Riassunti libro \"Partito e democrazia\" di Piero Ignazi PDF

Title Riassunti libro \"Partito e democrazia\" di Piero Ignazi
Author Mauro Wolf
Course Partiti e democrazia
Institution Università di Bologna
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Summary

PARTITO E DEMOCRAZIA di Piero IgnaziNote e sottolineatureIntroduzioneIl partito oggi è una sorta di Leviatano con i piedi di argilla: molto potente grazie alle risorse che ottiene dallo Stato e all’estensione di pratiche clientelari; molto debole in termini di stima e fiducia agli occhi dei cittadin...


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PARTITO E DEMOCRAZIA di Piero Ignazi Note e sottolineature

Introduzione Il partito oggi è una sorta di Leviatano con i piedi di argilla: molto potente grazie alle risorse che ottiene dallo Stato e all’estensione di pratiche clientelari; molto debole in termini di stima e fiducia agli occhi dei cittadini. La parola partito viene dal verbo latino partire, che significa «dividere», e dal sostantivo derivato pars, cioè «parte». Quindi, «partito» contiene il codice genetico della parzialità e della divisione. Il partito politico, da sempre visto in termini di fazione – il termine politico più detestato lungo tutta la storia, e ancora oggi – era il nemico per eccellenza. La critica punta anche, benché non esplicitamente, alla sua natura, più che alla sua funzione. Il punto di partenza del livello intellettuale-ideologico va dalla metà del Settecento alle rivoluzioni americana e francese. In quei frangenti si fece strada l’idea che una «parte» potesse proporsi come alternativa all’ordine costituito, al sovrano e alla tradizione. Il punto di partenza del livello effettuale della politica partitica sta nel parlamento britannico del XVII secolo. Gli aspetti ideologici ed effettuali maturarono nei primi decenni del XX secolo, quando i partiti politici finirono per essere accettati, tanto a livello intellettuale quanto a livello pratico. In termini politici e istituzionali, la legittimazione finale (sebbene non piena) arrivò con il superamento della terza soglia di Rokkan [1970]: il riconoscimento dei diritti politici e la partecipazione universale a elezioni libere e uguali per tutti i partiti abbattendo posizioni privilegiate dei partiti espressione dei poteri costituiti. Il partito politico, sub specie di partito di massa, entrò in scena in quella fase, e lì sarebbe rimasto a lungo. Sostanzialmente, la rappresentanza era passata dall’individuale al collettivo. Il partito era lo strumento → e nei regimi totalitari il partito era il centro del sistema «parte totale». Primi esempi di partiti nel XVIII° secolo: i partiti parlamentari a Westminster, i club giacobini durante la rivoluzione francese nel 1791-1794, il partito jacksoniano in America. La loro legittimazione è sempre in gioco. È la recente invasione del partito nello stato che ha allontanato i partiti politici dai cittadini. In tal modo, i partiti sono diventati più forti in termini strutturali e finanziari, al costo di perdere la risorsa immateriale, ed essenziale, della legittimità. È difficile metterli «dalla parte degli angeli», ma il recupero della loro legittimità è del tutto necessario per contrastare l’onda montante, plebiscitaria e populista.

Capitolo primo — Alla ricerca dei partiti politici 1. I partiti politici nell’antichità Il caso ateniese Siccome «stasis» è sempre associato a «guerra civile», esso starebbe a indicare una parte rivoluzionaria e violenta. Stasis non si riferisce ad alcun gruppo precisamente definito bensì a un sentimento di disagio generalizzato nella polis, provocato dalla mancanza di equità e giustizia → stasis racchiude l’idea di conflitto. Nel contesto greco, il conflitto espresso da stasis è in rapporto al rovesciamento di regime. Con il tempo ha finito per indicare piccole cricche segrete e cospirative con carattere antisistema. L’unico caso in cui la parola «eteria» acquistò significato politico fu quando nel IV secolo Demostene accusò il suo nemico Midia di essere appoggiato da una di esse. Si tratta di un passaggio importante perché offre la prova più convincente dell’esistenza di gruppi politici attivi nella polis, e chiaramente riconoscibili.

Contrariamente alcuni autori sostengono che: «non esistevano partiti politici né gruppi di interesse organizzati» e che «i rapporti fra oratori e generali non erano neppure lontanamente simili a un partito politico». Gli aderenti alla eteria erano sufficientemente numerosi e organizzati da influire sulle decisioni dell'assemblea. Bearzot sostiene, basandosi sulle Elleniche di Ossirinco, che tutti i termini – eteria, stasis e sinomosia – identificano partiti politici. In particolare, eteria, con il suo riferimento al segreto e alla cospirazione, sembra il più idoneo a rappresentare la «fazione», i «gruppi politici» e infine il «partito». L’assemblea (ecclesia) composta da tutti i cittadini ebbe un ruolo chiave nella risoluzione di tutte le controversie ateniese non era limitata all’assemblea: comprendeva il consiglio (boulé), che consisteva di 500 cittadini scelti annualmente per sorteggio; centinaia di funzionari minori nominati per sorteggio; nove arconti, magistrati i cui compiti erano essenzialmente religiosi e amministrativi, anch’essi eletti per sorteggio; e i tribunali o giurie popolarI (dikasteria). Infine, un’attività politica più informale aveva comunque luogo nelle piazze di Atene. Questo complesso sistema incarna quella che viene chiamata «democrazia ateniese». Nell’antica Grecia il partito presentava un’anatomia «protozoica»; il significato loro attribuito all’epoca era negativo, nell’antica Grecia. Aristotele afferma infatti che l’introduzione della costituzione democratica fu resa possibile solo perché Clistene superò il potere di veto delle eterie facendo appello direttamente al popolo. Pearson sostiene che la natura individuale dell’attività politica ad Atene implica l’assenza di un’entità collettiva simile al partito. In conclusione, il punto è che la loro presenza è unanimemente considerata un pericolo → «un’altra polis nella polis» → olismo e monismo contro pluralismo.

Il caso romano La presenza nel vocabolario latino di partes e factiones implica che, all’epoca, essi avessero un significato specifico. La sollevazione dei plebs (popolo) contro gli optimates (patrizi) proiettò nell’arena politica due partes ben distinte, separate da una frattura socioeconomica, e destinate a rimanere tali nel tempo. Ma l’identificazione (ipotetica) di fazioni e partiti non è limitata a questi due raggruppamenti sociali concorrenti: esistevano molti altri piani di conflitto. Scelte politiche e affiliazioni erano imprevedibili e mutevoli e assai rara la coerenza di comportamenti: a livello generale, [vi era un] cambiamento continuo di coalizioni, di configurazioni e, a dirla tutta, di linee di confronto. «Gruppi» politici e interi schemi di «formazione a gruppi» erano dunque interamente dipendenti da questioni e dissensi politici, il cui denominatore comune era il fatto di essere altamente volatili ed effimeri. In effetti, la competizione per ottenere posti al senato o magistrature, e la frattura socioeconomica fra patrizi e plebei, misero a rischio la convivenza pacifica lungo tutta la storia di Roma. E Cicerone aggiungeva che «dal popolo vengono soltanto disordine e confusione». «Fazione» – che deriva da facere, fare – indica una parte che agisce contro l’altra. Sallustio accusò «fazioni e parti» di aver provocato tutti i guai (omnia malorum) della repubblica. L’argomentazione è chiara: il nemico, bollato come fazione, è tanto piccolo di numero quanto pericoloso per il bene comune della società. In senso politico partes è usato in tre contesti diversi: per distinguere, come il termine «fazione», fra optimates e populus; per definire i due ranghi in un’assemblea durante le sessioni di voto, quando i senatori si separano fisicamente (discessio) per evidenziare il loro voto (come nel caucus americano). Due importanti studiosi della scuola tedesca – Matthias Gelzer e Friedrich Münzer – negarono entrambi, seppur con sfumature diverse, l’esistenza di qualcosa come i partiti politici a Roma. Vi è poi un altro aspetto che induce a ritenere che esistessero legami alquanto stretti e vincolanti tra le persone e che si trasferissero anche in arene politiche: la relazione patrono-cliente che era profondamente radicata nella cultura politica romana (a differenza dell’antica Grecia).

Invece, un gruppo politico, basato su relazioni personali e/o clientelari anziché sull’«interesse generale», con un’organizzazione molto fluida e senza «visione» tranne che la ricerca del potere, può essere considerato un partito politico. Il numero e la frequenza di elezioni e di votazioni nelle assemblee, così come la competizione che animava queste circostanze, ci permette di parlare della presenza del partito protozoico (cioè, il prodromo) di cui parlava Duverger nella forma di reti intermittenti di vincoli personali tanto fra patrizi quanto fra populares. Il greco demokratia implicava la deliberazione, comprendendo così l’inevitabilità delle divisioni che, secondo Tucidide, sono inerenti alla natura umana. Come ha scritto Nadia Urbinati: «In una città il cui governo si basa sulle opinioni sono prevedibili la discussione e il disaccordo. Ciò richiede e al tempo stesso nutre un clima di libertà e l’espressione pubblica delle idee». Un aperto confronto di opinioni e il disaccordo sarebbero dunque endogeni alla vita politica della città. L’apologo di Agrippa modellò per secoli la visione della res publica, dove le divisioni come quella, irriducibile, fra plebs e optimates andavano frenate per la loro intrinseca pericolosità. Se le divisioni erano da evitare, quale doveva essere allora la forma di governo e di convivenza civile?

2. Dall’unità in Dio al bene comune solare Le tradizioni tomista e scolastica Dissenso e opposizione divennero impraticabili: il sovrano è uno, Dio è uno. Più tardi, nel XIII secolo, Tommaso d’Aquino propose la più articolata e autorevole trasposizione politica dei precetti religiosi a uso dei governanti terreni. Secondo il fondatore della tradizione scolastica, la politica deve rimanere sotto tutela religiosa: l’autorità del sovrano è soggetta a Dio soltanto, attraverso la mediazione della chiesa. L’unica eccezione ammessa è la ribellione contro i tiranni, perché il tiranno vìola l’armonia – creata dalla divina Provvidenza – che deve stendersi sul paese: cooperazione e accordo fra le parti, analogamente all’apologo di Agrippa, sono necessari al governo giusto come alla vita eterna [Finnis 2011]. Se rovesciare il tiranno producesse un incontenibile sviluppo di fazioni, allora si presenterebbe una discordia ben più grave, e sarebbe istituito un regime ancor più pericoloso [Palano 2013, 52]. Quello che emerge dalle tradizioni tomista e scolastica, al di là del primato e della supremazia della religione rispetto ai governanti laici, è l’importanza dell’unità e dell’armonia del corpo sociale e politico.

La città-repubblica: lo spirito settario Il rifiuto delle divisioni, motivato su basi teologiche, non corrispondeva però alla realtà della politica secolare, specialmente nelle città-repubblica dell’Italia medievale. Fu in quest’area geografica che il conflitto fra populus e optimates, reminiscenza della frattura romana, divenne progressivamente istituzionalizzato in partes. La celebre contrapposizione tra guelfi e ghibellini nella Firenze del XIII secolo è esemplare delle divisioni all’interno delle città. Tuttavia, e questa è la peculiare rilevanza dei loro contributi, essi affermano che le partialitates (le «visioni di parte») possono essere ammesse se finalizzate al bene comune. Per Marsilio e Bartolo le differenti partialitates possono essere accettate a certe condizioni: vale a dire, ogni visione deve puntare al bene generale e non rappresentare interessi limitati o settoriali. In particolare, Bartolo riconosce una sorta di legittimità alla fazione se agisce contro i tiranni, come nella tradizione scolastica: in questo senso la fazione diviene un modo plausibile di resistenza e ribellione. Lo «scontro fra seguaci che agivano nell’interesse dei propri signori» fece nascere formazioni in lotta tra loro specialmente in Francia, Spagna e Olanda. Machiavelli e Guicciardini, i più importanti teorizzatori italiani della conquista e della conservazione del potere politico, convengono che la fine della libertà e dell’indipendenza delle repubbliche cittadine fosse da ascrivere alle partes, o sette. Guicciardini poneva il massimo valore sul vivere insieme in armonia, e pensava che ogni governante dovesse operare in modo da raggiungere un tale stato di cose. L’incapacità di agire in questo modo rovinò l’Italia.

Quando le istituzioni risultano inadeguate a gestire i conflitti e sono piuttosto guidate da ristretti interessi personali e materiali, le sette diventano deleterie. Infatti, lo spirito fazioso impedisce al popolo di apprezzare le virtù del «buon governante» e di accettarlo.

3. «Raison d’état» e costituzionalismo: rifiuto radicale e affermazione embrionale dei partiti Leviatano e Harmonia In epoca medievale, parti, fazioni e sette erano condannati per essere di detrimento alla pace e al bonum commune. Nel XVI e nel XVII secolo la stessa argomentazione fu impiegata per garantire la potestas del sovrano e dello «stato». Il sovrano impone il suo governo per eliminare la discordia e garantire la pace e la sicurezza. La massima preoccupazione di Thomas Hobbes era la sicurezza fisica all’interno dello stato, e questo lo portò a negare legittimità a qualsiasi divergenza. Siccome tutto il potere viene trasferito da ciascun individuo al Leviatano allo scopo di uscire dallo stato di natura dove «ogni uomo è lupo per l’altro» (homo homini lupus), nessun’altra obbligazione politica può essere avanzata. Ognuno deve sottomettersi all’autorità del potere sovrano e assoluto. La reductio ad unum e l’eliminazione di ogni differenziazione in ambito politico è vitale di fronte all’incombere di guerre civili e religiose. Il Leviatano di Hobbes consegue da quel periodo di instabilità. Pensatori neoplatonici come Marsilio Ficino e altri sostennero un’idea più gentile della pace. Nel loro modo di vedere, l’ordine naturale stesso porta, alla fine, all’esclusione delle divisioni. La natura è un dono di Dio, e l’ordine divino si realizza attraverso la natura, e poiché l’ordine divino è benevolo, oltre che meraviglioso, accettarlo diventa «naturale». Quindi, ogni frattura nel mondo terreno infrangerebbe l’ordine naturale e andrebbe contro Dio. La visione arcadica dei neoplatonici fu del tutto screditata a fronte della brutalità del XVI e del XVII secolo, dominati da guerre di religione e rivolte contadine. Questi eventi rafforzarono la raison d’état e resero marginale l’ottica neoplatonica. L’alternativa fra una fazione in bonam e una in malam partem non reggeva perché, alla fine, la fazione di per sé stessa era oggetto di un giudizio del tutto negativo.

Inghilterra: la culla del partito politico In Inghilterra, queste idee «continentali» avevano trovato spazio grazie a Hobbes, ma allo stesso tempo si fece strada anche qualcosa di nuovo, di estraneo rispetto a quella impostazione: la funzione cruciale dell’istituzione rappresentativa e dei suoi membri, la cui centralità si palesò drammaticamente nel 1648. Il corto circuito è completo: i partiti sono nocivi per l’ordine politico, ma, allo stesso tempo, non è accettabile il dominio di un partito unico dominante. Dall’altro lato, il riconoscimento di posizioni e atteggiamenti differenti (e addirittura una considerazione positiva delle passioni), insieme con l’identificazione di un locus – il parlamento – dove le opinioni politiche potessero essere espresse liberamente. La «normalità» delle divisioni politiche dentro il parlamento consentì di pensare alla politica come un’attività plausibile e non necessariamente dannosa per l’ordine politico e il vivere pacifico. Finalmente, l'istituzionalizzazione delle fazioni nel parlamento, permette la loro esistenza nella vita politica. John Milton riconobbe che la libertà di espressione e quindi il confronto fra posizioni differenti fanno parte della vita politica degli «uomini saggi», mentre la tirannia sopprime le voci libere. Un esame della vita politica quotidiana nell’Inghilterra del XVII secolo rivela che i partiti, ancorché in una forma embrionale, esistevano ed erano assolutamente riconoscibili. Queste aggregazioni erano personali e instabili ma, a differenza dell’esperienza delle assemblee antiche e medievali, esse traevano vantaggio dalla continuità delle istituzioni. Questo riconoscimento non implica un’accettazione consapevole e teoricamente fondata dei partiti. L’accusa che ciascun partito scagliava contro l’altro era sempre la stessa: attenzione esclusiva verso gli interessi della propria cricca o fazione e insofferenza e fastidio per l’interesse generale e il bene comune.

Halifax sottolineava i pericoli di conformismo e acquiescenza verso il nuovo soggetto: «Invece di fare di ogni uomo un individuo consapevole […] il partito dissolve ogni volontà in una massa amorfa». L’opposizione al conflitto politico acceso rimaneva salda ma, nello stesso tempo, mentre «gli inglesi continuavano a criticare le fazioni […] con sempre maggior frequenza […] ammettevano il valore del dissenso in politica». L’accettazione della loro presenza era de facto: rimaneva assente la spiegazione del perché della loro presenza. John Bolingbroke, il primo autore che tratta in profondità il problema dei partiti [...] accettava la presenza di differenti partiti separati da «una vera diversità di disegno e principio», ma non l’esistenza di partiti mossi da interessi personali e settoriali: questi ultimi sono partiti solo di nome, in realtà sono soltanto fazioni. Il partito «non fazioso» che non sta – non deve stare – in opposizione ad altri partiti perché rappresenta il tutto, cioè l’interesse generale, contro gli interessi particolari. {Nella definizione di Bolingbroke, c’è sia un richiamo alla definizione antica e dispregiativa dei partiti, ovvero delle fazioni spinte da interessi personali, che a quella medievale di Marsilio e Bartolo, i quali consideravano accettabili solo i partiti che lavoravano per il bene comune} Solo un partito immune da spinte settarie sarebbe accettabile, perché solo un tale partito servirebbe il bene comune: «Un partito, così costituito, è chiamato impropriamente partito. Esso è la nazione, che parla e agisce nel discorso e nella condotta di alcuni uomini». Egli afferma con convinzione che i partiti sono legittimi semplicemente perché sono una realtà. L’analisi di Bolingbroke rappresenta una pietra miliare nella teorizzazione sui partiti, ma anche contro i partiti. Se Hobbes dissolve l’individualità, cioè la parzialità, nel Leviatano, Bolingbroke analogamente sembra voler diluire i partiti in un’unità superiore, il «re patriota». La differenza fra i due autori sul fatto del dissenso si colloca sul piano contestuale: spaventevole e pericoloso per il primo, costituzionale e pacifico per il secondo.

Le incertezze della visione liberale Soltanto una nuova visione del mondo, di respiro universale, poteva rompere la ferrea gabbia di assolutismo, monismo e olismo. Questo passaggio epocale avvenne con l’affermazione del liberalismo in Gran Bretagna a partire dai contributi di David Hume e John Locke; ma è solo con Hume e Burke che finalmente abbiamo il riconoscimento che i partiti possono essere «connessioni onorevoli» fondati su «principi corretti». Il conflitto politico organizzato non porta inevitabilmente a un disordine senza fine e alla perdita della libertà. I partiti sono un’esigenza costituzionale: «In un governo libero può non essere attuabile né desiderabile l’abolizione di tutte le distinzioni di partito» [1758; trad. it. 1974, 680]. {Il reale cambio di paradigma nell’accettazione dei partiti — e non di un unico partito o di un “partito unico” — avviene solo alla fine del 1600, in Inghilterra, con la diffusione del pensiero liberale. Ad ogni modo i partiti non potevano comunque essere troppo distanti dalla visione monarchica} Gli unici partiti pericolosi sono quelli che mantengono punti di vista opposti circa gli elementi essenziali del governo. Hume distingue i diversi tipi di partiti e fazioni in «personali e reali». Il primo tipo è fondato «sull’amicizia personale o sulla personale avversione», mentre il secondo si fonda «su qualche reale differenza di sentimento o di interesse» [ibidem]. Hume accetta i partiti ma solo se collaborano a garantire il lineare e corretto funzionamento delle istituzioni britanniche. Il passaggio decisivo nella concezione di partiti e fazioni giunge con Edmund Burke. La sua definizione è lapidaria e in un certo senso «definitiva»: «Il partito è un corpo di uomini uniti a promuovere il loro comune sforzo per l’in...


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