Riassunti Il Principe - capitoli PDF

Title Riassunti Il Principe - capitoli
Author Lina Vigorito
Course Letteratura italiana
Institution Università degli Studi di Napoli Federico II
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Il Principe – Machiavelli DEDICA A LORENZO DE’MEDICI - Lorenzo Piero de’ Medici, che resse il governo di Firenze dal 1513 (“più di nome che di fatto” poiché era molto più forte l’autorità del capo di famiglia Giovanni, papa Leone X dallo stesso anno). - In alcune lettere a Francesco Vettori, Machiavelli sosteneva la volontà di indirizzare l’opuscolo al fratello di Giovanni, Giuliano; ma già manifestava il dubbio che da Giuliano non sarebbe stato letto né capito, quindi già pochi mesi dopo maturò l’idea di cambiare destinatario. - In questa Dedica afferma che molti sogliono ingraziarsi i principi con doni di vario tipo; per questo egli decide di fargli dono della cosa che stimi più di ogni altra: la conoscenza delle gesta degli uomini grandi, conoscenza che mi sono guadagnato attraverso l'esperienza del presente e con uno studio continuo degli eventi passati. - Afferma la semplicità stilistica dell’opera, che dovrà essere apprezzata quindi non per a ricercatezza degli artifici retorici ma solo per l’utilità e la profondità dei suoi contenuti. - Non intende mostrarsi presuntuoso, ma solo porsi “come un geometra” da una prospettiva diversa per riuscire a capire l’operato del principe. CAPITOLO I: QUOT SINT GENERA PRINCIPATUUM ET QUIBUS MODIS ACQUIRANTUR - Uno Stato o è una Repubblica o è un Principato. I principati sono o ereditari, o nuovi. I nuovi o sono interamente nuovi (come Milano per Francesco Sforza), o sono delle nuove acquisizioni di uno stato ereditario (come Napoli per il re di Spagna). - Gli abitanti di questi territori acquisiti, o già vivevano sotto un Principe, o erano liberi; e si conquistano o con le armi di altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù. CAPITOLO II: DE PRINCIPATIBUS HEREDITARIIS - Non parlerà delle Repubbliche perché il tema lo ha già affrontato nei Discorsi. - È più facile mantenere Stati ereditari che Stati nuovi: basta seguire la strada degli antenati (il popolo è “assuefatto dal sangue del proprio principe”=affezionato alla stirpe) e temporeggiare nelle situazioni difficili; anche gli attacchi esterni non sono una grande minaccia. Un esempio è il duca di Ferrara non poteva tener testa ai Veneziani nel '84 e a papa Giulio II nel '10, che riuscì a mantenere i propri territori solo grazie all’antichità della sua casata che gli garantì l’appoggio di altre forze italiane (dal 1184). - Un Principe ereditario non ha molti motivi di esercitare violenze, dunque sarà più amato degli altri, a meno che non abbia dei vizi odiosi. CAPITOLO III: DE PRINCIPATIBUS MIXTIS - Difficile è mantenere un Principato nuovo. Se è una nuova acquisizione, il Principe si troverà a dover trattare con i nuovi sudditi e questo comporta sempre un uso della violenza, ovvero di eserciti e altro, cosicché lo odieranno sia quelli che non volevano un nuovo Principe, sia quelli che lo hanno aiutato a conquistare il potere, perché ne saranno di sicuro meno contenti di quanto pensassero. Un principe nuovo, per farsi valere, deve offendere tutti, anche chi l’ha voluto. Un esempio è Luigi XII di Francia, che ha conquistato e perduto Milano due volte; e la prima volta bastarono le forze stesse di Ludovico il Moro, che fu fatto rientrare in città dagli stessi sudditi che si ribellarono al dominio francese dopo avergli spalancato le porte del ducato (fu poi tradito dai mercenari svizzeri da lui assoldati e condotto prigioniero in Francia). La stessa esperienza di Luigi XII insegna che è più difficile perdere il principato una volta che lo si è riconquistato, perché il principe sarà più cauto riguardo i futuri disordini causati

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dagli oppositori. Infatti, la seconda volta, per scacciare i francesi dovettero coalizzarsi papato, Spagna e Venezia (Lega Santa). Una nuova acquisizione, se è vicina allo Stato antico e ha la stessa lingua, gli stessi costumi ed era governata in precedenza da un altro Principe, non è difficile mantenerla: basta uccidere tutta la precedente dinastia e non cambiare le leggi e le tasse precedenti. Difficilissimo invece mantenerla se è in una regione lontana, di lingua e cultura diversa. È necessaria grande fortuna e capacità per riuscire nell’impresa (“fortuna e industria”). È necessario che: 1. il Principe si trasferisca nelle terre appena conquistate, come ha fatto i Turchi con la Grecia (conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II, che diventò sede della corte ottomana), perché risiedendovi si possono soffocare più velocemente i disordini; 2. Che fondi colonie nel territorio conquistato, che non costano e sono fedeli. Vengono colpiti solo i proprietari delle terre confiscate che, poi, proprio per essere diventati poveri, non possono reagire. E gli altri imparano la lezione. Altrimenti sarebbe necessario tenervi eserciti e gente in armi, che offendono e costano di più; 3. Che si faccia amici i potenti di piccolo calibro senza accrescere troppo il loro potere, cosicchè lo aiutino a spodestare il reggente per loro invidia, ma che non diventino mai abbastanza potenti da poter fare lo stesso col principe. I Romani seguirono tutte queste norme: amministrando la provincia di Acaia (Grecia) appena conquistata. Inoltre, come i medici che sanno prevenire le malattie prima che si manifestino, i Romani risolvevano i problemi appena si presentavano, magari con una guerra, senza lasciarli incancrenire e divenire insolubili. Luigi XII di Francia invece ha seguito una strada diametralmente opposta e perciò ha perso Milano due volte. Entrò a Milano con un accordo con i veneziani (comportamento non biasimabile, perché non aveva amici in Italia e dovette rimediare agli errori di Carlo); tutta Italia gli volle essere amica, chi temendo la Chiesa e chi temendo i veneziani, riuscendo ad acquisire più potere indirettamente di quanto ne avesse nel ducato di Milano stesso. Ma non osservò nessuna delle regole sopraelencate, perché aiutò papa Alessandro Borgia nella riconquista della Romagna, inimicandosi chi gli si era avvicinato per paura del potere della Chiesa e, nello stesso tempo, ampliando il potere di questa (l’uomo che tu aiuti a prendere il potere sarà un giorno tuo avversario, perché teme la tua forza o il tuo ingegno con cui lo hai così efficacemente sostenuto); divise il Regno di Napoli con gli Spagnoli anziché introdurre un proprio vicerè, legittimando la presenza di un altro sovrano. Luigi quindi aveva fatto cinque errori: aveva spento i minori potenti, accresciuto la potenza di un potente, aveva legittimato la presenza degli Spagnoli in Italia, non era venuto ad abitarvi e non aveva insediato colonie. Ma il suo errore più grande fu coalizzarsi con il papa e la Spagna contro i veneziani, perché una volta sconfitti questi, le forze del papa e della Spagna furono più potenti e mossero guerra contro i francesi. Questi errori si spiegano con il prevalere di un disegno irrazionale di espansione sull’esigenza reale di tenere il nemico lontano dall’impresa di Lombardia.

CAPITOLO IV: CUR DARII REGNUM QUOD ALEXANDER OCCUPAVERAT A SUCCESSORIBUS SUIS POST ALEXANDRI MORTEM NON DEFECIT -

Potrebbe apparire strano che, dato le difficoltà che si incontrano nel mantenere un nuovo stato, alla morte di Alessandro Magno,che da poco aveva conquistato l'Asia, i nuovi territori non si ribellarono. i Principati o sono governati da un Principe assoluto, come il sultano Turco ottomano (attorniato da servi, incaricati per sua grazia e concessione come ministri e funzionari), oppure dal Principe insieme ai nobili (che posseggono tale rango grazie alla loro discendenza), che controllano sudditi e Stati propri, come il re di Francia. Il primo ha più autorità, il secondo deve rispettare una nobiltà numerosa. Togliere il potere al primo è più difficile (bisogna contare solo sulle proprie forze per la difficoltà nel

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corrompere i servi che al sovrano assoluto devono tutto il loro potere), ma poi è più facile restare al comando, perché, una volta uccisa tutta la famiglia del Principe, non ci sono altri avversari temibili. Togliere il potere al secondo è più facile, ma i nobili, che magari ti hanno aiutato, poi insidiano il tuo potere. Simile al sultano ottomano era Dario re dei Persiani. Alessandro, dopo averlo vinto sul campo, divenne Principe incontrastato e, se i suoi successori non avessero litigato tra loro, avrebbero mantenuto il potere facilmente. Gli Stati che hanno molti piccoli potentati non si governano mai tranquillamente, perché nascono continue sedizioni. Finché in Gallia (Francia), in Spagna, in Grecia rimase il ricordo dei vari capi tribali e delle varie poleis, i Romani li governarono a fatica. Quando si spense la memoria di quei piccoli e numerosi poteri, i Romani governarono quei territori con facilità.

CAPITOLO V: QUOMODO ADMINISTRANDAE SUNT CIVITATES VEL PRINCIPATUS QUI ANTE QUAM OCCUPARENTUR SUIS LEGIBUS VIVEBANT -

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Quando si occupa uno stato che fruiva di leggi proprie, vi sono tre modi per mantenerlo: 1. Violenza: distruggendo la città assoggettata e la sua organizzazione politica; 2. Abitare personalmente il territorio: si esercita il potere in modo più diretto; 3. Istituire un’oligarchia governata a distanza: mantiene invariati ordinamenti e leggi precedenti alla conquista. La prima via fu adottata dai Romani su Cartagine, Capua e Numanzia, e furono costretti a fare lo stesso con numerose città greche dopo aver provato a lasciarle vivere secondo le proprie leggi e aver perso numerose province in quei territori. Gli Spartani adottarono la terza via: istituirono un'oligarchia ad Atene e Tebe e in un primo momento riuscirono a dominarle, ma le persero pochi anni dopo. La conclusione che si trae è che il modo più efficace per mantenere il potere in uno stato dotato di leggi proprie è distruggere la struttura dello stato conquistato, dal momento che le rivolte nascono sempre dal ricordo di una precedente condizione. Mettendo a confronto l'atteggiamento dei cittadini di una repubblica e quello dei cittadini di un principato nei confronti del nuovo conquistatore si nota che: sottomettere e tenere a bada i cittadini di un principato è facile perché sono abituati a vivere sotto a un principe che ha un potere assoluto, e per questo fanno fatica a organizzarsi e non sanno vivere liberi; gli abitanti della repubblica, invece, sono estremamente attenti alla vita politica, e quindi il loro desiderio di libertà è più grande, e l'odio che riservano all'oppressore più forte. In tal caso il metodo da adottare è distruggere la città, o direttamente andare ad abitarvi.

CAPITOLO VI: DE PRINCIPATIBUS NOVIS QUI ARMIS PROPRIIS ET VIRTUTE ACQUIRUNTUR -

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Il principe avrà tanta più facilità ad acquistare principati nuovi e mantenerli quanto più sarà grande la sua virtù, perché per diventare principe servono virtù e fortuna, ma meno un principe si appoggia sulla fortuna più sarà facile per lui restare al potere, e sarà ancora più facile, se andrà ad abitare nel territorio appena conquistato. Quanto più è grande la virtù del Principe, tanto più sarà facile acquistare principati nuovi e mantenerli. Sono citati numerosi esempi di grandi perché bisogna sempre seguire l’esempio di personaggi illustri: anche se non si riesce ad eguagliare la loro virtù, almeno si prova ad imitarla (come l’arciere che per raggiungere un bersaglio lontano punta più in alto). Gli uomini migliori che sono diventati principi per virtù sono: 1. Mosè: guidò l’esodo del popolo ebraico dall’Egitto alla Terra promessa di Israele.

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2. Teseo: mitico fondatore di Atene, che avrebbe realizzato il “sinecismo”, ossia l’unificazione dei borghi attici 3. Ciro: fondatore dell’impero persiano 4. Romolo: primo re di Roma che, secondo la tradizione, avrebbe fondato la città nel 753 a.C.). forse di Mosè non si dovrebbe parlare per il fatto che è stato Dio a dirgli cosa fare, anche se bisogna ammirarlo per avere avuto la grazia di parlare con Dio. Se però si considerano Ciro e gli altri, si può vedere che quelli hanno seguito l’esempio di Mosè. E dalla fortuna, hanno avuto soltanto l’ occasione per arrivare al potere. Del resto, se non avessero avuto la virtù, l’occasione sarebbe andata sprecata. 1. Mosè ha trovato il popolo ebraico oppresso dagli egizi, cosicché fu disposto a seguirlo; 2. Romolo fu esposto dal nascere in Alba al volere di diventare il re di Roma; 3. Ciro trovò i Persiani malcontenti dell’impero dei medi, “molli e effemminati per la lunga pace”; 4. Teseo potè mostrare la sua virtù perché trovò gli ateniesi dispersi. Quelli che divengono principi per virtù, come questi grandi uomini, vi arrivano con difficoltà, ma con molta facilità mantengono il potere. Le difficoltà arrivano dal fatto che, per arrivare al principato, devono introdurre nuovi istituti e metodi di governo, e, in questo modo, hanno contro coloro che traevano vantaggi dal vecchio ordinamento, e come deboli sostenitori gli altri; così se i nemici dovessero attaccare, contando solo su questi deboli sostenitori, il nuovo principe sarebbe spodestato, perché lo difendono debolmente, in modo da temporeggiare e unirsi poi ai primi se le cose andassero male. Inoltre è necessario osservare come quei grandi sono arrivati al potere, poiché si può giungere a esso in due modi: attraverso mezzi propri (“possono forzare”) o dipendendo da altri (c’è bisogno che preghino”). Così nel primo caso – quello in cui si trovarono Mosè, Ciro, Romolo, Teseo – è più facile, una volta acquistato, mantenere il potere; mentre nel secondo, appena la moltitudine comincia ad essere stanca, non è possibile costringerla con la forza a restare fedele. Un esempio è Girolamo Savonarola, che fu il principale promotore a Firenze della costituzione e di un Consiglio Grande, aperto a circa 3600 cittadini; predicò con toni profetici, tra Lombardia, Ferrara e Firenze, la necessità di una riforma morale della Chiesa, attirandosi l’odio della curia romana, di Cesare Borgia, di Lorenzo de’ Medici, di Ludovico il Moro e di altri potenti. Caduta la Repubblica fiorentina e tornati i Medici a Firenze, fu accusato di eresia e bruciato sul rogo. Questo perché non ebbe modo di “tenere fermi quelli che avevano creduto, né far credere i discredenti”: la natura dei popoli è varia, è facile persuaderli di una cosa, ma difficile fermarli in questa convinzione. Perciò conviene che quando non credono più, bisogna far credere loro per forza. I grandi non avrebbero potuto far osservare a lungo le loro convinzioni se fossero stati disarmati, cosa che invece avvenne a Savonarola. I Principi che hanno sulla loro strada qualche difficoltà, bisogna che le superino con la virtù, ma una volta soppressi quelli che lo invidiavano, avranno il regno sicuro, felice e onorato. Un esempio minore di virtù è Gerone di Siracusa, che giunse al principato da cittadino privato, e fu un esempio di grandissima virtù, non appena ebbe soldati ai suoi ordini, poté fare ciò per cui è famoso. Così, giunse al potere superando molte difficoltà, ma poi lo mantenne molto facilmente.

CAPITOLO VII: DE PRINCIPATIBUS NOVIS QUI ALIENIS ARMIS ET FORTUNA ACQUIRUNTUR -

Quelli che diventano Principi di Stati acquistati con la sorte, lo diventano assai facilmente ma difficilmente li mantengono, perché si basano sulla volontà e sulla sorte di chi ha concesso loro questo privilegio. Non sanno né possono mantenersi in quello stato: non sanno perché essendo sempre vissuti alle spalle di altri, a meno che non siano uomini di virtù straordinarie, non sono capaci per natura a comandare; non possono perché non hanno le forze che possono esser loro fedeli.

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Questi nuovi stati non hanno “le barbe e le corrispondenze loro” (la metafora presa dall'ambito naturalistico: lo Stato così realizzato è paragonabile ad un albero cresciuto troppo in fretta, privo delle radici e vulnerabile alla prima tempesta). Esempio di principe salito al potere per virtù è Francesco Sforza duca di Milano, “e quello che con mille affanni aveva conquistato, mantenne”. Esempio di principe salito al potere per “fortuna d’altri” è Cesare Borgia detto il Valentino, salito al potere “grazie alla fortuna del padre, e con quella lo perdè” (figlio del papa Alessandro VI; arcivescovo e poi cardinale di Valencia e perciò detto il Valentino, nel 1503 si impadronì della Romagna e successivamente della Toscana e dell’ Italia centrale; morto il padre (1503) venne prima incarcerato e una volta evaso si ritirò a Pamplona dove fu ucciso in un’ imboscata). Cesare è infatti supportato dal padre che gli fornisce l'aiuto militare degli Orsini e l'appoggio del re di Francia per consentirgli di invadere le Romagne e creare il proprio Stato, tuttavia in seguito si adopera per fornirsi di soldatesche proprie che gli siano fedeli e stabilisce una rete di alleanze politiche che stabilizzano il suo potere, accingendosi a nuove conquiste e non dipendendo più dalla fortuna che gli ha arriso inizialmente. Una volta conquistata la Romagna, Egli la governò con braccio forte per tenerla legata a sé. Gli restava però di debellare il pericolo del Re di Francia, suo nemico. Lo fece e si assicurò che il successore di Papa Alessandro non gli togliesse i suoi possedimenti. E questo fece in quattro modi: 1. spegnere le stirpi dei Signori che aveva spogliato; 2. guadagnarsi la nobiltà romana per poter arginare il potere del nuovo papa; 3. ridurre il Collegio dei Cardinali in suo potere; 4. acquistarsi tanta forza da resistere all'impeto successivo alla morte del padre. Di queste cose ne fece solo tre. L'ultima non ci riuscì appieno e, accerchiato da potenti eserciti (quello francese a Roma per controllare il conclave, e quello spagnolo che assediava Gaeta), andò in rovina. Infatti il Valentino sarebbe certo riuscito ad ampliare i suoi domini anche in Toscana a danno di Firenze, se il padre Alessandro VI non fosse morto improvvisamente nel 1503 (si disse avvelenato) e lui fosse riuscito a manovrare efficacemente l'elezione del nuovo pontefice, facendo salire al soglio pontificio un suo alleato o almeno uno che non gli fosse nemico; invece venne in seguito eletto Giulio II della Rovere, nemico giurato dei Borgia, e per colmo di sfortuna Cesare era gravemente malato nei giorni dell'elezione papale, quindi non poté far molto per opporsi a questa scelta. Questo fu l'unico e più grave errore del Valentino, poiché si fidò delle promesse di Giulio II (che si era impegnato a sostenere il suo Stato nelle Romagne) e poi venne osteggiato dal papa, che lo fece imprigionare e causò l'ultima sua disfatta. Questo errore gli fu fatale perché non potendo creare un Papa a suo modo, poteva almeno sceglierlo e non doveva acconsentire che uno di quei Cardinali che aveva offeso diventasse Pontefice. Chi crede che nuovi benefici facciano dimenticare le offese ricevute, sbaglia. Cesare conquista una gran parte d'Italia grazie all’aiuto del padre, ma viene preso in esempio per essersi comunque comportato in modo virtuoso, avendo attuato tutti i provvedimenti che un principe prudente deve adottare per mettere le barbe a quegli stati che non ha acquisito con mezzi propri. Egli fallisce soltanto per estrema “malignità di fortuna” (la morte del padre e la malattia concomitante dello stesso Cesare): infatti se non fosse stato malato e accerchiato dagli eserciti, sicuramente sarebbe riuscito a mantenere saldamente i suoi interessi.

CAPITOLO VIII: DE HIS QUI PER SCELERA AD PRINCIPATUM PERVENERE -

Da privato cittadino, esistono due modi di diventare principe che non siano attribuibili alla virtù e alla fortuna: questi sono la scelleratezza o infamia, e attraverso il favore dei propri concittadini (sebbene questo sia da discorrere più nell’ambito delle repubbliche – rimandando ai Discorsi).

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Per quanto riguarda il primo modo sono adotti due esempi, uno antico e uno moderno: Agatocle di Siracusa e Oliverotto Euffreducci da Fermo. Agatocle, tiranno di Siracusa, figlio di un vasaio, scellerato tutta la vita. Dopo essersi arruolato nell’esercito, divenne per gradi Pretore di Siracusa. Stanziatosi al comando decise di divenire Principe, ed accordatosi con il cartaginese Amilcar...


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