Riassunto psicologia di comunita PDF

Title Riassunto psicologia di comunita
Course Tecniche di conduzione psicodinamica dei gruppi di lavoro
Institution Università degli Studi di Palermo
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PSICOLOGIA DI COMUNITà, LAVANCO Quasi un'introduzione La psicologia di comunità è scienza analitica dell’azione: SCIENZA ANALITICA perché cerca di cogliere l’intersecarsi degli aspetti intrapsichici e interpsichici, mondo interno e mondo esterno, in cui l’appendice individuale e collettiva dell’esistente divengono l’una protuberanza dell’altra; dell’AZIONE perché questa dinamica è visibile solo sul palcoscenico del sociale. Concetti chiave nell’ambito degli interventi di comunità sono quello dell’AZIONE SOCIALE, intendendo con essa un’azione socialmente organizzata ed esercitata sul sociale, e quello di EMPOWERMENT col quale l’azione assurge a mezzo privilegiato per generare un cambiamento desiderato. La PARTECIPAZIONE SOCIALE la ritroviamo come ideologia che guida le strategie portanti della disciplina e come azione concreta di individui e gruppi che ne traducono praticamente le metodologie. Vanno tenuti presenti a) gli ASPETTI SOGGETTIVI della partecipazione come la coscienza e la responsabilità delle azioni, la disponibilità al dialogo e al confronto con l’altro, la forza di mettersi in gioco, l’autoefficacia personale, b) e quelli OGGETTIVI connessi ai vincoli e alle risorse politiche, economiche, tecnologiche, culturali di una certa realtà territoriale. In questo senso, le attuali forme di progettazione partecipata sono orientate a sviluppare nelle risorse umane una maggiore consapevolezza dell’interazione fra questi due aspetti. Dal punto di vista operativo diventa invece importante capire quale tipo di partecipazione promuovere: partecipazione politica, partecipazione alla produzione economica, alle attività religiose, ai processi educativi, alla vita familiare. In realtà esiste un elemento che accomuna le diverse forme di partecipazione ed è la VISIBILITA’ DELL’AZIONE. Un’azione che non sia socialmente visibile non può essere rilevata come partecipazione. Quanto detto può essere chiarito prendendo in esame la PARTECIPAZIONE POLITICA. Essa è di solito associata ad azioni come l’atto del voto, la presenza a manifestazioni, la discussione di avvenimenti politici, la diffusione di informazioni politiche e via dicendo. BOBBIO, MATTEUCCI E PASQUINO individuano 3 forme di partecipazione politica: 1. la PRESENZA che rappresenta la forma meno intensa e periferica; si tratta di quelle situazioni in cui il soggetto è ricettivo o passivo e in cui non porta alcun contributo proprio, quantomeno non visibile 2. la seconda forma è l’ATTIVAZIONE in cui il soggetto esplica una serie di attività o che gli sono state delegate o di cui è egli stesso promotore 3. la terza forma è la PARTECIPAZIONE intesa in senso stretto che vede il soggetto contribuire direttamente o indirettamente a una presa di decisione politica. La questione giovanile è stata per lungo tempo affrontata con la finalità di contenere i comportamenti devianti che a essa si associano. In realtà, nel passato ci si è accontentati di un modello teorico guistificazionista del controllo sociale, per cui il disagiato assume probabilmente comportamenti devianti, a loro volta espressione di quel disadattamento che relega il soggetto in una posizione di emarginazione sociale. La tendenza odierna è quella di abbandonare una causalità lineare per andare a cogliere le differenze e il loro reciproco incrociarsi. Con l’aggettivo GIOVANILE indichiamo una condizione anagrafica molto ampia che va dalla pre-adolescenza, ovvero 11-14 anni, all’adolescenza, tra i 15 e i 18-20 anni, fino a comprendere la giovinezza, tra i 19 e i 25-30 anni. Il DISAGIO consiste in un malessere soggettivo e in quella sofferenza psichica che gli si accompagna in modo non patologico e inerente i problemi psicologici, evolutivi, affettivi, familiari, di relazione, che il processo di costruzione dell’identità non esclude.

Questa sofferenza sarebbe dovuta a due ordini di fattori: 1.

le difficoltà a superare i compiti evolutivi a cui l’adolescente va incontro

2. e la particolare configurazione che la società moderna ha acquisito con elevati livelli di complessità sempre crescenti. Rispetto al primo punto l’ADOLESCENZA viene riconosciuta come un processo di crescita che per i cambiamenti che comporta a livello biologico e a livello relazionale si presenta di per sé come un percorso di sviluppo ampiamente difficoltoso e angusto. Se ciò vale per tutti gli adolescenti è pur vero che il disagio giovanile non può essere generalizzato a tutti gli adolescenti. Riguardo il secondo punto si è passati dalla FORZA DEL DESTINO che regolava le società contadine e poi industriali alla CAPACITA’ DI SCELTA E DI RISCHIO della società moderna. Altro elemento di complessità si accompagna alla scomparsa di quelli che chiamiamo RITI DI PASSAGGIO con cui nel mondo primitivo si designavano quei meccanismi cerimoniali che regolavano i mutamenti della vita dei singoli e dei gruppi. Con essi l’individuo simulava l’attraversamento di un sentiero insidioso, segnato da prove di forza e di astuzia che potevano finanche sfidare il pericolo reale; il percorso collocava l’adolescente in una situazione di sospensione tra ciò che era e ciò che sarebbe diventato. Il valore altamente simbolico del gesto era confermato dal fatto di avere luogo a cospetto della comunità e dei sui membri rappresentativi, che testimoniavano il passaggio del giovane al nuovo ruolo. E’ chiaro che la situazione oggi è molto cambiata e che i pochi riti di passaggio rimasti non hanno la stessa pregnanza simbolica per tutti. Dal malessere soggettivo che contraddistingue il disagio giovanile distinguiamo il DISADATTAMENTO che esprime in modo oggettivo una relazione difficile che il soggetto intrattiene con l’ambiente o meglio con un singolare tipo di ambiente, scolastico, lavorativo, familiare, etc. In questo rapporto hanno un forte ruolo le risorse di cui il soggetto dispone e quelle che l’ambiente a lui più prossimo gli rende disponibili. Un’ulteriore differenza è quella tra DISAGIO e DEVIANZA. Quest’ultima connota un comportamento messo in atto da un individuo che con esso si discosta o viola apertamente una norma condivisa e ritenuta legittima dalla collettività. Nella devianza confluiscono: un ELEMENTO VALUTATIVO della società, che risconosce l’attributo deviante al comportamento e all’attore che lo ha posto in essere, -

e un ELEMENTO DI IDENTIFICAZIONE del soggetto deviante col ruolo che gli viene attribuito.

La dinamica fra questi due elementi fa scattare il PROCESSO DI STIGMATIZZAZIONE col quale il deviante viene socialmente etichettato come tale. Fare chiarezza su questi costrutti aiuta a comprendere che essi non coincidono con quel malessere diffusa chiamato DISAGIO GIOVANILE, che va interpretato in una dimensione dinamica, come un processo in cui si incrociano fattori di rischio e fattori di protezione e dove è possibile per i giovani intraprendere traiettorie parecchio differenti. L’azione dell’operatore deve inerirsi in termini preventivi e di promozione del benessere. In quest’ottica si inserisce il LAVORO DI ANIMAZIONE coi gruppi giovanili spontanei che può essere riconosciuto come il tentativo di accostare questa particolare fascia di età senza che i giovani debbano sentirsi un problema o al contrario una risorsa. Si parte dal presupposto che gli adolescenti e i giovani siano in grado di lavorare attorno ai temi chiave della generazione che stanno vivendo e che, a partire da un luogo condiviso e da un ruolo chiave che li sostiene, essi possano ricercare, progettare, costruire insieme. In essa si riconosce a) Un’ANIMA POLITICA che richiama le sue origini storiche e che propone un fare trasformativi della realtà, capace di creare localmente beni pubblici e di lavorare sulla cittadinanza;

b) un’ANIMA EDUCATIVA in cui nessuno educa nessun altro, ma ci si educa a vicenda attraverso momenti collettivi fatti di scambi affettivi e culturali, nei quali l’individuo può apprendere, rielaborare e imboccare scelte personali, c) un’ANIMA CULTURALE che mette a fuoco un luogo di dibattito dei valori culturali correnti piuttosto che un fruire passivo di contraddizioni, conflitti, controsensi ai quali si rimane estranei; d) ed infine un’ANIMA LUDICA che riconosce nel gioco, o meglio nel mettersi in gioco, l’essenza di un protagonismo che dialoga con le regole. L’animazione è essenzialmente un percorso formativo che mira a trasformare un numero di giovani in un gruppo dai legami significativi che portano, attraverso un fare comune, alla produzione di piccoli beni collettivi. Esemplificativo è il CENTRO DI AGGREGAZIONE GIOVANILE sorto in Italia sul finire degli anni ’70. Si tratta di consultori ad impostazione psico-pedagogica che coinvolgono il giovane ancora in formazione, in condizione di normalità o di rischio, in attività che privilegiano il gruppo come dimensione dinamica più adatta a stimolare un confronto e una comunicazione interpersonale centrata sullo scambio relazionale. Distinguiamo 4 modelli di CAG: - C.A.G. di promozione e socializzazione; -

C.A.G. di formazione valoriale;

-

C.A.G. di sostegno per soggetti in difficoltà;

-

C.A.G. polifunzionali.

1. Framework teorico La PSICOLOGIA DI COMUNITA’ è una disciplina volta al sociale per LEGGERLO, RIORGANIZZARLO, CAMBIARLO, PROTEGGERLO, INTERROGARLO e FORTIFICARLO. La psicologia di comunità nasce con un VIZIO DI NON-FORMA poiché essa è subito AZIONE, azione concreta che media e traduce il solco fra un SOCIALE INDISTINTO in cui gli individui sono portatori di bisogni e un SOCIALE POLITICO E ISTITUZIONALE strutturatosi intorno agli eventi problematici a cui dover rimediare. Comunità: una definizione al singolare o al plurale? Ma partiamo col capire cos’è una comunità. Il termine COMUNITA’ è un concetto costruito a ponte tra l’individuale e il sociale. E’ in questo senso INCLUSIVO in quanto incorpora aspetti multiformi della vita sociale, è INDETERMINATO poiché sintetizza un punto di vista politico, sociologico, psicologico del lavoro nella comunità, ed infine INCOMPLETO perché spesso quando parliamo di comunità abbiamo bisogno di specificarne la tipologia utilizzando sostanti con funzione aggettivante, parliamo quindi di comunità etica, comunità politica, comunità virtuale, etc. Certo è che con questo termine vogliamo indicare un particolare modo di strutturare le relazioni che aggiunge qualcosa in più rispetto agli altri modi di essere insieme. Risalendo al significato etimologico il termine comunità deriva da CUM MOENIA, ovvero mura comuni, e CUM MUNIA, ovvero doveri comuni. Nella prima accezione ritroviamo un’appartenenza dettata dai confini territoriali oltre i quali troviamo l’outgroup; nella seconda accezione si fa riferimento ad un’appartenenza dettata da un comune sentire legato alle relazioni che dentro le mura si dispiegano. Nella letteratura troviamo diverse rivisitazioni del termine. TONNIES definisce la comunità differenziandola dalla società. Nella prima, la convivenza è diretta conseguenza della vita in comunità e lo spirito unitario si ispira a vincoli sentimentali e affettivi, quindi ad un sentire comune;

Mentre nella società la convivenza è dettata da un contratto e il legame è la conseguenza di vincoli utilitaristici. WEBER, invece, differenzierà la comunità dall’associazione riconducendo tale differenza alla diversa disposizione del soggetto ad organizzare la sua azioni in relazione o ad una appartenenza dettata da una storia e una tradizione di affetti comuni oppure in relazione ad una identicità di interessi che motivano razionalmente al raggiungimento di uno scopo. L’autore comunque chiarisce che tra i due tipi ideali esistono anche delle realtà intermedie in cui il carattere di comunità e quello di società non si escludono l’un l’altro. Infine, dagli ANNI ’20 agli ANNI ’50 la cultura sociologica americana reagisce alla spersonalizzazione dei rapporti nelle città progresso riconducendo il termine di comunità a quello di località e avviando ricerche sulle comunità rurali e i loro stili di vita ponendo l’accento sul rapporto con la natura che ispira ad una convivenza sana e armoniosa, e sui rapporti vis à vis che stimolano una vicinanza egalitaria e solidale fra i membri. Questa concezione è stata più volte criticata innanzitutto per la sua visione idilliaca che spoglia la comunità della sua componente dialettica che include il conflitto e la sua negazione, ed in secondo luogo per l’idea di chiusura che richiama la collocazione territoriale e la certezza dei confini con una vena di riluttanza al nuovo e al cambiamento.

La comunità come fatto relazionale. A differenza delle comunità rurali, nelle società moderne, caratterizzate dallo sviluppo di sistemi di trasporto sempre più efficienti e l’insorgere di bisogni di mobilità, i confini del quotidiano si vanno sempre più dilatando, fino a vanificare il dato territoriale in quanto presupposto per lo sviluppo di un senso di appartenenza. L'allentamento dei rapporti familiari e di vicinato con una proliferazione di nuovi legami deboli corrisponde nei contesti urbani allo sviluppo di altri tipi di rapporti, tanto che possiamo ipotizzare la comunità come fenomeno relazionale prima che territoriale. In proposito, LEWIN ha elaborato la field theory (teoria del campo). FIELD = CAMPO, ovvero SPAZIO VITALE (o AMBIENTE) di un organismo, entro il quale si svolgono gli stimoli che ne determinano i l comportamento, per la stretta interdipendenza esistente fra gli stati dell’individuo e la struttura del suo ambiente psicologico. I motivi del comportamento di una persona NON si ricercano in ciò che le è accaduto nella sua vita passata , MA si prendono in esame le interrelazioni ATTUALI tra la persona e l’ambiente. COMPORTAMENTO è in funzione della persona e dell’ambiente, quindi, del CAMPO PSICOLOGICO. La field theory permette di leggere ogni evento come totalità delle forze che agiscono nel campo in un rapporto di interdipendenza a un dato momento. Le forze attengono tanto al mondo personale (spazio di vita) quanto all'ambiente fisico e sociale che può o meno rientrare nell'attività psichica del soggetto. Nel campo dinamico di forze l'aspetto individuale e quello sociale interagiscano scambievolmente mediante quella che Lewin chiama "zona di frontiera". Un approccio di questo tipo risolve la scelta obbligata tra una comunità sovraindividuale, portatrice a priori di un bene sovrano e atemporale (dove il conflitto non ha diritto di cittadinanza) e una comunità deter-ministicamente regolata dagli interessi utilitaristici dei singoli (dove l'appartenenza non è predittiva di benessere collettivo). La possibilità di superare i separatismi concettuali tra comunità buona o cattiva, bisogni soggettivi o collettivi, dato strutturale e non strutturale conduce a una definizione di comunità come sistema sociale complesso in cui agiscono contemporaneamente forze aggreganti e disgreganti, correnti di energia che si incontrano/e si scontrano, si influenzano e si potenziano, si limitano e si distruggevo, dando origine a un processo basato su equilibri costantemente dinamici. Parafrasando Cooley (1909), la definizione di comunità che adottiamo prevede una rete di relazioni che si strutturano all’interno di un campo dinamico di forze e controforze, presenti in un dato spazio mentale (prima che territoriale) agli individui e ai gruppi che sentono di appartenervi e che intrattengono tra loro rapporti di mutuo scambio.

Come nasce la psicologia di comunità La data ufficiale della nascita della psicologia di comunità e il 1965 con la prima conferenza di psicologia di comunità tenutasi a Swampscott. TYLER descrive attraverso 3 rivoluzioni paradigmatiche il passaggio dall’igiene mentale di comunità alla nascita della psicologia di comunità negli stati uniti. I. La I RIVOLUZIONE PARADIGMATICA deriva dalla diffusione, negli anni della rivoluzione francese, dei principi di uguaglianza, valore e dignità umana di tutti gli individui. Tale cambiamento non poteva non rivedere in modo critico il trattamento dei malati mentali fino ad allora considerati criminali e rappresentanti del male diabolico e per questo da relegare e tenere sotto controllo per evitare ogni contatto con i sani di mente. In questo paradigma, che si diffonde velocemente anche in Inghilterra, si raccolgono i pionieri della psicologia di comunità che cominciano a portare avanti l’idea di un possibile autocontrollo nella malattia e di una responsabilità della comunità nei confronti di chi è portatore di un disagio umano. La pratica di trattamento umanitario però viene subito scalfita dal ritorno di un modello culturale fortemente individualista, rinforzato dal processo di industrializzazione che investe la società americana del XIX secolo. Tuttavia agli inizi del XX secolo si inaugura il movimento di igiene mentale che a partire da situazioni di malattia contempla la possibilità di formare abitudini mentali e comportamentali positive. II. La nascita di interventi mirati però non imbocca ancora la via del sociale tanto che si prepara il terreno alla II RIVOLUZIONE PARADIGMATICA rappresentata dalla nascita della psicanalisi freudiana ed al ritorno di un modello individualistico del disagio. Infatti la psicanalisi freudiana, riconducendo il modo d’essere dell’individuo al suo apparato mentale, veicola una lettura tutta intrapsichica della malattia che finisce col bandire di nuovo gli interventi di tipo comunitario e col separare il ruolo di chi, in qualità di esperto e professionista, può stimolare un cambiamento e chi, in quanto profano, non può che essere il destinatario dello stesso. Inoltre, il conflitto mondiale vede lo psicologo impegnato nella selezione e nell’addestramento delle reclute, e nella diagnosi e cura dei reduci ancorando ulteriormente la psicologia al modello individualistico. Bisognerà aspettare la seconda metà del XX secolo per considerare la promozione del benessere del genere umano tra le finalità dichiarate dall’ A.P.A. in relazione alla maggiore importanza data al contesto come componente integrante della vita umana. III. Da questo orientamento si prepara il terreno per la III RIVOLUZIONE PARADIGMATICA dalla quale prenderà vita la psicologia di comunità. Negli anni ’60 l’amministrazione Kennedy sancisce una legge che permetterà lo stanziamento di fondi governativi per la creazione di centri di igiene mentale in cui saranno offerti servizi residenziale, ambulatoriali, di emergenza, di consulenza ed educazione a tutti i residenti. Il nuovo paradigma apporta un cambiamento su almeno 3 questioni: 1. lo psicologo di comunità assume il ruolo di teorico partecipante in risposta a quello di clinico e accademico per il quale l’attività scientifica era da intendersi libera da qualsiasi coinvolgimento personale; 2.

il modello formativo non è più di tipo medico ma multidisciplinare;

3. la ricerca deve essere concepita come ricerca applicata ai nuovi settori emergenti che hanno come interesse scientifico il miglioramento del rapporto individuo-ambiente. Negli anni ’70, però, il ritorno ad un’amministrazione più conservatrice riduce le risorse finanziarie Destinate ai servizi sociali anche a causa delle crisi del petrolio e dell’energia. Nel 1975 nella conferenza tenutasi ad Austin si stabiliscono i punti chiave della disciplina: 1.

il trattamento è orientato alla prevenzione;

2.

l’azione è orientata alla promozione delle competenze piuttosto che alla rimozione del deficit;

3.

la formazione professionale prepara a trattare con tutta la gamma di diversità umane;

4.

si attivano ricerche multidisciplinari interessate agli aspetti molteplici del cambiamento della comunità;

5.

vi è un approccio empirico dell’intervento sociale.

Arriviamo, infine, agli anni ’80 caratterizzati dall’individuazione di nuovi setting di lavoro che però a causa delle limitazioni di fondi per la realizzazione di programmi assistenziali si concentreranno per lo più in lavori di consulenza ed educazione.

Lo scenario italiano In Italia la psicologia di comunità fa la sua prima apparizione ufficiale nel 1977. Nel ricostruirne le tappe dobbiamo tenere presenti sia i fattori propulsori che quelli inibitori. Tra i primi di grande rilievo è la riforma sanitaria del 1978...


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