Michel foucault sorvegliare e punire la nascita della prigione PDF

Title Michel foucault sorvegliare e punire la nascita della prigione
Author sarah Gori
Course Filosofia del diritto
Institution Università degli Studi di Firenze
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riassunto sostitutivo del libro ...


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Michel Foucault

Sorvegliare e Punire La Nascita della Prigione Riassunto

Parte Prima Supplizio  Capitolo primo: Il corpo del condannato Foucault apre “Sorvegliare e Punire ” con la descrizione della condanna a morte di Damiens nel 1757, mettendola a confronto con il regolamento di Léon Faucher per la “casa dei giovani detenuti a Parigi”, che programmava minuziosamente la vita dei detenuti dal mattino fino al momento di dormire. Si tratta di due stili penali radicalmente diversi separati da meno di un secolo: è l’epoca in cui viene formulata una nuova teoria della legge e del crimine, un’era di riforma che porta alla sparizione dei supplizi e della morte del condannato concepita come “spettacolo” in favore di una punizione che non vede più il corpo come bersaglio principale, ma che entra nell’ombra come atto amministrativo. Cambia la percezione della pena-spettacolo, che spesso provoca una sorta di inversione dei ruoli, in quanto il suppliziato diventa oggetto di pietà e ammirazione, mentre il boia diviene un assassino a sua volta (come aveva già detto Beccaria, lo stesso assassinio che viene presentato come un crimine atroce viene commesso freddamente). La punizione quindi entra nel campo della coscienza astratta, traendo la sua efficacia come deterrente dalla certezza di essere puniti. La stessa esecuzione viene “allontanata” dal sistema amministrativo della giustizia e affidata ad altri. Non cessa solo lo spettacolo ma anche la presa sul corpo, che viene toccato il meno possibile e smette di essere l’obiettivo della punizione, che priva invece l’individuo di quel bene che è la libertà attraverso pene che includono il corpo (prigione, reclusione, lavori forzati, deportazione). Viene esclusa dalla pena la sofferenza fisica1, passando ad un’economia di diritti sospesi in cui la giustizia manipola sì il corpo, ma lo usa come strumento per arrivare ad un altro obiettivo, ed i vari tipi di punizione fisica si riducono alla sola “esecuzione capitale”. Ne è esempio la ghigliottina, che toglie la vita come la prigione toglie la libertà senza quasi toccare il corpo. È l’inizio del Diciannovesimo secolo, e Foucault parla di una “sobrietà punitiva” che è acquisita tra 1830 e 1848, benché queste trasformazioni siano avvenute in tempi diversi e ci voglia tempo 1

Si arriva persino a voler escludere il dolore dal momento della morte del condannato alla pena capitale.

perché possano essere considerate concluse, e per la metà del XIX secolo la presa sul corpo era comunque presente sotto forma di percosse, razionamento alimentare, privazione sessuale e isolamento, per cui la pena faceva e fa fatica a scostarsi dal supplemento del dolore fisico. Con l’attenuamento della severità penale, la pena nelle sue forme più severe non si rivolge più quindi al corpo ma all’anima del criminale, che viene giudicata insieme al crimine. Vengono dunque inseriti nel rituale penale nuovi oggetti come la perizia psichiatrica o la criminologia, che danno ai meccanismi di punizione una presa giustificabili non dalle sole infrazioni ma anche dagli individui e da ciò che sono, possono essere e saranno. Conoscenza dell’infrazione, del responsabile e della legge. Entra nella pratica penale anche il problema della pazzia, che talvolta portava persino alla scomparsa del crimine commesso dal pazzo, ma i tribunali del XIX secolo ammisero che pazzia e colpevolezza potessero coesistere, ma che il pazzo fosse da rinchiudere e curare piuttosto che da punire: ogni delitto comporta quindi il sospetto della pazzia, o la pazzia come diritto da rivendicare, ed essa comporta non solo un giudizio sulla normalità, ma anche indicazioni su come riportare ad essa l’anomalia. Il giudice dunque non si limita a giudicare e non è solo a farlo, in quanto costituiscono giudici paralleli psicologi, psichiatri, magistrati, educatori e funzionari, che possono influire sulla condanna determinando quindi il destino del condannato. È lo psichiatra ad essere consigliere rispetto alla punizione nel dire se il soggetto è pericoloso, come bisogna proteggersi da lui, come reprimerlo o curarlo, suggerisce il trattamento “medico-giudiziario”. L’operazione penale si è quindi caricata di elementi e agenti extragiuridici che devono funzionare all’interno di essa come elementi non giuridici ed evitare che questa operazione sia una mera punizione legale. La giustizia criminale così funziona e si giustifica attraverso il riferirsi a questi sistemi non giuridici. Il corpo è immerso in campo politico, su di esso operano i rapporti di potere, in un investimento politico legato anche all’impiego economico che se ne fa; esso è utile quando è sia corpo produttivo che corpo assoggettato in modo sia ideologico che fisico (senza però essere necessariamente violento). C’è quindi un sapere del corpo, una “tecnologia politica del corpo” che costituisce una sorta di microfisica del potere che gli apparati e le istituzioni mettono in gioco e che va studiata come una strategia, è un potere che non si possiede ma si esercita e investe coloro che non lo hanno, appoggiandosi su di loro come loro si appoggiano sulle prese che esso esercita. È necessario ammettere che il potere produce sapere, e che questi due elementi si implicano l’un l’altro. A determinare le forme ed i possibili campi della conoscenza sono il poteresapere ed i processi e le lotte che lo attraversano. Si parla dunque di un’”anatomia politica” che tratta del corpo politico come insieme di elementi materiali e di tecniche che servono da armi, collegamenti e punti d’appoggio alle relazioni di potere e sapere che investono i corpi umani e li assoggettano facendone oggetti di sapere. È nella storia di questo corpo politico che vanno collocate le tecniche punitive, le pratiche penali che vanno considerate come un capitolo dell’anatomia politica. La storia di questa microfisica del potere di punire diventerebbe così una “genealogia dell’anima”, che si è sdoppiata dal corpo fisico del condannato come sdoppiato era il corpo del re nelle sue

componenti mortale e transitoria e quella più duratura, che permane nel tempo come supporto del regno. Quest’anima non è da intendersi come un’illusione, ma come una realtà che viene prodotta intorno, sulla superficie e all’interno del corpo dal potere che si esercita su chi viene punito o comunque su chi viene sorvegliato, addestrato, corretto o altro (e quindi su pazzi, bambini, scolari, operai). Non è un’anima che nasce cristianamente punibile e imperfetta, ma un’anima che nasce dalle procedure di sorveglianza, castigo e costrizione, su cui si articolano gli effetti di un certo tipo di potere e di un sapere che rinnova e rinforza gli effetti del potere stesso, e su cui sono stati ritagliati campi di analisi (psiche, personalità, coscienza, ecc..). Come effetto e strumento di un’anatomia politica, l’anima è una prigione del corpo

 Capitolo secondo: lo splendore dei supplizi L’ordinanza del 1670 aveva retto fino alla Rivoluzione le forme generali della pratica penale, assegnando un po’ di supplizio alle pene più gravi. Per supplizio si intende una tecnica che, per essere una pena, risponde a tre regole precise: deve produrre una quantità di sofferenza misurabile, valutabile e comparabile (la morte è un supplizio in quanto arte di trattenere la vita nella sofferenza suddividendola “in mille morti”); deve essere correlata alla gravità del crimine, alla persona criminale e al rango delle vittime, e deve essere calcolata secondo regole dettagliate (numero di frustate, lunghezza dell’agonia, tipo di mutilazione). Il supplizio fa parte di un rituale, deve marchiare la vittima rendendola infame e lasciando il ricordo dell’agonia, e deve essere clamoroso e visto da tutti come trionfo della giustizia che lo impone e vi si manifesta in tutta la sua forza, e che perseguita il corpo anche oltre la sofferenza quando il supplizio si prolunga oltre la morte. In Francia la procedura penale era segreta, si svolgeva interamente senza l’accusato ed il magistrato costruiva da solo una verità che perveniva ai giudici compiuta e completa di rapporti e reperti, e l’accusato veniva incontrato solo al momento dell’interrogatorio. Il re dimostrava così che il diritto di punire non apparteneva alla moltitudine. C ’era anche tutta una serie di regole per stabilire la verità, la natura e il peso delle prove, che servivano a determinare anche il tipo di condanna. Entra ovviamente in gioco anche la confessione, che fa parte dell’insieme delle prove e deve essere accompagnata da indizi che ne avvallino la veridicità. Contemporaneamente però essa trascende le altre prove, è l’atto con cui l’accusato ne riconosce il fondamento ed è cercata in quanto riduce al minimo il lavoro di istruzione e la meccanica di dimostrazione. Essa veniva perseguita anche con la tortura, la “quaestio” imposta dal giudice, che talvolta valeva al condannato la caduta dell’accusa o, per lo meno, l’impossibilità di essere condannato a morte. Si arriva poi all’esecuzione della pena in modo pubblico, che deve “incaricare” il condannato di attestare e proclamare la verità di quanto gli è stato addebitato attraverso la pubblica esposizione, perseguendo la confessione pubblica, col supplizio che diventa un mezzo attraverso il quale la verità si manifesta definitivamente. Esso viene poi collegato al delitto attraverso, ad esempio, l’esecuzione sul luogo del delitto o con supplizi simbolici come il taglio della mano a chi ha ucciso, o arrivando

persino a una sorta di riproduzione del crimine con l’esecuzione, annullandolo così nella morte del colpevole. Il supplizio, infine, doveva anche essere un’anticipazione delle sofferenze dell’al di là o, al contrario, una sorta di espiazione in cui si disegnava la promessa del perdono. Il corpo ha così prodotto e riprodotto la verità del crimine. Il supplizio giudiziario è anche un rituale politico, fa parte delle cerimonie con cui il potere si manifesta: il delitto, infatti, al di là del danno che crea o della norma che infrange, è un attacco diretto al sovrano in quanto la legge è una manifestazione della sua volontà, e la forza della legge è anche la forza del principe. Emerge così che il diritto di punire è un aspetto del diritto che il sovrano ha di fare la guerra ai suoi nemici, ed il castigo è un modo di perseguire una vendetta sia personale che pubblica; il supplizio ricostituisce l sovranità restaurandola in tutto il suo potere, è l’ostentazione di una forza invincibile. C’è un’affermazione della superiorità della forza fisica del sovrano, che si abbatte sul corpo dell’avversario e si impadronisce di esso, mostrandolo e dando così alla cerimonia punitiva una componente di terrore che doveva, sul corpo del condannato, manifestare agli occhi di tutti la presenza del sovrano. Si tratta dunque di una giustizia armata, il re punisce il colpevole con la stessa spada con cui distrugge i nemici. L’esecuzione è quindi sia trionfo che lotta in quanto c’è sul corpo del “paziente” l’azione del boia, colui che adopera la forza applicandola alla violenza del crimine, di cui è materialmente l’avversario. Il carnefice può essere punibile se fallisce nel suo compito, egli è una sorta di campione del re che, tuttavia, divide con l’avversario l’infamia, in quanto in lui non è presente la potenza sovrana al momento di uccidere, quella stessa potenza che è immaterialmente presente non solo a momento della vendetta ma anche in quello della grazia. In ogni infrazione c’era un crimen majestatis, in ogni criminale un regicida in potenza. In queste cerimonie del supplizio il personaggio principale è il popolo, che doveva assistere all’esempio e divenire consapevole della certa punizione che aspettava ogni infrazione, e subire l’effetto di terrore provocato dallo spettacolo del potere sul colpevole; il popolo deve avere paura ed essere al contempo testimone e partecipante della cerimonia punitiva, per cui la vendetta del popolo andava ad affiancarsi a quella del sovrano. Tuttavia, il popolo poteva anche rifiutare il potere punitivo, dando origine ad agitazioni che comprendono incoraggiamenti o acclamazioni del condannato nel suo cammino al patibolo, la folla vuole sentire il condannato maledire chi lo ha messo in quella situazione, egli non ha niente da perdere, parla ed il popolo lo ascolta Si ha quindi un’inversione di ruoli, i criminali divengono eroi, soprattutto quando l’azione per cui erano stata emessa la condanna sarebbe stata punita in modo diverso se si fosse trattato di un individuo di classe alta. Le esecuzioni diventano un momento di pausa dalle attività quotidiane, e di “rivolta” contro le autorità, di furti, risse e tentativi di salvare il condannato, cui il popolo si sentiva vicino perché minacciato dalla smisurata violenza legale. Ad uscire rafforzata dalle esecuzioni era la solidarietà del popolo, che ascoltava il “discorso del patibolo” dei condannati, che venivano riportati anche nelle cronache con più o meno veridicità creando un vero e proprio genere, una letteratura di ultime parole dei condannati che autenticavano il supplizio subito per rafforzare la verità della giustizia. Queste confessioni venivano dunque

pubblicate, portando tuttavia spesso all’eroicizzazione del condannato, che era circondato da una sorta di “aura di santità” se presentato in pentimento e in cerca di perdono per i suoi crimini, ed era ugualmente grande se irriducibile, in quanto non si piegava al potere. Con la soppressione di questa letteratura dalla doppia faccia (giustificava la giustizia e glorificava il criminale) ne nasce un’altra che glorifica il crimine: sono il romanzo nero e la letteratura poliziesca (Baudelaire, Poe), in cui esso viene mostrato nella sua bellezza e grandezza.

Parte Seconda Punizione  Capitolo primo: La punizione generalizzata Nella seconda metà del XVIII secolo quindi la protesta contro i supplizi viene da filosofi e teorici del diritto, che vedono la necessità di punire diversamente, abolendo lo scontro fisico tra sovrano e condannato: la giustizia criminale non deve vendicarsi ma punire rispettando “l’umanità” del criminale. Questo anche di fronte a un “alleggerimento” dei crimini che richiede un affinamento delle pratiche punitive, che devono avere una maggiore universalità. Non si tratta di punire meno ma di punire meglio, si tratta di una nuova strategia politica per l’esercizio del potere di castigare, una nuova politica nei confronti dei diversificati illegalismi tipici dei vari gruppi sociali. Con il maggior benessere economico generale e la crescita demografica, l’illegalismo popolare si rivolge principalmente ai beni (furti, ruberie) e diviene intollerabile nei riguardi della proprietà commerciale e industriale: il nuovo modo in cui viene investita la ricchezza richiede una repressione sistematica dell’illegalismo, le infrazioni devono essere precisamente definite e sicuramente punite. Si sviluppano un illegalismo dei beni (classi popolari) e uno dei diritti (borghesia), ovvero la possibilità di giocare con leggi e regolamenti, per cui la riforma penale è nata nel punto di giunzione tra il superpotere del sovrano e l’infrapotere degli illegalismi, ed è nata come meccanismo per gestirli in modo differenziato e non per sopprimerli tutti, per costruire una nuova economia ed una nuova tecnologia del potere di punire. Il cittadino accetta anche la legge che rischia di punirlo, e quindi il criminale appare come il nemico della società che ha rotto il patto, ma anche come partecipante alla sua stessa punizione, diventa il nemico comune, per cui il diritto di punire non ha più come scopo la vendetta ma la difesa della società. Entra qui in gioco il concetto di moderazione delle pene, che si basa sull’umanità della pena, in cui il corpo, l’immaginazione, la sofferenza e il cuore da rispettare sono quelli degli uomini che, avendo sottoscritto il patto, esercitano il potere di unirsi contro il criminale, escludendo così le sofferenze e le reazioni negative degli spettatori, è una regolazione degli effetti del potere. Lo scopo non è quindi cercare un’equivalenza tra delitto e castigo, ma fare in modo che quest’ultimo non venga ripetuto o preso come esempio. La punizione deve essere un segno che ostacola. Perché il castigo produca effetti, il vantaggio che il criminale vede nel commettere il crimine deve essere “superato” dal male che ne ricaverebbe, per cui il cuore della pena non è la punizione ma l’idea del dolore che essa provoca, l’idea della pena. Inoltre la pena deve avere i suoi maggiori effetti su coloro che non hanno commesso il reato, che devono inoltre associare l’idea di un castigo certo ad ogni delitto (entra qui in gioco la legge chiara, scritta, pubblica e comprensibile a tutti, nonché l’idea che accanto alla giustizia ci debba essere un organo di sorveglianza che impedisca i delitti e ne arresti gli autori). A tutto ciò si collega anche che il delitto debba essere verificato, la sua verità deve essere ammessa solo quando interamente provata, l’accusato viene ritenuto innocente fino alla dimostrazione finale, la tortura viene aborrita

e la segretezza della procedura rifiutata. Ogni illegalismo deve inoltre essere classificato, qualificati e definito: è necessario quindi un codice esaustivo ed esplicito. Non essendo ogni castigo ugualmente forte per tutti, sorge la necessità di individualizzare le pene conformemente ai caratteri di ogni criminale.

 Capitolo secondo: La dolcezza delle pene Trovare per un delitto il castigo che gli conviene, è trovare lo svantaggio di cui l’idea sia tale da rendere definitivamente priva di attrazione l ’idea di un misfatto, si tratta di segni-ostacoli che devono: - Essere il meno arbitrari possibile, ci deve essere un legame di analogia o prossimità tra delitto e castigo. Non si tratta tuttavia di opporre ad un’atrocità un duello atroce, non è la simmetria della vendetta ma lo stabilire un rapporto immediatamente intellegibile ai sensi. Il castigo deve sembrare la necessaria conseguenza del delitto. - Fare in modo che la rappresentazione della pena con i suoi svantaggi sia più viva di quella del crimine coi suoi piaceri. Bisognerà insegnare al malfattore il rispetto della proprietà, per cui gli si farò perdere la libera disposizione dei suoi beni perché la rispetti negli altri. - Essere utile in conseguenza di una modulazione temporale: la pena non è utile se definitiva, se non avesse termine, in quanto il condannato, ridiventato virtuoso, si troverebbe a vedersi imposte non più costrizioni ma supplizi, e lo sforzo fatto dalla società per recuperarlo sarebbe perduto. Eventuali incorreggibili vanno eliminati, e per tutti gli altri le pene devono essere necessariamente a termine. - Fare in modo che il castigo riguardi sì il colpevole, ma soprattutto tutti gli altri, i possibili colpevoli. I segni-ostacoli devono entrare nella rappresentazione, devono essere diffusi e circolare largamente. A questo scopo il castigo deve essere considerato non solo naturale ma conveniente, esso deve diventare una retribuzione data dal colpevole a tutti i suoi concittadini per i crimini commessi, l’ideale sarebbe quindi che egli divenisse uno schiavo al servizio di tutti, un bene sociale, e che pagasse col lavoro che fornisce e coi segni che produce. - Essere una messa in scena della moralità pubblica: non è la restaurazione della sovranità a sostenere la cerimonia del castigo, ma la riattivazione del Codice, il rafforzamento collettivo dell’idea del legame tra crimine e pena. Nella punizione non si vede più la presenza del sovrano, ma le leggi, dimostrando che il Codice collega le idee ma anche la realtà, la legge si ristabilisce e il malfattore viene allontanato dala società. Il castigo deve poi essere visibile in modo che il criminale sia oggetto di istruzione. - Fare in modo che il crimine appaia soltanto come una disgrazia e il malfattore un nemico a cui insegnare di nuovo la vita sociale. Alla luce di tutto questo, emerge come la prigione sia incompatibile con la tecnica della pena-rappresentazione, ma nonostante ciò (e benché avesse una porzione ristretta nel sistema delle pene) diviene la forma essenziale di

castigo: questo si spiega con la nascita, durante l’età classica, di alcuni grandi modelli di carcerazione punitiva dall’Inghilterra e dall’America; si parte dall’idea che l’ozio fosse la causa generale della mag...


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