Psicologia DI Comunita - Programma Completo PDF

Title Psicologia DI Comunita - Programma Completo
Course Psicologia di comunità
Institution Università degli Studi Guglielmo Marconi
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Programma completo di psicologia di comunità dell'università Marconi...


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PSICOLOGIA DI COMUNITÀ Etimologia (3 significati) - Communis (il bene comune): il valore che vi è al di sotto è proprio quello di un comune " ethos" a cui appartenere, ovvero una norma di vita, oppure un atteggiamento etico dell’uomo; - Cummoenia (avere mura comuni): significa sia, da una parte, avere delle fortezze innalzate che difendono, che proteggono dall'esterno, sia identificare meglio e distinguere meglio ciò che sta dentro da ciò che sta fuori, l'ingroup dall'outgroup; - Cummunia (avere doveri comuni): rimanda molto all'importanza di avere gli stessi diritti e gli stessi doveri e rimanda al concetto a sua volta di reciprocità e fiducia nell'altro. Se guardiamo bene tutte le definizioni che abbiamo dato, il prefisso fondamentale, ciò che unisce tutte le definizioni, è quello del "cum", quindi viene sottolineato il carattere di relazione, del sistema interattivo, di contesto condiviso in cui noi cresciamo. UNA PRIMA DEFINIZIONE ITALIANA DI COMUNITÀ: PIERO AMERIO Piero Amerio, psicologo sociale e uno dei fondatori della psicologia di comunità in Italia, dà questa definizione: “la comunità può consistere in un particolare luogo geografico oppure in una rete di relazioni che forniscono amicizia, stima e sostegno tangibile”. Fondamentalmente, infatti, quando noi parliamo di comunità distinguiamo due ordini di problemi: da una parte, c'è la necessità di inquadrare il discorso prendendo in considerazione il tema della condivisione o non condivisione del dato geografico. Dall'altra, la presenza o meno (quindi l’inclusione o l’esclusione) di dinamiche conflittuali all'interno della stessa. Oggi, quando parliamo di comunità, parliamo molto più di un fatto relazionale, piuttosto che spaziale, cioè la copresenza, la condivisione di uno spazio geografico non sembra essere più un dato fondamentale. Ad esempio, i social network, comunità virtuali in cui le persone intrattengono delle relazioni per un bisogno di entrare in contatto con l'altro e per acquisire dall'altro, scambiare con l'altro delle informazioni. Quello che succede in rete è fondamentalmente quello che succede anche nella comunità reale: il soggetto si forma, quello che viene chiamato un capitale sociale di rete, quindi c'è un senso di vicinanza, di reciprocità con l'altro, c'è una comunione di conoscenze, di scambi di informazioni e c'è la possibilità di sentirsi vicini e quindi di essere accettati. Gli studi in realtà, rispetto al tema più generale delle comunità virtuali, danno dei risultati contrastanti rispetto a questo, cioè da un lato alcuni studi mettono in evidenza più un carattere di isolamento che la persona affronta nel momento in cui entra all'interno di queste comunità, mentre dall'altro viene molto sottolineata invece la possibilità di condividere conoscenze e informazioni, e quindi di facilitare la possibilità di contatto con l'altro. Un esempio particolare sono le community networks, quei particolari tipi di comunità virtuali a cui partecipano persone che condividono uno stesso spazio geografico, per cui non solo queste facilitano la relazione con l'altro, ma anche lo scambio delle informazioni rispetto, per esempio, alle attività del quartiere, le sue problematiche maggiori, e quindi favoriscono anche una maggiore partecipazione del cittadino alla propria comunità. Rispetto invece all'inclusione ed esclusione delle dinamiche conflittuali, quello che possiamo dire è che le comunità sono dei sistemi sociali complessi all'interno dei quali avvengono sia delle forze di stessa origine che contrarie. Se parafrasiamo Colley possiamo dire, per esempio, che la comunità è un insieme di reti di relazioni che appartengono più ad uno spazio mentale, che ad uno spazio geografico, e contraddistinte da un campo di forze e contro-forze all'interno del quale gli individui vi appartengono, instaurando dei legami basati sullo scambio reciproco. LA COMUNITÀ - EXCURSUS STORICO Pensiero classico: si identifica un'entità sovra-individuale che trascende l'individuo sia da un punto di vista politico che da un punto di vista etico. Facciamo riferimento, ad esempio, alla Polis di Aristotele, dove all'interno di essa il soggetto è politico, è un soggetto che si relaziona all'altro, viene garantita al suo interno sia la libertà individuale, da una parte, che l'appartenenza ad un comune ethos, ad una comune etica. Rinascimento: c’è la crisi della concezione classica, l'attenzione si sposta da essa, come fatto sovra-individuale e trascendentale, all' individuo stesso che è capace di decidere per il suo destino ed è fondamentalmente un soggetto attivo, il motto di questa fase lo ritroviamo all'interno della celebre affermazione di Cartesio del "cogito ergo sum". Pensiero giusnaturalistico: l'attenzione si sposta da “un sociale che non è più qualcosa di sovrumano, ma è assolutamente umano” ed è regolato dalle contrattazioni che gli uomini di una

stessa comunità stipulano tra di loro e che regolano i rapporti e vanno a identificare la possibilità di avere degli stessi diritti senza ledere la libertà dell'altro. Pensiero romantico: esalta un collettivo sociale che è tenuto insieme da un sentimento di appartenenza, più che da un patto o da una negoziazione tra i membri stessi. Quindi è un legame che tiene “l’uomo legato all’uomo”, una visione che gli psicologi di comunità utilizzano ancora oggi. LA COMUNITÀ SECONDO TÖNNIES E WEBER Ferdinand Tönnies (sociologo): la comunità si fonda sulla comprensione, cioè “un modo di sentire comune e reciproco associativo”, un sentimento all'interno del quale si sviluppa una “volontà collettiva”, espressione della sua unità. Inoltre, egli distingue la comunità dalla società, che invece è un prodotto degli interessi, degli egoismi umani. Max Weber (sociologo/filosofo): l'orientamento all'azione all'interno di una comunità si basa proprio “su un sentimento di una comune appartenenza che è soggettivamente sentita dalla persona”, quindi che è diversa da persona a persona all'interno della stessa. Anche qui troviamo una differenza tra la comunità e l'associazione, in cui invece la disposizione all'agire sociale poggia su un'identità di interessi oppure su interessi che sono motivati razionalmente rispetto al valore e allo scopo. Gli elementi essenziali della comunità, nella visione di Tönnies e Weber, sono fondamentalmente questi: - Interdipendenza delle relazioni tra le persone appartenenti; - Forte grado di omogeneità rispetto ai valori e alle norme (valori e norme condivise); - Il loro prospettarsi come degli elementi soggettivamente percepiti e interiorizzati nella persona; - Forte senso dell'ingroup rispetto all'outgroup. LA COMUNITÀ COME UN SENTIRE: IL SENSO DI COMUNITÀ Seymour Sarason: psicologo sociale e professore emerito all’università di Yale, è considerato il padre della psicologia di comunità. Egli definisce il senso di comunità come “quella percezione di similarità con gli altri, una riconosciuta interdipendenza con gli altri, una disponibilità a mantenerla offrendo o facendo per gli altri ciò che si aspetta gli altri facciano per sé. C'è la sensazione che la comunità sia qualcosa di stabile e affidabile”. David W. McMillan: definisce il senso di comunità come “un sentimento che tutti i membri hanno di appartenervi e di essere importanti gli uni per gli altri e una condivisione di bisogni che saranno soddisfatti soltanto dall'agire comune, dallo stare insieme”. Gli elementi fondanti del senso di comunità per David W. McMillan e il suo collega, David M. Chavis, sono: - Senso di appartenenza: il sentirsi parte di qualcosa di più grande, riconosciuti dentro un'unità più generale. - Influenza: collegata al concetto dell'empowerment, è la percezione di essere importanti da parte della persona e la possibilità di andare ad intaccare e modificare la struttura della società. L'influenza è direttamente proporzionale all'ampiezza della comunità; specialmente in quelle molto ampie, come avviene nelle situazioni odierne, si è più predisposti a cadere nell'anonimato e nella difficoltà di assumersi delle responsabilità, rispetto alla comunità stessa - Integrazione dei bisogni: l'aspettativa che i propri bisogni, i propri desideri e i propri scopi possano essere soddisfatti, all'interno della comunità, da parte di un'azione collettiva e unita. - Connessione emotiva condivisa: l'insieme di tutti quei valori, quelle credenze e quelle aspettative comuni. Il senso di comunità e il capitale sociale: il senso di comunità è un concetto fondamentale perché è attraverso questo sentirsi appartenenti e riconosciuti dall'altro che il soggetto prova benessere. Uno degli scopi della psicologia di comunità è assolutamente quello di garantire il benessere dell'individuo e della collettività e migliorare la qualità della vita. Il senso di comunità è un fattore di protezione per la salute , sia in termini psicologici che fisici. Il concetto poi è associato a quello di capitale sociale, ovvero il grado di coesione sociale che esiste all'interno di una comunità. Il capitale sociale ha un costrutto multilivello e multidimensionale, che prende in considerazione quattro dimensioni fondamentali: comportamentale, cognitiva, formale e informale. Queste quattro andranno a intersecarsi tra di loro.

LA NASCITA E LA DEFINIZIONE DELLA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ Nel 1960 in America si sviluppa un'attenzione nuova all'origine dei problemi sociali e la legittimazione avviene nel 1965 all'interno di un convegno per la “formazione degli psicologi per l'igiene mentale di comunità” (l'attenzione si sposta sul disagio mentale). C'è quindi il fallimento di una concezione del disagio mentale di tipo individualistico, biologico e intrapsichico; questo comporta anche una concezione nuova della cura, poiché l’istituzionalizzazione e la cura all'interno degli istituti manicomiali e degli ospedali psichiatrici non è più ritenuta idonea. Questo perché alla concezione nuova di disagio si affianca anche una nuova concezione dell'individuo, che non può essere considerato se non all'interno del proprio ambiente di vita. È necessaria, oltre che una nuova concezione della malattia, anche una nuova modalità di cura che parta da un approccio interdisciplinare, perché il disagio non appartiene più solo all'individuo ma appartiene alla relazione che questo instaura all'interno della società e quindi ha un carattere bio-psicosociale. Un altro punto che viene focalizzato dagli psicologi di comunità è l'importanza della ricerca, che è collegata al cambiamento sociale, e questo è un concetto che si ritrova molto nell'opera di un importantissimo psicologo di comunità che è Kurt Lewin. La ricerca, quindi, non nasce soltanto dalla necessità di attuare un'attività diagnostica, ma serve anche ad un'attivazione dei membri della comunità, a un cambiamento all'interno di essa e la relazione tra ricerca (teoria) e il cambiamento (pratica) è circolare. La psicologia di comunità viene legittimata, per esempio, attraverso l'edizione di questo volume dello psicologo David Rappaport del 1977: “Community Psychology Velius Research and a Action”, dove la psicologia di comunità viene definita come “ un'ideologia, un insieme di valori e un atteggiamento preciso”. L'ideologia si muove all'interno di un nuovo approccio, che è ecologicosistemico. I valori fanno riferimento soprattutto alla promozione delle competenze del soggetto, quindi con un'attenzione nuova alla persona e non più al deficit, alla problematicità che la persona porta. Si ricerca le competenze residue, le risorse che il soggetto ha e con le quali si muove all'interno della comunità stessa. L'atteggiamento preciso quindi che la psicologia di comunità prevede è un atteggiamento di tipo preventivo . All'interno di questa nuova visione anche lo psicologo cambia il suo ruolo e l’identità. Lo psicologo è un operatore sociale, non è più un professionista chiuso all'interno del suo studio clinico, come siamo abituati a pensare, o all'interno del laboratorio svolgendo un'attività da ricercatore, ma è un professionista che si cala nel sociale, che si impegna attivamente per la promozione del cambiamento sociale. Questo cambiamento avviene attraverso un'attività di ricerca continua, fondamentale per evidenziare i legami presenti tra i servizi e le varie strutture del territorio, oltre che per favorire un lavoro di rete. Kenneth Heller: la psicologia di comunità è un orientamento rivolto più alla prevenzione che al trattamento, non si incentra sul deficit ma sulle competenze e i modi per rafforzarle e si focalizza sull'interazione tra persona e ambiente. Quello che avviene è un cambiamento dell'oggetto di studio, che non è più l'individuo o la società, e il problema (il disagio) non è più visto come insito all'interno dell’individuo o di problematiche sociali, ma all'interno della relazione che tra di questi si sviluppa. Jim Orford: nel suo volume “ Psicologia di Comunità ” (1995) vede questa come “un'area di intervento, una disciplina accademica e un patrimonio conoscitivo e tecnico che forma una professione di aiuto”. Piero Amerio: in “Psicologia di Comunità ” (2000) ne parla come di “un'area di ricerca e di intervento sui problemi umani e sociali, che si rivolge all'interfaccia tra la sfera individuale e la sfera collettiva, tra sfera psicologica e sociale”. Il disagio nell’approccio ecologico e sistemico: il disagio non è più una condizione insita nell’individuo né una condizione determinata unilateralmente dalle strutture sociali, ma è all’interno della relazione. Per spiegare il disagio psicologico e sociale, nel corso del tempo, si è fatto sempre riferimento a due teorie fondamentali: 1) Teoria eccezionalista (o della selezione sociale): il disagio è causato da alcuni fattori individuali casuali (predisposizione da parte del soggetto) e la modalità di cura deve essere focalizzata sull'individuo e si formalizza, per esempio, in un intervento di tipo farmacologico, psicoterapeutico o riabilitativo (trattamento riparativo); 2) Teoria universalistica: il disagio è una conseguenza di un'iniqua distribuzione delle risorse dell'ambiente. Questo significa che il disagio si trova all'interno della società e quindi è necessario un intervento che vada a modificare queste situazioni, soprattutto a livello sociale, come per esempio gli interventi preventivi.

GLI OBIETTIVI DELLA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ PREVENZIONE: legittimata, dal punto di vista legislativo, dalla legge 833 del 1978, la Legge sulla Riforma Sanitaria, che nell'articolo 1 parla proprio della “promozione, del mantenimento e del recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzioni di condizioni individuali e sociali” e nell'articolo 2 parla anche di “prevenzione delle malattie e degli infortuni in ogni contesto di vita e di lavoro”. Quando parliamo di prevenzione, parliamo fondamentalmente di tre tipi, descritti per esempio da Korchin e Caplan nell'ambito psichiatrico, e sono: Prevenzione primaria: riduce la possibilità che una malattia si evidenzi all'interno di una popolazione e agisce prima che la malattia possa manifestarsi, ad esempio nel caso dei vaccini; Prevenzione secondaria: interviene nel momento in cui la malattia già si è diffusa all’interno della popolazione, ma limita il suo diffondersi e il suo cronicizzarsi e si identifica con la diagnosi e la cura precoce, come per esempio le campagne che invitano la popolazione ad effettuare visite di controllo e screening in campo oncologico; Prevenzione terziaria: attenua le conseguenze della malattia in chi l’ha già avuta, il senso di deficit e la possibilità del soggetto di sentirsi con un handicap di qualche tipo. Si identifica con la cura e la riabilitazione. Lo scopo è di impedire, per esempio, il progredire della malattia, la percezione di handicap e la possibilità della morte. Un esempio può essere il procurare una protesi a chi ha dovuto subire un’amputazione o insegnare loro un nuovo lavoro. Altre definizioni di prevenzione, invece, prendono in considerazione solo il gruppo target, e quindi identificano degli interventi che possono essere universali, quindi rivolti a tutti, oppure selettivi, rivolti soltanto alle persone a rischio, o ancora individuali, rivolti alla persona nello specifico. Definizioni ancora più complesse prendono in considerazione sia il gruppo target che i livelli di intervento, dei quali ne sono stati identificati cinque: individuale, microsistema, organizzazione, comunità e macrosistema (esempio: formulazione delle leggi). Quindi, gli interventi preventivi agiscono prima che il disagio si manifesti e agiscono su quei fattori che facilitano o rallentano la possibilità delle emergenze del disagio. Nel primo caso parliamo dei fattori di rischio, che espongono il soggetto alla possibilità maggiore di malattia, mentre nel secondo caso i fattori di protezione, che espongono il soggetto in una possibilità minore di malattia. Collegato al concetto di comunità è il concetto di resilienza. La resilienza deriva da una concezione di ambito fisico, ed è fondamentalmente la capacità della materia di resistere agli urti, assorbendone un'energia positiva. Nel campo della psicologia identifica la capacità del soggetto di resistere ai fattori di rischio e agli eventi traumatici e di riorganizzare positivamente la propria vita in seguito ad essi. Abbiamo però delle difficoltà rispetto all'insediamento dell'ottica e della strategia preventiva; infatti, c’è ancora un predominio della concezione eccezionalista e vi è un minor consolidamento dell’ottica preventiva rispetto a quella riparativa. Inoltre, è presente una maggiore sostenibilità di un orientamento temporale verso il presente e, soprattutto, c'è una scarsa domanda sociale di interventi di prevenzione, da parte della comunità, nonché un'emergenza continua che porta ad attuare degli interventi subito, che sono sempre interventi di cura, quando la malattia è già sorta. Infine, ci sono da prendere in considerazione le caratteristiche peculiari proprie delle scienze sociali. Quando parliamo di prevenzione, parliamo di due direzioni fondamentali: una prevenzione di tipo “proattiva”, che va ad agire prima che il disagio si manifesti per eliminare i fattori di stress ambientali, e quindi promuovere in questo modo il benessere del cittadino, e gli interventi invece di natura “reattiva”, che si identificano fondamentalmente con la cura, in qualche modo, con la possibilità di aumentare le competenze dell'individuo di fronte agli eventi stressanti (come la consulenza, le strategie educative e formative) o più terapeutici (come i gruppi di auto-aiuto). PROMOZIONE DEL BENESSERE: è il secondo importante obiettivo della psicologia di comunità. Vi sono differenti definizioni di benessere, a seconda del criterio utilizzato; abbiamo dei criteri esterni, per cui il benessere è visto come una condizione di vita ottimale e si è in possesso di tutte le caratteristiche migliori da un punto di vista dei valori condivisi, e parliamo in questo senso del benessere oggettivo o sociale. Oppure, se prendiamo in considerazione dei criteri interni, si avrà un benessere soggettivo, cioè il benessere basato sul vissuto soggettivo e la valutazione personale che la persona fa rispetto all'appagamento della propria vita. Il benessere soggettivo, però, non viene definito come un criterio stabile perché varia da momento a momento, per questo si fa maggiormente riferimento oggi a un nuovo costrutto che è quello del benessere psicologico. Il benessere psicologico viene sottolineato da Carol Rif attraverso la votazione di sei caratteristiche fondamentali, che sono:

1) Relazioni positive con le altre persone: avere un buon senso di comunità; 2) Accettazione di sé; 3) Autonomia: sentirsi autonomi e indipendenti; 4) Padronanza dell’ambiente: avere un potere, una possibilità di agire, una padronanza sull'ambiente; 5) Avere uno scopo nella vita; 6) Crescita personale: un processo dinamico, che dura per tutto il corso della nostra vita. LE ORIGINI DELLA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ: LE TRE RIVOLUZIONI La prima rivoluzione nel campo della salute mentale La prima la possiamo inserire all'interno del contesto della Rivoluzione Francese da parte di un medico, Philippe Pinel, che scarcerò proprio in quegli anni i soggetti psichiatrici detenuti. La concezione era che il soggetto malato con una sofferenza psichica non fosse semplicemente un antisociale, un delinquente o posseduto dal demonio, ma fosse portatore di una sofferenza che necessitava...


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