Le Satire di Ariosto PDF

Title Le Satire di Ariosto
Author nicole vacilotto
Course Letteratura Italiana II
Institution Università Ca' Foscari Venezia
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Summary

Parafrasi e analisi completa e chiara di tutte e 5 le Satire di Ludovico Ariosto...


Description

A MESSER ALESSANDRO ARIOSTO ET A MESSER LUDOVICO DA BAGNO

e le vivande condiriemi il cuoco come io volessi, et inacquarmi il vino potre' a mia posta, e nulla berne o poco.

Io desidero intendere da voi, Alessandro fratel, compar mio Bagno, s'in corte è ricordanza più di noi;

Dunque voi altri insieme, io dal matino alla sera starei solo alla cella, solo alla mensa come un certosino?

se più il signor me accusa; se compagno per me si lieva e dice la cagione per che, partendo gli altri, io qui rimagno;

Bisognerieno pentole e vasella da cucina e da camera, e dotarme di masserizie qual sposa novella.

o, tutti dotti ne la adulazione (l'arte che più tra noi si studia e cole), l'aiutate a biasmarme oltra ragione.

Se separatamente cucinarme vorà mastro Pasino una o due volte, quattro e sei mi farà il viso da l'arme.

Pazzo chi al suo signor contradir vole, se ben dicesse c'ha veduto il giorno pieno di stelle e a mezzanotte il sole.

S'io vorò de le cose ch'avrà tolte Francesco di Siver per la famiglia, potrò matina e sera averne molte.

O ch'egli lodi, o voglia altrui far scorno, di varie voci subito un concento s'ode accordar di quanti n'ha dintorno;

S'io dirò: «Spenditor, questo mi piglia, che l'umido cervel poco notrisce; questo no, che 'l catar troppo assottiglia»

e chi non ha per umiltà ardimento la bocca aprir, con tutto il viso applaude e par che voglia dir: «anch'io consento».

per una volta o due che me ubidisce, quattro e sei mi si scorda, o, perché teme che non gli sia accettato, non ardisce.

Ma se in altro biasmarme, almen dar laude dovete che, volendo io rimanere, lo dissi a viso aperto e non con fraude.

Io mi riduco al pane; e quindi freme la colera; cagion che alli dui motti gli amici et io siamo a contesa insieme.

Io, per la mala servitude mia, non ho dal Cardinale ancora tanto ch'io possa fare in corte l'osteria. Apollo, tua mercé, tua mercé, santo collegio de le Muse, io non possiedo tanto per voi, ch'io possa farmi un manto. «Oh! il signor t'ha dato...» io ve 'l conciedo, tanto che fatto m'ho più d'un mantello; ma che m'abbia per voi dato non credo. Egli l'ha detto: io dirlo a questo e a quello voglio anco, e i versi miei posso a mia posta mandare al Culiseo per lo sugello. Non vuol che laude sua da me composta per opra degna di mercé si pona; di mercé degno è l'ir correndo in posta.

Mi potreste anco dir: «De li tuoi scotti fa che 'l tuo fante comprator ti sia; mangia i tuoi polli alli tua alari cotti».

A chi nel Barco e in villa il segue, dona, a chi lo veste e spoglia, o pona i fiaschi nel pozzo per la sera in fresco a nona; vegghi la notte, in sin che i Bergamaschi se levino a far chiodi, sì che spesso col torchio in mano addormentato caschi. S'io l'ho con laude ne' miei versi messo, dice ch'io l'ho fatto a piacere e in ocio; più grato fòra essergli stato appresso. E se in cancellaria m'ha fatto socio a Melan del Constabil, sì c'ho il terzo di quel ch'al notaio vien d'ogni negocio, gli è perché alcuna volta io sprono e sferzo mutando bestie e guide, e corro in fretta per monti e balze, e con la morte scherzo. Fa a mio senno, Maron: tuoi versi getta con la lira in un cesso, e una arte impara, se beneficii vuoi, che sia più accetta.

La vita del cortigiano (Satire, I, 1-126) Scritta nel 1517 in occasione del trasferimento del cardinale Ippolito d'Este a Buda, la satira vuol essere un'ironica giustificazione da parte dell'autore del suo rifiuto a seguire il suo signore in Ungheria, motivato con ragioni di salute ma, in realtà, riconducibile al desiderio di Ariosto di non lasciare l'Italia e di non separarsi dalla sua donna e dal figlio Virginio. Lo scrittore si rivolge idealmente al fratello Alessandro e al gentiluomo Ludovico da Bagno, rimasti al seguito del cardinale, e colpisce con ironia sferzante il malcostume diffuso nelle corti, in cui l'adulazione sembra essere l'arte più apprezzata dai signori e più praticata dai cortigiani, costretti per il resto a condurre una misera vita cui Ludovico intende sottrarsi (benché egli sia poi passato al servizio del duca Alfonso). Ariosto sottolinea anche che la produzione letteraria importa poco ai potenti, assai più interessati al servilismo degli uomini di corte, e lamenta come tale

condizione sociale sia strettamente legata al bisogno di denaro e all'impossibilità per lui di mantenersi unicamente grazie all'opera poetica. Il lamento di Ariosto, serio e velato di amaro sarcasmo, anticipa la condizione ben più drammatica di T. Tasso per il quale la corte diverrà una sorta di prigione da cui è impossibile evadere Ma tosto che n'hai, pensa che la cara tua libertà non meno abbi perduta che se giocata te l'avessi a zara; Io desidero sapere da voi, fratello Alessandro e amico mio [Ludovico da] Bagno, se a corte ci si ricorda più di me; se il signore [Ippolito] mi accusa ancora; se qualche altro cortigiano si alza a mia difesa e dice la ragione per cui, mentre gli altri partono, io resto qui; oppure, tutti esperti nell'adulazione (l'arte che più di ogni altra si studia e pratica fra di noi), l'aiutate a biasimarmi in modo irragionevole. È pazzo colui che vuole contraddire il suo signore, anche se dicesse di aver visto le stelle di giorno e il sole a mezzanotte. Sia che il signore lodi, sia che voglia offendere qualcuno, subito si sente un'armonia di tante voci che si accordano tra quelli che ha attorno; e chi per modestia non ha il coraggio di aprir bocca, approva con tutto il viso e sembra voler dire: «Anch'io sono d'accordo». Ma se per altre cose potete biasimarmi, almeno dovete riconoscere che, volendo io rimanere in Italia, lo dissi apertamente e non in modo coperto. Addussi molte ragioni e tutte vere, ciascuna delle quali, anche da sola, doveva essere degna di trattenermi qui. Anzitutto la vita, alla quale ho poche cose da preferire, anzi nessuna, e che non voglio che sia abbreviata dal cielo o dalla fortuna. Ad ogni pur minima alterazione del male di cui soffro, potrei morire, altrimenti il Valentino [medico di corte degli Este] e il Postumo [medico amico di Ariosto] sono in errore. Non solo lo dicono loro, ma io comprendo i miei mali meglio di chiunque; e so quali rimedi mi siano utili, quali dannosi. So come la mia natura mal si adatta agli inverni freddi; e là, vicino al polo [in Ungheria] voi li avete più intensi che in Italia. E non sarebbe solo il freddo a nuocermi, ma anche il caldo delle stufe, che a me è così dannoso che lo fuggo più che la peste. E in questo paese [l'Ungheria] non si abita se non in ambienti riscaldati: vi si mangia, si gioca e beve, vi si dorme e si fa tutto quanto. Chi viene da qui [dall'Italia] come può sopportare l'aria gelida che viene dalle vicine montagne Rifee e che disturba il respiro? A causa del vapore che, levatosi dallo stomaco, produce catarro nella testa e cala poi nel petto, resterei soffocato in una notte. E il vino denso, a me proibito [dai medici] più del veleno, laggiù si beve smodatamente, ed è sacrilego non bere molto il vino puro. Tutti i cibi sono conditi con pepe e zenzero e altre spezie, che il medico mi proibisce tutti come nocivi. Potreste dire che qui [a corte] avrei degli appartamenti privati, dove potrei sedere presso il camino al fuoco, e non sentirei l'odore di piedi o di ascelle, né i rutti; e il cuoco potrebbe condirmi i cibi secondo i miei desideri, e potrei annacquare il vino a mio agio, e berne poco o niente. Dunque voi stareste insieme, io invece starei solo nella mia cella dal mattino alla sera, e mangerei solo a mensa come un frate certosino? Mi occorrerebbero pentole e vasi da cucina e da camera, e dovrei dotarmi di suppellettili come una novella sposa. Se mastro Pasino [il cuoco di corte] vorrà cucinare separatamente per me una o due volte, alla quarta e alla sesta si arrabbierà con me. Se io vorrò alcune cose che Francesco di Siviero [il dispensiere di corte] avrà acquistato per il seguito del cardinale, potrò averne molte mattina e sera. Ma se io dirò: «Dispensiere, comprami questo, che non alimenta gli umori del cervello; questo no, perché acuisce troppo il catarro», per una volta o due che mi ubbidisce quattro o sei volte se ne dimentica, oppure non osa farlo

perché teme che l'acquisto non sia approvato dal cardinale. Mi ridurrei a mangiar pane; e da questo nascerebbe la mia collera; ed ecco che per due parole io e gli amici inizieremmo a litigare. Mi potreste anche dire: «Manda il tuo domestico a comprarti i pasti a tue spese; mangia i tuoi polli cotti sul tuo camino». Ma io, per il mio cattivo servizio da cortigiano, non ho ancora tanto denaro dal cardinale da poter allestire un'osteria nella corte. Apollo, per grazia tua e del sacro collegio delle Muse tutte, per i testi ispirati da voi non possiedo quanto basta a comprarmi un mantello. «Oh, ma il tuo signore ti ha dato denari...»; ve lo concedo, e infatti ne ho acquistato più di un mantello; ma non credo che mi abbia dato soldi per opera vostra [in cambio di versi]. Lui stesso lo ha detto: anche io voglio dirlo a tutti e posso mandare a mio piacimento i miei versi al Colosseo per il sigillo. Ippolito non vuole che la sua lode composta da me in versi sia considerata opera degna di compenso; lo è invece il correre da una stazione all'altra [seguirlo ovunque lui vada]. A chi lo segue nel Barco [parco degli Este] e in villa dà denaro, e a chi lo veste e lo spoglia, o fin dal pomeriggio mette i fiaschi di vino al fresco nel pozzo per la sera; a chi sta sveglio la notte, fino al risveglio dei fabbri bergamaschi quando fanno chiodi, cosicché, spesso, si addormenta con la torcia in mano. Se io l'ho messo nei miei versi per lodarlo, dice che l'ho fatto per mio piacere e per passare il tempo; sarebbe stato più gradito seguirlo. E se mi ha associato al Costabili nella cancelleria arcivescovile di Milano [un beneficio ecclesiastico], così che ottengo un terzo di quanto viene pagato al notaio per ogni affare, ciò accade perché qualche volta io sprono e sferzo i cavalli cambiando bestie e guide, e perché corro in fretta per monti e dirupi, scherzando con la morte. Fa' come ti suggerisco, Marone: getta i tuoi versi con la lira in un cesso e apprendi un'arte che sia più accetta [della poesia], se vuoi benefici. Ma non appena li hai ottenuti, pensa che avrai perso la tua preziosa libertà, non meno che se l'avessi giocata a dadi; e mai più questa tua condizione cambierà, anche se tu e il cardinale vivrete alla veneranda età di Nestore. E se mai progetti di sciogliere un tale legame [la servitù al cardinale], lo potrai fare, ma solo a patto che lui possa riprendersi con sua pace quello che ti avrà dato. Interpretazione complessiva La satira vuol essere un'ironica giustificazione della scelta di Ariosto che non volle seguire il cardinale Ippolito d'Este in Ungheria, dove il prelato era titolare della sede vescovile di Eger (presso Buda), ma è anche una fiera presa di posizione contro l'adulazione e il servilismo dei cortigiani cui il poeta intende sottrarsi: egli infatti finge di chiedere al fratello Alessandro e al segretario di Ippolito L. da Bagno, rimasti al seguito del cardinale, se a corte qualcuno si alza a sua difesa quando il signore lo "accusa" per il suo rifiuto, oppure se tutti lo assecondino nel tentativo di ingraziarselo come normalmente accade. Ariosto mette in luce la triste condizione dei cortigiani, costretti ad adulare i potenti e a soddisfare le loro assurde richieste per la mancanza di denaro, che è il motivo principale per cui lui stesso ha dovuto servire il cardinale e dovrà in seguito lavorare per il duca Alfonso, da cui riceverà incarichi sgraditi (incluso il governo della Garfagnana). Lo scrittore denuncia anche la condizione disagiata dei letterati, lei cui opere non vengono sempre apprezzate dai signori (neanche quando ne cantano le lodi, come il Furioso che non aveva riscosso il gradimento di Ippolito) e non danno loro i mezzi economici per mantenersi, costringendoli a mendicare i "doni" dei potenti; Ariosto finge ironicamente di accusare di questo Apollo e le Muse, chiamati in causa con un rovesciamento della tradizionale invocazione poetica, mentre è ovvio che ad essere incolpati sono i signori come Ippolito che apprezzano assai di più chi li segue ovunque vadano e chi si affanna a servirli, anche a rischio della vita. Il tema del "servir de le misere corti" ricorre anche nel Furioso, specie nell'episodio di Astolfo sulla Luna (► VAI AL TESTO), e sarà affrontato anche da T. Tasso nella Gerusalemme liberata in cui è presente la polemica contro le "inique corti" (► TESTO: Erminia tra i pastori). Tra i motivi semi-seri che Ariosto adduce a pretesto per il "gran rifiuto" vi è anche quello, in gran parte vero, dei suoi problemi di salute, poiché il poeta soffriva effettivamente di stomaco ed era plausibile il suo timore che il clima

rigido dell'Ungheria aggravasse le sue condizioni: ovviamente il tutto è presentato in toni eccessivi e parodici, dicendo che il viaggio causerebbe la sua morte e presentando il paese balcanico come vicino al "polo", mentre a detta dell'autore laggiù si beve smodatamente il vino denso e i cibi sono troppo speziati, cosa che sarebbe per lui nociva. Tra le righe emerge la critica contro la spilorceria del cardinale, poiché Ariosto esclude di poter chiedere al dispensiere di corte (Francesco di Siviero, personaggio citato in molti documenti) di acquistare cibi speciali per lui, nel timore che il prelato non approverebbe la spesa extra, mentre più avanti afferma che non ha mezzi economici sufficienti per mettere su un'osteria a corte, cioè per mangiare diversamente dagli altri cortigiani. Nella satira, oltre al fratello e a L. da Bagno, sono citati diversi personaggi appartenenti al seguito del cardinale, tra cui il suo medico personale, Giovanni Andrea Valentino, e Guido Silvestri, poeta e medico detto "Postumo" perché nato dopo la morte del padre (era amico dell'autore); mastro Pasino era il cuoco di Ippolito e Francesco di Siviero il dispensiere di corte, entrambi citati in più documenti; Andrea Marone era un poeta bresciano che avrebbe voluto seguire Ippolito in Ungheria e al quale Ariosto si rivolge con parole fortemente ironiche. Il sarcasmo verso i poeti di corte traspare anche nell'espressione scurrile "Culiseo" (Colosseo), che vuol dire in realtà che Ariosto vorrebbe mandare i propri versi al diavolo visto che non gli sono serviti a molto. In chiusura (vv. 247-265), Ariosto, seguendo il modello di Orazio, inserisce una breve favola come metafora chiara e trasparente della propria condizione. La storia è quella di un asino e un topolino: un asino, entrato in un granaio attraverso un grosso buco nel muro (vv. 248-249: “pel rotto del muro”), mangia tutto il grano lì contenuto; una volta sazio, temendo l’arrivo del contadino, cerca di uscire dalla fessura, ma, avendo la pancia gonfia, non riesce più ad uscire; interviene, quindi, un topolino, che gli consiglia di vomitare tutto quello che aveva mangiato per poter fuggire. Lo stesso accade ad Ariosto che, per poter riottenere la libertà, è costretto a rinunciare ai doni e ai benefici del cardinale: Commento alla Satira I, Ludovico Ariosto Come su una busta, troviamo mittente (“io”) e destinatari (“voi, Alessandro […], compar mio Bagno”); come in una lettera, l’autore richiede subito notizie, in particolare circa quello che su di lui mormora la gente. “Pazzo”, si risponde, perché si è fatto allontanare dal Cardinale Ippolito d’Este; aggiunge e sottolinea, però, con sottile disprezzo, come egli abbia avuto coraggio di vuotare il sacco, mentre qualcun altro aveva preferito tacere pur di restare tra gli agi e le coccole della vita di corte. «Ma, vedete, nonostante io non abbia più quasi nulla, ho ritrovato la libertà», sembra dirci in seguito lo scrittore, concludendo con un consiglio per i destinatari: seguitemi, fate come io ho scelto di fare. È su queste note che ha inizio uno dei più noti lavori letterari di Ludovico Ariosto, Le Satire, una colorita raccolta di sette lettere aperte che, in poesia, raccontano ironicamente le amarezze della sua vita. Infatti, le Satire furono scritte contemporaneamente alla seconda edizione dell’Orlando Furioso (richiamato nel momento in cui si fa riferimento al personaggio Ruggiero), e in comune con il poema hanno, indubbiamente, il tema della polemica contro la corte e i suoi vizi, visti dall’Ariosto con profondo rancore. Ma, a proposito dell’Orlando Furioso, evidentemente basato sulla tradizione canterina, sono senz’altro da ricordare le altri fonti letterarie a cui l’Ariosto attinge: primo fra tutti Orazio, dalle cui Epistole il cinquecentesco autore trae ispirazione a tal punto che le Satire (il titolo, così come lo stile, sono a loro volta copiati da un’altra opera oraziana, le Satire) sono impostate come lettere. L’altro modello a cui il letterato si rifece fu, per quanto concerne la metrica, il maggiore poema di Dante Alighieri, La Divina Commedia, scritta interamente nelle stesse terzine riprese poi dall’Ariosto. I temi, però, sono profondamente diversi da quelli di qualsiasi autore latino o trecentesco, perché mutato è il clima sociale e politico in cui l’Ariosto si trova a vivere e a comporre. Libertà e indipendenza, rifiuto dell’ipocrita formalità di corte, polemica contro i presuntuosi letterati che stavano presso la Casa D’Este: tutti questi motivi spinsero l’Ariosto ad un allontanamento dai viaggi con il Cardinale Ippolito; che l’Ariosto volesse soltanto stare in pace per poter comporre, questo fatto non era stato capito, secondo lui.

Ludovico Ariosto

La felicità delle piccole cose (Satire, III)

Scritta nel 1518 pochi mesi dopo essere passato dal servizio del cardinale Ippolito a quello del duca Alfonso d'Este, la satira (indirizzata ad Annibale Malaguzzi che gli chiedeva notizie) svolge una serie di riflessioni, ironiche fino a un certo punto, sull'ansia di molti uomini nel ricercare onori e ricchezze, salvo poi ritrovarsi col classico pugno di mosche in mano in quanto la "ruota di Fortuna" gira in modo instancabile e quasi mai compensa in modo adeguato chi spera in essa. Molto meglio una vita modesta che sa accontentarsi di piccole cose, foss'anche una "rapa" cotta in casa propria e preferibile a cibi raffinati ottenuti grazie al servizio dei potenti, perché (detto con mediocrità oraziana) le ricchezze non valgono la pena che danno per conquistarle. A MESSER ANNIBALE MALAGUCIO

3

Poi che, Annibale, intendere vuoi come la fo col duca Alfonso, e s’io mi sento più grave o men de le mutate some;

6

perché, s’anco di questo mi lamento, tu mi dirai c’ho il guidalesco rotto, o ch’io son di natura un rozzon lento:

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senza molto pensar, dirò di botto che un peso e l’altro ugualmente mi spiace, e fòra meglio a nessuno esser sotto.

Dimmi or c’ho rotto il dosso e, se ’l ti piace, 12 dimmi ch’io sia una rózza, e dimmi peggio: insomma esser non so se non verace.

Poiché, Annibale, vuoi sapere come me la passo col duca Alfonso e se sento maggiore o minore il peso di aver cambiato padrone; perché, se mi lamento anche di questo, tu mi dirai che ho il garrese rotto o che sono per natura un ronzinaccio lento:

senza pensarci molto, dirò subito che entrambi i pesi mi spiacciono in egual misura, e sarebbe meglio non sottostare a nessuno. Adesso dimmi che ho la schiena rotta e, se vuoi, dimmi che sono un ronzino e peggio: insomma, non posso evitare di essere sincero.

Infatti se a mio padre, non appena mia madre Daria mi partorì a Reggio Emilia, avessi fatto lo scherzo che Saturno fece al suo [Urano] nell'alto trono [lo evirò], cosicché fosse solo mia l'eredità a cui devono attingere in dieci tra fratelli e sorelle, non avrei mai fatto la pazzia delle ranocchie, andando a cercare qualcuno cui scoprire il capo e piegare le ginocchia.

Che s’al mio genitor, tosto che a Reggio 15 Daria mi partorì, facevo il giuoco che fe’ Saturno al suo ne l’alto seggio, sì che di me sol fosse questo poco 18 ne lo qual dieci tra frati e serocchie è bisognato che tutti abbian luoco, la pazzia non avrei de le ranocchie 21 fatta già mai, d’ir procacciando a cui sco...


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