L\'umanità in tempi bui PDF

Title L\'umanità in tempi bui
Course Filosofia teoretica
Institution Università degli Studi di Napoli Federico II
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Riassunto del libro 'L'umanità in tempi bui' di Hannah Arendt...


Description

1)Il premio che si avvale del nome di Lessing rappresenta per me un grande onore. Ammetto di non sapere come sono arrivata a riceverlo, e dicendo questo posso lasciare da parte la questione del merito; da questo punto di vista, un onore impartisce una lezione di modestia, negandoci la competenza di giudicare i nostri meriti con lo stesso metro col quale giudichiamo quelli altrui. Conferendoci un onore, il mondo prende la parola, e possiamo esprimere la nostra gratitudine solo se decidiamo di agire nell’ambito del nostro rapporto con il mondo, al quale siamo debitore dello spazio in cui parliamo. Un tale onore non ci ricorda solo la gratitudine al mondo, ci crea anche dei doveri nei suoi confronti; certo, possiamo rifiutare tale onore, ma se l’accettiamo, non solo la nostra posizione nel mondo viene rafforzata, ma ci leghiamo ad esso in maniera decisiva. Solo il genio è spinto nella vita pubblica per il solo fatto dei suoi doni, ed è questo l’unico caso in cui l’onore è sulla stessa linea di un accordo con il mondo, fa risuonare nella sfera pubblica un’armonia nata indipendentemente da ogni riflessione od obbligo, come un fenomeno naturale che fa irruzione nella società umana. Qui assume il suo senso ciò che Lessing disse a proposito dell’uomo di genio: il suo gusto felice è il gusto del mondo. Niente è più problematico del nostro atteggiamento verso il mondo, niente meno scontato della manifestazione di armonia col mondo che un onore ci impone. Nel nostro secolo persino il genio si può sviluppare solo in conflitto col mondo, per quanto abbia sempre trovato il suo accordo con la società; ma il mondo e le persone che lo abitano non sono la stessa cosa, il mondo sta tra le persone e questo ‘tra’ è oggi oggetto della massima preoccupazione in tutti i paesi. Anche dove il mondo è ancora in ordine, la sfera pubblica ha perso l’intensità luminosa che apparteneva alla sua essenza. Un numero crescente di persone nei paesi occidentali fa uso di questa libertà ritirandosi dal mondo; questo ritiro non è per forza un male per l’individuo, può anzi permettere a talenti di elevarsi fino al genio e tornare ad essere utili al mondo. Ma ognuno di questi ritiri provoca una perdita per il mondo che si può quasi dimostrare; ciò che va perduto è l’insostituibile ‘tra’ che avrebbe dovuto formarsi tra l’individuo e i suoi simili. Lessing non ha mai trovato l’armonia col mondo esistente, eppure si è sempre sentito debitore verso di esso; il pubblico tedesco non era preparato ad accoglierlo e non lo ha mai onorato in vita. Gli mancava col mondo una combinazione di virtù e fortuna che Lessing considerava il segno del genio; credeva di dovere alla critica qualcosa di vicino al genio, ma non riuscì a realizzare quell’accordo naturale col mondo in cui Fortuna sorride quando appare Virtù. Il suo atteggiamento verso il mondo non fu mai rivoluzionario, ma fu l’atteggiamento di chi continuò a sentirsi debitore verso il mondo, non abbandonò mai il suo solido terreno e non arrivò mai al punto di entusiasmarsi per un’utopia. In Lessing il temperamento rivoluzionario aveva una forma di parzialità singolare, che si attaccava ai dettagli con meticolosità, provocando molti fraintendimenti. La grandezza di Lessing fu di non aver mai permesso a una presunta oggettività di fargli perdere di vista il reale rapporto con il mondo. Ciò non contribuì a renderlo ben accetto in Germania, paese in cui l’essenza critica trova difficoltà a essere compresa; era difficile per i tedeschi comprendere che la giustizia ha poco a che fare con l’obiettività. A Lessing piaceva sfidare i pregiudizi, dire la verità alla plebe di corte: una volta, tentando di chiarire l’origine del ‘piacere tragico’ disse che tutte le passioni in quanto tali sono piacevoli poiché ci fanno sentire più reali; questa frase richiama la dottrina greca delle passioni, che annoverava la collera tra le passioni piacevoli e relegava la speranza tra i mali. Questa distinzione si fonda sul grado di realtà, che si misura in base alla quantità di realtà che la passione trasmette all’anima. L’estetica di Lessing vede nella paura una forma della compassione che proviamo per noi stessi: forse perché Lessing cerca di spogliare la paura del suo aspetto di fuga per salvarla come passione, ossia come un affetto in cui siamo colpiti da noi stessi, allo stesso modo in cui nel mondo siamo colpiti dagli altri. Connesso a questo il fatto che per Lessing l’essenza dell’arte era l’azione; non si preoccupava della perfezione dell’opera d’arte in sé, piuttosto si preoccupava dell’effetto sullo spettatore che rappresenta lo spazio che si è creato tra l’artista e i suoi simili in un mondo comune. Lessing fece esperienza del mondo nella collera e nel riso, che sono per loro natura partigiani; ecco perché non seppe giudicare un’opera d’arte in sé, indipendentemente dall’effetto nel mondo, e poté attaccare o difendere nelle sue polemiche, tenendo conto del mondo in cui il pubblico giudica la questione. Disse che avrebbe lasciato in pace chi è attaccato da tutti, era un modo di tener conto della giustezza relativa delle opinioni che per buone ragioni hanno la peggio. Perciò sul cristianesimo non assunse una posizione definita, al contrario iniziò a dubitarne tanto più erano le prove

che cercavano di dargli, e cercò di preservarlo nel suo cuore quanto più trionfalmente volevano calpestarlo; ciò significa che laddove gli altri dibattevano sulla verità del cristianesimo, egli ne difendeva la posizione nel mondo, ora preoccupato che potesse rafforzare la sua posizione nel mondo, ora preoccupato che scomparisse. Lessing fu lungimirante quando si rese conto che la teologia illuministica del suo tempo col pretesto di fare dei cristiani razionali, ci sta trasformando in filosofi irrazionali; un’intuizione del genere non poteva derivare dalla presa di partito pro-ragione. La preoccupazione maggiore di Lessing fu la libertà, minacciata da chi voleva imporre con le prove la fede; c’era anche preoccupazione per il mondo, in cui sentiva che religione e filosofia dovevano avere un posto, ma separato, in modo che dietro la parete divisoria ognuno vada per la sua strada. La critica nel senso di Lessing prende partito per il mondo, comprendendo ogni cosa in base alla posizione che occupa in un momento dato; una mentalità di questo tipo non potrà mai far nascere una visione del mondo definita che sia immune da ulteriori esperienze. Noi abbiamo bisogno di Lessing per apprendere questo modo di pensare, perché tra noi e lui si frappone il XIX secolo; l’ossessione del secolo per la storia e l’impegno ideologico incombe sul pensiero politico del nostro tempo a tal punto che consideriamo privo di autorità un pensiero libero che non utilizza come sostegno né storia né rigore logico. Certo siamo consapevoli che il pensiero richiede coraggio, ma ci stupisce il fatto che la presa di partito di Lessing per il mondo si spinga fino a sacrificare il principio di non contraddizione, che presumiamo faccia parte del mandato di chi parla e scrive. Egli diceva ‘non devo risolvere le difficoltà che creo, le mie idee possono contraddirsi: conta solo che siano idee in cui i lettori possano pensare da sé’; non voleva costringere nessuno, né con la forza né con le prove. Considerava la tirannia di chi cerca di dominare il pensiero con il ragionamento più pericolosa dell’ortodossia per la libertà; soprattutto, non esercitò costrizione su se stesso, e non fece altro che seminare nel mondo fermenta cognitionis. Il Selbstdenken di Lessing non è l’attività di un individuo chiuso, maturato organicamente, che cerca nel mondo il luogo per lo sviluppo al fine di trovare l’armonia tra sé e il mondo attraverso il pensiero. Per Lessing, il pensiero non nasce dall’individuo, è piuttosto l’individuo (creato per Lessing per l’azione) che si apre al pensiero perché scopre nel pensare un altro modo in cui muoversi nel mondo. Di tutte le libertà che ci vengono in mente, la libertà di movimento è la più antica ed elementare: poter andare dove si vuole è il gesto originario dell’essere liberi, non poterlo fare è il preludio della schiavitù. La libertà di movimento è condizione indispensabile dell’azione, e quando gli uomini sono privati dello spazio pubblico si ritirano nella libertà di pensiero. Certo è un’esperienza antica, e può sembrare che un ritiro di questo tipo sia stato imposto anche a Lessing. Quando sentiamo parlare di ritiro dalla schiavitù terrena nella libertà del pensiero, ricordiamo il modello stoico, storicamente il più efficace; a dire il vero, lo stoicismo rappresenta una fuga dal mondo nell’io che potrà bastare a sé stesso in indipendenza dal mondo esterno, si spera. Nulla di questo nel caso di Lessing, che si ritirò nel pensiero, ma non nel proprio sé, e se è esistito per lui un vincolo segreto tra azione e pensiero, consisteva nel fatto che entrambi avvengono nella forma del movimento e perciò la libertà li sottintende entrambi: la libertà di movimento. Lessing non ha mai creduto che l’azione possa essere sostituita dal pensiero; sapeva di vivere in quello che era il paese più schiavo d’Europa, nella quale era impossibile dire una parola a favore dei diritti dei sudditi, in altri termini agire. La relazione segreta del suo ‘pensare da sé’ con l’azione sta nel rifiuto di sottomettere il pensiero ai risultati; questi avrebbero potuto significare la soluzione di problemi che il pensiero aveva posto a se stesso, e tale rinuncia poteva valere anche il prezzo della verità, poiché ogni verità mette fine all’attività del pensiero. I fermenta cognitionis di Lessing miravano a stimolare altri a pensare da sé, con lo scopo di causare un dialogo tra pensatori; il pensiero di Lessing è un dialogo anticipato con altri, per questo polemico, ma anche gli fosse riuscito di provocare il dialogo con altri che pensavano da sé, sfuggendo a una solitudine che paralizzava ogni facoltà, non ne avrebbe concluso che così tutto andava a posto, perché ciò che non era in ordine era il mondo (ossia lo spazio che sorge tra le persone e in cui tutto ciò che ogni individuo porta con sé con la nascita può diventare visibile e udibile). Nei duecento anni che ci separano da Lessing molto è cambiato sotto questo aspetto, ma poco per il meglio; le basi delle verità universalmente riconosciute che erano state scosse oggi giacciono in frantumi, e non abbiamo bisogno della critica per scuoterla di più. Ciò potrebbe essere un vantaggio che favorisce un nuovo pensiero non più bisognoso di sostegni per muoversi senza balaustre su

un terreno non familiare; è però difficile apprezzare tale vantaggio nel mondo così com’è. Infatti già da tempo è evidente che i pilastri della verità sono stati anche i pilastri dell’ordine politico e che il mondo ha bisogno di quei pilastri come garanzia di continuità, senza la quale non offre ai mortali la patria sicura di cui hanno bisogno. È vero che l’umanità di un individuo perde vitalità col suo astenersi dal pensiero, affidandosi a verità vecchie gettate sul piatto come monete con cui saldare il conto delle esperienze; ebbene, ciò può valere per l’individuo ma non per il mondo. Esso diventa inospitale per i bisogni umani quando è trascinato in un movimento in cui non si dà più alcun tipo di permanenza; perciò, anche dopo il fallimento della rivoluzione francese, i vecchi pilastri rovesciati furono di nuovo eretti, solo per vederli tremare e crollare di nuovo. Gli errori più spaventosi hanno rimpiazzato le verità universalmente riconosciute, e l’errore di queste dottrine non è una prova; in campo politico, la restaurazione non riesce mai a essere una nuova fondazione, al massimo una misura d’emergenza che diventa inevitabile, allorché l’atto di fondazione, detto rivoluzione, ha fallito. È inevitabile però che in tale costellazione, la diffidenza delle persone verso il mondo cresca; la fragilità delle basi continuamente restaurate dell’ordine pubblico diventa più evidente dopo ogni crollo, fino a che la sfera pubblica presuppone evidenti quelle verità universalmente riconosciute a cui non crede più nessuno. 2)La storia conosce molti periodi in cui lo spazio pubblico si oscura e il mondo diventa così incerto che le persone non chiedono nulla alla politica se non prestare attenzione agli interessi vitali; li si può chiamare ‘tempi bui’ (Brecht). Coloro che hanno vissuto in tali epoche sono inclini a disprezzare il mondo, a ignorarlo quanto possibile al fine di arrivare a una mutua intesa coi loro simili senza considerazione per il mondo tra di essi. In epoche di questo genere, si sviluppa un tipo particolare di umanità; pensiamo al Flauto magico, che mette a tema una concezione di umanità più profonda di quella a cui siamo abituati quando pensiamo alle teorie del XVIII sec di una natura umana unitaria, sottostante a una molteplicità di popoli, razze e religioni in cui il genere umano si divide. Se tale natura esistesse, sarebbe un fenomeno naturale, e chiamare ‘umano’ il comportamento a esso conforme implicherebbe ammettere che comportamento umano e naturale sono la stessa cosa; nel XVIII sec il massimo sostenitore di questo tipo di umanità fu Rousseau, per il quale la natura umana comune a tutti i tipi di uomini si manifesta nella compassione, nella ripugnanza innata a veder soffrire un simile. Anche Lessing affermò che l’uomo migliore è il più compassionevole, lui era però turbato dal carattere egualitario della compassione (dal fatto che sentiamo qualcosa che somiglia alla compassione anche verso chi fa il male). Questo non disturbava Rousseau; nello spirito della rivoluzione francese egli vedeva nella fraternité il compimento dell’umanità. Lessing al contrario riteneva che fosse l’amicizia il fenomeno centrale in cui si attesta l’umanità. Dobbiamo soffermarci sulla fraternità come intesa nel XVIII sec; anche Lessing la conosceva quando parlava di ‘sentimenti filantropici’ per gli altri esseri umani. Per noi, è importante che l’umanità si manifesti nella forma di fraternità soprattutto in tempi bui; è vero che tale umanità è inevitabile quando i tempi si oscurano al punto che non è più questione di teoria o libera decisione per ritirarsi dal mondo. L’umanità nella forma della fraternità fa la sua comparsa nella storia coi popoli perseguitati; nel XVIII sec doveva essere naturale tra gli ebrei. Questa umanità è il privilegio dei popoli paria, il vantaggio che hanno in tutte le circostanze sugli altri; un privilegio pagato caro, accompagnato da una perdita del mondo radicale, da un’atrofia degli organi per mezzo dei quali entriamo in contatto con esso, e nei casi estremi possiamo parlare di acosmia, che è sempre una forma di barbarie. In tale umanità, tutto avviene come se sotto la persecuzione i perseguitati si avvicinassero tra loro così tanto da provocare lo spazio intermedio che chiamiamo mondo; ciò provoca un calore tra le reazioni umani che può colpire chi entra in contatto con quei gruppi come un fenomeno quasi fisico. È ovvio che non voglio negare che il calore dei perseguitati sia grande; nel suo sviluppo può generare una bontà di cui gli esseri umani difficilmente sono capaci. Spesso è sorgente di vitalità per il semplice fatto di essere vivi che induce a pensare che la vita sia piena solo verso gli umiliati e gli offesi; dicendo questo non dobbiamo dimenticare che il fascino dell’atmosfera che si sviluppa è dovuto anche al fatto che i paria hanno il privilegio di essere esonerati dalla cura del mondo. La fraternità trova luogo naturale tra gli oppressi; la compassione, che in Lessing e Rousseau gioca un ruolo importante per la scoperta di una natura umana

comune a tutti gli uomini, diventa il motore centrale della rivoluzione in Robespierre. Da allora, è parte inseparabile delle rivoluzioni europee; certo, la compassione è un affetto naturale della che colpisce ogni persona normale alla vista della sofferenza, e di conseguenza, esteso al genere umano intero, potrebbe costituire la base di un sentimento che istruirebbe una società in cui gli uomini possano davvero diventare fratelli. Con la compassione, l’umanitarismo rivoluzionario del XVIII sec cercava una solidarietà con lo sventurato, per risalire alla fonte della fraternità, ma divenne evidente presto che tale umanità non è trasmissibile e non acquistabile da chi non è dei paria; non bastano né compassione né condivisione delle sofferenze. Non è il luogo per discutere il danno della compassione alle rivoluzioni moderne quando tentò di riscattare gli sventurati, invece di istituire la giustizia per tutti; per prendere distanze da noi stessi, potremmo richiamare come il mondo antico considerava compassione e fraternità. I tempi moderni e l’antichità concordano su un punto: entrambi considerano la compassione qualcosa di naturale, inevitabile come la paura, per fare un esempio. Tanto più colpisce l’opposizione tra antichi e moderni nella valutazione della compassione; proprio perché avevamo riconosciuto la natura affettiva della compassione, che invade come la paura senza possibilità di difesa, gli antichi non consideravano l’uomo compassionevole migliore di quello pauroso. Entrambe le emozioni, in quando passive, rendono l’azione impossibile; per questo motivo, Aristotele ha trattato assieme paura e passione. Ma sarebbe un errore ridurre la compassione alla paura (come se la sofferenza altrui facesse nascere la paura per noi stessi) o la paura alla compassione (come se nella paura non provassimo compassione per noi stessi); la nostra sorpresa è ancora maggiore quando leggiamo da Cicerone che gli stoici mettevano sullo stesso piano compassione e invidia; lo stesso Cicerone si avvicina al cuore della questione quando si chiede se bisogna compatire piuttosto che aiutare, o siamo incapaci di aiutare senza compassione. Gli uomini insomma sarebbero meschini al punto di non poter agire umanamente senza pietà. Nel valutare tali affetti è difficile evitare la questione dell’apertura agli altri, precondizione dell’umanità in tutti i sensi del termine; è evidente che condividere la gioia è superiore a condividere la sofferenza: la gioia è loquace, e il dialogo umano si distingue dalla conversazione per il fatto di essere permeato dal piacere che si prova verso l’altro. Ciò che rende la gioia impossibile è l’invidia, il peggior vizio dell’umanità, sebbene l’opposto della compassione sia la crudeltà, un affetto come la compassione, ma perverso, perché consiste nel provare del piacere quando si dovrebbe provare dolore. Il fattore decisivo è che piacere e dolore tendono al mutismo, e ove producono suono non è dialogo. Questo per dire che l’umanità creata dalla fraternità non si adatta a chi non appartiene agli umiliati e gli offesi e questo non può parteciparvi se non con la compassione; il calore dei popoli paria non può estendersi a chi solidarizza con essi, poiché una diversa posizione nel mondo fa pesare su di essi una responsabilità verso il mondo che vieta di condividere la l’insofferenza dei paria. È vero che in tempi bui il calore esercita fascino su chi si vergogna del mondo com’è, al punto di rifugiarsi nell’invisibilità; è lì solo il calore e la fraternità degli uomini stipati tra di loro possono compensare l’irrealtà che contraddistingue le relazioni umane quando si sviluppano senza essere collegate a un mondo comune a tutti. È facile, in tale stato di assenza di mondo, concludere che l’elemento comune a tutti è la ‘natura umana’; poco importa che si metta l’accento sulla ragione, identica per tutti gli uomini, o su una sensibilità riscontrabile in tutti come la capacità di compatire. Razionalismo e sentimentalismo del XVIII sec sono due aspetti della stessa situazione, entrambi conducono all’eccesso in cui gli individui sono legati da vincoli di fraternità con gli altri uomini; razionalismo e sentimentalismo furono sostituti psicologici del mondo comune visibile, allora perduto. In effetti la ‘natura umana’ e il sentimento di umanità si manifestano solo nell’oscurità e non sono individuati perciò nel mondo; inoltre, in condizioni di visibilità si dissolvono nel nulla. L’umanità degli umiliati non è mai sopravvissuta all’ora della liberazione; ciò non vuol dire che non abbia significato, poiché rende sopportabile l’umiliazione, bensì che in termini politici è irrilevante. 3)Tali questioni sull’atteggiamento dei tempi bui sono famigliari alla generazione alla quale appartengo; se l’accordo col mondo, che il ricevere onori presuppone, non è mai stato ...


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