoperta la loro vera identità, avrebbero aiutato il nonno Numitore a ritornare sul trono uccidendo il fratello Amulio.

Ripristinato il giusto ordine delle cose, i gemelli avrebbero quindi manifestato al nonno il desidero di fondare una nuova città nei luoghi in cui avevano trascorso la loro infanzia. Per stabilire a chi sarebbe toccato il governo del nuovo centro, i due si sarebbero affidati alla volontà divina, manifestata attraverso il volo degli uccelli (secondo la pratica antica degli “auspici”). Piazzatosi sul colle Aventino, Remo avrebbe per primo avvistato sei avvoltoi, mentre Romolo, attestato sul Palatino, ne avrebbe scorti dodici. A questo punto sarebbe sorta una feroce contesa tra i due fratelli sulla corretta interpretazione da dare ai segni divini: secondo Remo a prevalere doveva essere il “momento” dell’avvistamento, secondo Romolo, invece, andava dato maggior valore al numero di uccelli riconosciuti. Alla fine la contesa sarebbe degenerata in uno scontro armato, in cui Remo avrebbe trovato la morte, forse per mano dello stesso Romolo 3. Acclamato re da tutti i presenti, Romolo avrebbe quindi officiato i riti necessari per “ufficializzare” la fondazione della città prendendo nuovi auspici, tracciando con un aratro i suoi confini sacri, poi fortificati con l’elevazione di un muro difensivo, e organizzando la comunità di pastori in un più evoluto corpo civico. Questo è, a grandi linee, il resoconto fornito dagli autori antichi riguardo ai processi che portarono alla fondazione di Roma 4.

La critica alla tradizione letteraria

Il primo problema che ci si trova ad affrontare nel tentativo di ricostruire fedelmente la storia primitiva di Roma riguarda proprio l’attendibilità di questi resoconti. Su quali basi questi autori potevano affermare che le informazioni da essi trasmesse erano “storiche”? E che valore hanno oggi per noi le loro considerazioni?

Partiamo dal primo quesito. Secondo Livio e soprattutto Dionisio di Alicarnasso, la “storicità” delle vicende connesse con la fondazione di Roma sarebbe stata garantita da almeno tre elementi:

La storia della fondazione era ricordata da autori più antichi con una certa dovizia di particolari, ed essendo l’autorità di questi autori praticamente indiscutibile era di conseguenza illecito dubitare delle informazioni da essi trasmesse 5. Inoltre esistevano strumenti sicuri per calcolare in modo “scientifico” la data della fondazione, in particolare le liste dei magistrati repubblicani ricordate dai Pontefici (i cosiddetti Annales Maximi, che risalivano fino all’instaurazione della Repubblica nel 509 a.C.), unite con i riferimenti agli anni di regno dei sette re di Roma. La somma di questi dati portava a datare la fondazione della città alla metà dell’VIII secolo a.C., secondo i calcoli eseguiti da espertissimi cronografi. Gli elementi più leggendari della storia della fondazione potevano anche loro trovare una spiegazione “razionale”. In particolare, la storia dell’allattamento dei gemelli da parte della “lupa”, o il loro concepimento da parte del dio Marte costituivano rielaborazioni leggendarie di fatti comunque realmente accaduti: la lupa andava identificata nella moglie del pastore Faustolo, Acca Larentia, detta “lupa” per il suo passato da prostituta, mentre il concepimento “divino” di Romolo e Remo celava una violenza subita da Rea

Silvia da parte di uno dei suoi numerosi corteggiatori. La presenza di questi abbellimenti non era comunque sufficiente a inficiare, nel complesso, l’attendibilità dell’intera vicenda storica. Ancora in epoca augustea esistevano segni tangibili che testimoniavano la veridicità della storia della fondazione, in particolare la “capanna di Romolo”, sede abitativa del primo re di Roma, ancora ben visibile sul colle Palatino e fatta restaurare proprio da Augusto, o la celebrazione dei lupercalia e dei palilia, feste antichissime che rievocavano i riti celebrati per la prima volta proprio in occasione della fondazione. Questi elementi davano una conferma “archeologica” e “culturale” della storia della fondazione. L’insieme di questi dati era quindi sufficiente, agli occhi degli autori antichi, ad avvalorare la storicità della fondazione di Roma da parte di Romolo, e, andando ancora più indietro, ad attestare una diretta discendenza della stirpe romana dall’eroe troiano Enea. Agli occhi di noi moderni, questi dati risultano invece insufficienti o comunque non adeguatamente probanti.

Riguardo alla validità offerta dai resoconti dei primi annalisti (Quinto Fabio Pittore, Lucio Cincio Alimento) va infatti osservato che essi non disponevano di fonti adeguate per offrire un’appropriata ricostruzione della storia più antica della città. Essi si basavano infatti per lo più su tradizioni orali o su cronache “gentilizie” conservate dalle più antiche famiglie patrizie, che per ovvie ragioni tendevano a deformare il reale andamento dei fatti per evidenziare il ruolo avuto dai propri antenati nell’epoca più arcaica. Lo stesso calcolo cronologico della data esatta della fondazione era poi ottenuto con strumenti poco “scientifici”. Per fare un esempio, l’età monarchica veniva fatta durare 250 anni, che divisi per i 7 re portava a postulare una durata media di 35 anni per regno, ossia esattamente l’arco cronologico ricoperto da una singola generazione. Infine, le stesse opere dei primi annalisti non erano esenti da chiari intenti propagandistici: scritte in un momento in cui Roma si stava espandendo a oriente, esse servivano a nobilitare il passato della città così da rendere più accettabile il suo dominio al mondo greco. Nonostante il tentativo di fornire una spiegazione razionale ad alcuni elementi leggendari della fondazione (come il concepimento dei gemelli e l’allattamento della lupa), autori come Livio e Dionisio di Alicarnasso accettavano senza remora elementi che ai nostri occhi appaiono ancora più irreali, come per esempio l’origine mitica della stirpe romana o la costituzione immediata, da parte di Romolo, di una città altamente sviluppata e con caratteristiche simili a quelle assunte da Roma solo in epoca molto più tarda. In questo caso, la percezione della distanza tra storia e mito presso gli antichi si rivela ben diversa dalla nostra. Il tentativo di giustificare la storicità della fondazione con l’arcaicità di alcuni monumenti (come la capanna di Romolo) o festività (come i pariliae i lupercalia) è considerato dagli storici moderni un evidente errore metodologico. La critica ha infatti sostenuto con forza la necessità di analizzare le singole fonti in modo autonomo e se una comparazione può essere fatta, essa deve riguardare esclusivamente i risultati offerti dalle singole fonti scritte. In questo senso, non si può quindi spiegare la fondazione di Roma con la celebrazione postuma dei palilia, perché queste festività furono probabilmente introdotte solo nel momento in cui i primi annalisti diffusero l’idea che la città fosse stata fondata in un determinato giorno e con un determinato rito.

I dati dell’archeologia

In base a queste conclusioni, le fonti letterarie e antiquarie non sono di per sé sufficienti a offrire una spiegazione storica plausibile agli eventi che portarono alla fondazione di Roma. Dati più interessanti sono tuttavia emersi, negli ultimi anni, dai risultati degli scavi archeologici nell’area del Palatino, del Campidoglio e del Foro romano. I dati raccolti dagli studiosi hanno portato a queste evidenze:

L’area del Campidoglio presenta una continuità abitativa almeno a partire dalla media Età del Bronzo (XIV secolo a.C.) e fino alla prima Età del Ferro (IX secolo a.C.), testimoniata dal rinvenimento di corredi funerari e di ceramiche. Con il IX secolo a.C. le tracce abitative si estendono anche all’area del Foro e del Palatino, con caratteristiche simili a quelle del Campidoglio e sintomo quindi dello sviluppo di un unico centro abitato. Corredi funebri sono stati rinvenuti anche sull’Esquilino e sul Quirinale, ma sembra che in quest’epoca sui due colli si fosse sviluppata una comunità abitativa separata rispetto a quella dell’area Palatino-Campidoglio.

Immagine: il cosiddetto Septimontium, area dove sorse Roma antica.

Importanti rinvenimenti sono venuti alla luce nell’area sacra di Sant’Omobono, sede dell’antico Foro Boario alle pendici del Campidoglio. La presenza, in questa zona, di ceramiche di origine greca risalenti almeno alla prima parte dell’VIII secolo a.C. sembra confermare l’ipotesi che l’area, situata sull’ansa del Tevere, avesse assunto già in età arcaica l’importante funzione commerciale di punto di scambio strategico e rotta di passaggio obbligato” per il commercio del sale.

Immagine: scavi archeologici nell’area sacra di Sant’Omobono

Gli scavi più recenti compiuti sul colle Palatino hanno portato alla luce tracce di capanne e il perimetro di un muro databili alla metà dell’VIII secolo a.C. Secondo l’archeologo italiano Andrea Carandini, queste scoperte

sarebbero in grado di avvalorare alcuni dati forniti dalla tradizione letteraria circa la “mitica” fondazione della città da parte di Romolo.

Immagine: urna cineraria a capanna (epoca “villanoviana”)

Le scoperte archeologiche avvenute negli ultimi anni sembrano quindi in grado, all’apparenza, di dare un’interpretazione “storica” ad alcuni dati tramandati dalla tradizione letteraria. In particolare, la presenza di numerose ceramiche greche databili al IX secolo a.C. sembrerebbe testimoniare il ruolo preponderante assunto dall’area del Foro Boario già in età pre-urbana, un dato questo che ben si coniugherebbe con l’attestazione fornita dagli storici antichi circa un glorioso passato greco per Roma. In secondo luogo, a Lavinio, così come in altre comunità laziali ed etrusche, sono state rinvenute tracce di un diffuso culto di Enea, il cui mito è raffigurato su diversi vasi, sintomo quindi che già in età arcaica (IX-VIII secolo a.C.) le vicende dell’eroe erano strettamente connesse con la storia della regione. In particolare, proprio a Lavino è stato ritrovato un tumulo funerario databile originariamente al VII secolo a.C., i cui elementi essenziali corrispondono alla descrizione fornita da Dionisio di Alicarnasso del cenotafio di Enea situato proprio in questa città. Altrettanto significativo è apparso il ritrovamento a Bolsena di uno specchio sul cui retro è raffigurata una lupa che allatta due gemelli. La datazione dello specchio (fine IV secolo a.C.) testimonierebbe la circolazione della leggenda dei gemelli in un periodo precedente all’opera dei primi annalisti (fine III secolo a.C.) 6. Infine, lo sviluppo di una più definita comunità urbana nell’area Palatino-Foro-Campidoglio a partire dall’VIII secolo a.C. e il rinvenimento del cosiddetto “muro di Romolo” testimonierebbero, in modo abbastanza chiaro, l’esistenza di un nucleo effettivamente “storico” al centro della leggenda della fondazione.

Sicuramente i dati forniti dall’archeologia presentano elementi più “certi” rispetto a quelli tramandati dalle fonti letterarie. Tuttavia, anche in questo caso bisogna stare attenti a non incorrere in alcuni errori metodologici e a non trarre conclusioni troppo generali dalla documentazione entrata in nostro possesso, che, per quanto rilevante, rimane comunque piuttosto scarna. Infatti:

La presenza di ceramiche greche risalenti alla prima Età del Ferro è sicuramente rilevante, tuttavia essa, presa da sola, non certifica in alcun modo l’insediamento stabile di una comunità greca nella zona del Foro Boario. La presenza di queste ceramiche potrebbe infatti essere connessa semplicemente con lo sviluppo di una fitta rete commerciale con le comunità greche del sud Italia, oppure con l’arrivo in loco di maestranze greche. Per certificare l’esistenza di una comunità stabile occorrerebbero prove più sostanziose, come armi o altri utensili, oggetti la cui presenza non è ancora stata accertata dalle campagne di scavo.

La diffusione del mito di Enea nell’area tirrenica è un fenomeno solo relativamente eccezionale. Il personaggio era infatti molto conosciuto in età arcaica, avendo avuto un ruolo non secondario già nei poemi omerici, per cui la presenza di raffigurazioni della sua vicenda si potrebbero semplicemente spiegare o con intenti artistici o con il commercio di vasellame con il mondo greco. Lo stesso tumulo funerario rinvenuto a Lavinio, seppur originario del VII secolo a.C., mostra segni di riadattamento a funzioni di culto databili solo alla fine del IV secolo a.C., periodo in cui proprio nel mondo greco comincia a diffondersi la leggenda del viaggio di Enea in occidente. I ritrovamenti del cosiddetto “muro di Romolo” e di capanne risalenti alla metà dell’VIII secolo a.C. ...


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