Riassunto \"Arte romana\" di M. Papini PDF

Title Riassunto \"Arte romana\" di M. Papini
Author Michele Porcaro
Course Archeologia e storia dell'arte greca e romana
Institution Sapienza - Università di Roma
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Capitolo 1 – È mai esistita un’arte romana? Introduzione Le arti figurative non erano sentite dai romani come una consuetudine. Essi pensavano che fosse “cosa d’altri” ed erano molto diffidenti verso l’arte, considerata una perdita di tempo. Quando nel 212 a.C. il conquistatore di Siracusa M. Claudio Marcello portò a Roma un ricco bottino che comprendeva anche statue e quadri che emanavano la bellezza e il fascino tipici dell’arte greca, gli fu rinfacciato di aver riempito Roma di inutili frivolezze. Le arti greche però avevano conquistato il rustico Lazio molto prima. Dalla fine del secolo IX d.C. in Italia le ondate di cultura greca furono molte. Le influenze non furono passivamente subite, ma adattate a tradizioni e a condizioni storiche e sociali degli ambienti ospitanti e riformulate. Dal secolo IV a.C. Roma entra in contatto direttamente con diversi ambiti greci in Italia meridionale e in Sicilia e poi in Grecia. Il loro rapporto fu basilare sin dalle origini, tuttavia Roma, città latina, fu sì grecizzata, ma non greca ed ebbe un’identità composita e plurale. Quello che troviamo è un’arte fatta di correnti del tutto diseguali, di origine non ben definita, in bilico fra la ricezione di modelli greci secondo un gusto “neoclassico” e un realismo “popolare” spesso crudo, e che presenta come conseguenza ultima una rigidità di forme, in apparenza “anticlassica”, dello stile “tardoromano”. La concezione artistica romana si trova nell’inclinazione “cronachistica” e in uno spirito più concretamente terreno che divino, più storico e attuale che mitico, insomma più utilitaristico (come quello espressosi nella costruzione di acquedotti, ponti, magazzini, terme) che dedito a una fruizione estetica delle opere. Arte romana  per pura convenzione con questo termine vengono identificate le produzioni a Roma ed entro i confini dello Stato romano e della sua durata nel tempo, in senso cronologico e geografico. Confini cronologici  Al di là delle diverse opinioni degli studiosi, si profila una storia dell’arte, almeno per Roma e l’Italia, che abbraccia approssimativamente i secoli dalla cultura materiale laziale del secolo X a.C. sino ai mosaici di S. Vitale a Ravenna (547 d.C. circa). Confini geografici  Dall’Urbe (centro) al vasto territorio dell’impero (periferie). L’arte romana si fonde con le tradizioni dei vari territori che erano sotto l’impero romano, ma che conservavano anche le loro tradizioni e i loro costumi (i romani erano tolleranti verso le altre culture, anche se sottomettevano gli altri popoli). Sarcofago di Palmyra – Il defunto, rappresentato sul coperchio del sarcofago, indossa vesti partiche, mentre sempre lo stesso raffigurato su un lato della cassa indossa tunica e toga tipiche dei cittadini romani, ma non porta il capo velato come essi. Lenzuolo funebre da Saqqara – il defunto ha un viso incorniciato da una folta acconciatura di moda in età antoniniana ed è ritratto secondo la tradizione greco-romana, mentre al suo fianco il dio Anubi e la mummia, nell’iconografia di Osiride, sono raffigurati alla maniera egizia. 1.1 Una lenta riscoperta Il concetto di arte romana non esisteva prima del IX secolo, in quanto l’arte di quell’epoca era considerata solamente un segno di decadenza dell’arte greca (- Joachim Winckelmann). Fu la Scuola di Vienna a rivalutare l’arte romana e a riconoscerle un processo non di degenerazione della perfezione greca, bensì di sviluppo (- Franz Wickhoff). Kunstwollen = concetto analitico-filosofico introdotto nei primi anni del 1900 da Alois Riegl. Il Kunstwollen è la legge sistematica e suprema, il principio regolatore intuitivo, collettivo e anonimo, ricavabile dalla

considerazione di un vero e proprio dato artistico, ossia dal fenomeno dell’oggetto come forma e colore nel piano e nello spazio, indipendentemente dallo scopo utilitario, dalla tecnica e dalla materia prima. Per Riegl il Kunstwollen degli Antichi progredì in tre stadi: il primo, “tattile”, per una visione da vicino senza scorci e ombre, con l’accento principale messo su contorni per quanto possibile simmetrici (arte egiziana); il secondo, “tattile-ottico”, per una visione “normale” a metà tra una da vicino e una da lontano, con un collegamento delle cose aggettanti con il piano di fondo e con l’introduzione di ombre mai profonde dal compito prettamente “tattile”, ossia per delimitare le superfici parziali (arte greca, ellenistica e arte del primo periodo imperiale); il terzo, puramente “ottico” per una visione a distanza, da Costantino in poi, con un proprio autonomo Kunstwollen completamente positivo e vicino alla concezione di arte moderna, a conclusione di una fase artistica avviata dagli anni di Marco Aurelio, allorché la superficie delle figure cominciò a essere scavata a trapano, come visibile nella ritrattistica e soprattutto sui sarcofagi. Dopo le teorie di Riegl ogni ragionamento sul riconoscimento di una forza specificatamente italica e romana nonché aliena da influssi greci è cessato poco a poco. Nel 1964 Ranuccio Bianchi Bandinelli denunciava l’assenza di metodi consoni per affrontare il “problema” relativo alla storia dell’arte romana per più cause: il suo proverbiale relegamento in una sfera subordinata alla greca; l’oggettiva difficoltà nel potere ridurre a un discorso logico, quindi storico, un fenomeno discontinuo e differenziato; la lentezza con cui era stato accolto a livello italiano e internazionale lo sforzo di rivalutazione compiuto dalla Scuola di Vienna per uscire dagli schemi “neoclassici”; la persistenza di un generico concetto di decadenza. 1.2 Teorie dualistiche Le teorie dualistiche individuano una bipolarità all’interno della stessa arte romana, ossia due filoni, con prevalenza dell’uno o dell’altro o secondo percorsi anche coesistenti ma separati. 1) L’“Arte popolare” per Gerhart Rodenwaldt Mentre la grande architettura statale fu più “classicistica” (quindi più greca), quella “popolare” rispecchia la tradizione nazionale non classica come nella resa di ritratti e azioni sulle stele e are funerarie e altre opere minori. Una corrente priva di eleganza ma colma di potenza espressiva, una sorta di arte provinciale dentro l’Urbe. Caratteristiche: frontalità dei personaggi principali; composizioni simmetriche rispetto a un punto centrale; dimensioni delle figure variate a seconda dell’importanza e non della prospettiva o delle proporzioni naturali; subordinazione degli elementi di contorno alle figure più importanti; resa con brio dei dettagli di azioni e oggetti. 2) “Arte plebea” per Ranuccio Bianchi Bandinelli Simile versione fu poi rivista da Bianchi Bandinelli, che valutò il termine “arte popolare” come impreciso e ambiguo; per evitare ogni equivoco “idealistico”, nel 1967 gli preferì “arte plebea”, in contrasto ad “arte aulica” o “ufficiale”, determinazione più critica e storica e non sociologica di un filone promosso da un “ceto medio” – la plebs – con esclusione di patrizi e senatori. Tale corrente, per lo più immune alle influenze dei più colti modelli greci, a tratti qualitativamente poco apprezzabile, ma più autenticamente romana, poté avere per Bianchi Bandinelli un proprio svolgimento stilistico con connessioni con il passato, il presente e il futuro, ovvero: con la tradizione preromana della penisola italica; con l’arte provinciale extraitalica; con l’arte ufficiale tardoantica, che ne costituiva una continuazione e una conseguenza. L’espressione “arte plebea” ha in genere prevalso su quella di “arte popolare”. Semmai sono state tante le puntualizzazioni nel tempo come quella che a ragione tende a sfumare ogni facile assimilazione tra “arte

plebea” e “arte provinciale”. È inoltre definitivamente compiuto il superamento del dualismo nel senso di un’esatta separazione tra due correnti autonome. In effetti, sono significative le compenetrazioni tra l’”arte plebea” e quella ufficiale: singole componenti dell’”arte plebea” possono benissimo infiltrarsi nelle espressioni figurative più ufficiali. Di conseguenza non sono mancati negli anni tentativi di introduzione di concetti più neutri come “arte sub-antica” o “stile presentativo”. Eppure sarà difficile disfarsi del concetto di “arte plebea”: una nozione diventata comoda perché capace di richiamare alla mente alcuni principi compositivi e bisogni espressivi di uno dei plurimi percorsi dell’arte romana. E sono proprio le teorie pluralistiche ad avere maggiormente valorizzato le convivenze di più indirizzi, smorzando sia le opposizioni fra “greco” e “romano” sia le idee di un Kunstwollen unitario. 1.3 Teorie pluralistiche I blocchi coesi nei singoli periodi dell’arte romana sono un’illusione. In ogni periodo si riscontrerebbe il fenomeno delle molteplicità tra i poli estremi dell’arte statale e di quella “popolare”, determinate da “stili di genere” dipendenti dai temi, dal medium adoperato e dai formati delle opere. In ogni periodo domina o sembra dominare uno “stile d’epoca” risultante dalla predominanza di un determinato “stile di genere” sugli altri. Fu Otto Brendel nel 1953 a prendere atto della varietà di libere scelte possibili a espressione di “pubbliche aspirazioni e di sentimenti privati, di oscillazioni di gusto o di interessi e avversità da parte di artisti”. Brendel fece propria anche la definizione di “stili di genere”, condizionati dai soggetti delle opere, dalle loro finalità e importanza nei contesti architettonici nonché dall’appartenenza alle sfere pubblica o privata, la seconda rivalorizzata anche in considerazione del numero di documenti più caratterizzati da uno schietto ellenismo. A quella di “stili di genere” sono subentrate le nozioni del linguaggio figurativo tipologico quale mezzo di comunicazione visiva e del pluralismo nella scelta dei modelli (greci) destoricizzati, ossia utilizzati per nuovi contesti romani in modo non per forza condizionato dalle loro origini. Dall’età repubblicana in poi, a disposizione degli artigiani si trovavano tante composizioni e forme succedutesi nell’arte greca dalla fine del secolo VI a.C. sino al tardo ellenismo (intorno alla metà del secolo II a.C.) e poi come congelate in un repertorio canonico non troppo ampio entro cui poter trascegliere a seconda delle occasioni, dei contenuti e dei valori da esprimere. Quei modelli, simultaneamente disponibili, potevano variare addirittura su uno stesso monumento, come sull’ara Pacis, assurta oggi a esempio massimo su cui verificare il linguaggio tipologico. Da qui derivò la creazione nel mondo romano di un “sistema semantico” rimasto piuttosto stabile nei secoli e valido in tutti l’Impero, utilizzato spontaneamente nella pratica delle officine e recepito altrettanto naturalmente nelle abitudini visive degli osservatori. 1.4 Tendenze attuali della storia dell’arte antica Mentre nella storia dell’arte moderna sin dagli anni Cinquanta del Novecento aveva esordito la storia sociale dell’arte, nel pensiero di Bianchi Bandinelli negli anni Sessanta e Settanta, come accennato, si era manifestato il rifiuto di un’archeologia classica intesa essenzialmente come storia dell’arte; donde l’esigenza di un’indagine dell’opera attenta non solo alla forma, ma anche al contenuto, da correlare a una più ampia realtà storica e a un determinato gruppo sociale, tanto più per il versante romano, dove a suo dire – e di altri prima di lui – l’arte sarebbe stata sempre espressione di una situazione sociale o di un’affermazione politica: giusto, ma si deve aggiungere che quella greca non fu da meno. “Solamente scoprendo quei nessi economici, politici e quei rapporti ideologici, infatti, l’opera d’arte assume il suo vero valore storico di testimonianza”. La storia dell’arte antica è diventata solo una parte dell’archeologia classica. Quest’ultima aspira alla sistematicità e alla raccolta di ogni dato al fine di ricostruire della storia, dei contesti attraverso il tempo e

dei comportamenti degli Antichi. Era proprio così che il grande storico dell’arte viennese Ernst Gombrich la vedeva. Egli tenne un seminario sulla “tazzologia” in quanto era convinto che la tazzologia pertenesse all’archeologia perché qualsiasi tazza o coppa può servire come spunto per analizzare una delle innumerevoli catene di cause ed effetti che alla fine producono l’oggetto che abbiamo davanti, mentre altre discipline umanistiche, come la storia dell’arte, dipenderebbero da un sistema di valori e da un criterio di selezione. La storia dell’arte romana e greca si dedica ora allo studio della produzione di manufatti e immagini quali strumenti di comunicazione e di rappresentazione/autorappresentazione dei vari tipi di élite e dei cittadini più comuni nonché all’esame dei loro valori emozionali per ricostruire le mentalità dei committenti e la recezione dei destinatari contemporanei. 1.5 Le parole di un manuale Materiali Sono tanti i materiali, e da tutto il mondo: oro, argento; bronzo, rame, ferro e piombo, colori minerali, avorio, vetro, argilla, gessi; le pietre preziose che fanno fare follie; i marmi bianchi e colorati poi, dai secoli II-I a.C. irrinunciabili per i processi di monumentalizzazione di Roma, dell’Italia e delle province. Sempre maggiori attenzioni sono riservate all’individuazione delle principali cave in Oriente e in Africa, amministrate soprattutto dalla proprietà imperiale, alla distribuzione, ai prezzi e ai depositi dei marmi nei luoghi di destinazione. È poi largamente diffuso un approccio archeologico alle opere d’arte che analizza i processi produttivi tramite l’applicazione di tecnologie (analisi archeometriche). Spesso gli scrittori latini citano i materiali, che erano uno dei molteplici fattori di apprezzamento delle opere, per lamentare in prediche moralistiche la diffusione del lusso, in grado di soddisfare le più raffinate forme di piacere per mezzo di oggetti sopravvalutati e pagati a prezzi eccessivi: la cupidigia di possesso era arrivata a sfidare la natura artifex, ormai esausta di produrre, e non c’era da meravigliarsi che ogni tanto manifestasse la sua indignazione spalancandosi o mettendosi a tremare (Plinio il Vecchio XXXIII, 1). Spazi e insiemi decorativi Che fossero pubblici o privati, sacri e funerari, interni o esterni, gli spazi di una città e del suburbio, erano saturi di immagini, distribuite secondo il principio del decor, ossia della congruità con le loro sfere d’uso, che ne potevano incrementare l’importanza: molti oggetti sembrano di grande valore per il solo fatto di essere consacrati nei templi, afferma Plinio il Vecchio. Gli ornamenti costituivano accessori indispensabili degli edifici, che potevano gravare per un terzo o per la metà sui costi globali di costruzione, tanto da divenire oggetto di un esplicito interesse in chiave giuridica in relazione ai patrimoni immobiliari: le decorazioni partecipavano alla differenziazione degli spazi e alla modulazione delle gerarchie interne, come per mezzo dell’impiego dei media più elaborati e dispendiosi a seconda dell’importanza degli ambienti. I monumenti testimoni della maestà dell’Impero si trovavano in luoghi comuni e frequentati quali aree sacre e fori; le loro immagini celebravano il potere degli dei e la gloria degli imperatori, così come altri tipi di committenze tramite le dediche acquisivano prestigio dinnanzi alla comunità dei cittadini. Le decorazioni non si trovavano solamente in luoghi pubblici, ma anche nelle ville (luoghi privati) e nelle domus (luoghi semiprivati). Per quanto riguarda queste ultime, al loro interno non c’erano solo luoghi deputati all’ozio, agli studi e alle piacevoli conversazioni. Alcuni ambienti erano destinati alle pratiche cultuali officiate dal pater (sacra privata rivolti ai Penati e ai Lari); altri di rappresentanza, si aprivano alla folla dei clienti legati al dominuspatronus per la cerimonia della salutatio (vestibolo-atrio, ali, tablino); in altri ancora si esaltavano le relazioni sociali con persone appartenenti a una cerchia più ristretta di pari grado (triclini per banchetti);

altri infine avevano un grado maggiore di intimità (cubicoli). Alcune decorazioni anche nelle abitazioni miravano alla memoria e all’honos familiare, come le imagines degli antenati in cera che, estratte dagli atri, sfilavano per le vie principali dell’Urbe sino al foro Romano. All’esterno delle dimore e intorno alle loro soglie potevano poi trovarsi le spoglie dei nemici vinti, che a un eventuale compratore non era lecito staccare: perciò le case continuavano eternamente a trionfare anche mutando padrone. Committenti Il ruolo dei committenti era fondamentale. Senza iscrizioni, però, i monumenti di per sé non possono essere automaticamente associati a determinati gruppi sociali. Tra i principali committenti a Roma – e altrove – contarono i re, i condottieri e i politici prima e gli imperatori poi (più avanti nel tempo si aggiunsero papi e vescovi). I capitoli cronologici (5-9) delineano quindi una storia dell’arte dal punto di vista per lo più degli imperatori e dell’élite urbana. Destinatari Chi poteva dedicarsi a discorsi sulle arti figurative con competenza? Solo un gruppetto di autentici o sedicenti intellegentes, specialisti in grado sia di giudicare sia di valutare in termini economici l’ars e l’ingenium delle opere. La massa dei fruitori era molto differenziata e variegata – stiamo parlando della sola Roma in età imperiale di una popolazione stimata di settecentomila-un milione di abitanti e di diecimila circa per una città come Pompei –, per cui gli sguardi dipendevano non solo dalla diversa appartenenza sociale e cultura, ma anche dai luoghi: le opere d’arte componevano un sottofondo per processioni, giochi, sacrifici, feste e per le attività quotidiane più disparate e si potevano guardare in modo ora approfondito, ora veloce e selettivo o semplicemente non prendere in considerazione. Proprio la moltitudine di opere d’arte e ancora di più i tanti impegni e affari impedivano all’Urbe la contemplatio e l’admiratio, garantite solo dalla tranquillità dei luoghi silenziosi, dice Plinio il Vecchio (XXXVI, 27). Artefici Abbiamo l’abitudine di chiamare “artisti” gli autori delle opere – ma agli Antichi è estraneo il concetto sublime di “artista” distinto da artigiano e tanto più la separazione tra il lavoro creativo e quello puramente manuale – o più di rado persino “Maestri”, ma si tratta più propriamente di artefices (pittori, scultori, cesellatori e così via). Essi, operanti all’interno di officine di grandezza variabile, prendevano il nome per lo più dalla materia trattata (argentarius, aurarius, aerarius, eborarius, vitrarius, marmorarius, lapidarius – raro sculptor, mentre statuarius designa l’artefice di statue in bronzo). Quella romana è però una storia dell’arte prevalentemente senza nomi: le opere in età repubblicana e imperiale sono spesso anonime (tuttavia anche per motivi di conservazione), non diversamente dagli edifici, per i quali è raro conoscere gli architetti, mentre i committenti badavano a mettere in bella mostra se stessi. Dalle iscrizioni superstiti gli artefici risultano di varia condizione giuridica: liberi, liberti (frequenti) e schiavi. La stragrande maggioranza degli artefici (quasi tutti maschi) è etnicamente o linguisticamente greca e pitture, statue, vasellame in argento e gemme ne trasmettono talora le firme seguite da una forma del verbo facere o da un altro più tecnico come pingere, sculpere, scribere (ma le iscrizioni sono molto più spesso in greco). Alcuni artefici del I secolo d.C. firmavano le proprie opere con nomi di artisti famosi come Prassitele, Mirone e Zeusi. Iconografie

Per iconografia si intendono singoli schemi figurativi o intere composizioni, circolanti nello spazio e nel tempo sia in forma non tangibile, ossia nella mente degli artefici, sia mediante disegni, prontuari grafici e calchi in gesso. Stili Da non confondere con le iconografie, lo stile indica l’habitus formale o la maniera complessiva di eseguire gli schemi iconografici; ed è una componente che può sia soccorrere nella definizione della cronologia dei manufatti, della loro origine geografica, delle officine e persino delle mani al loro interno, sia concorrere a comunicare significati. Per certe classi di manufatti, o persino per l’intera produzione figurativa (e architettonica) di un periodo, gli studiosi, sulla scia di Blanckenhagen, credono di potere cogliere uno “stile d’epoca”: un denominatore comune da intendere come una realtà in grado di lasciare segni ovunque, ...


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