Riassunto di - La semimbecille PDF

Title Riassunto di - La semimbecille
Author Ciao Ciao
Course Metodologia della ricerca sociale
Institution Università degli Studi Suor Orsola Benincasa
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Riassunto del libro integrato con appunti e sbobinature delle lezioni...


Description

Appunti di Stefania Bortone e Chiara Nardo Corso di Metodologia della ricerca sociale (Docente S. Ferraro) A.A.2018/2019

Riassunto di “La Semimbecille” di S. Ferraro  “Le parole e la carne”

Le istituzioni di cura delle origini furono, come spiega Foucault, macchine di disciplinamento e visibilizzazione della povertà; era proprio la visibilità dei corpi ammalati dei poveri a rendere efficienti quelle istituzioni. Il dispositivo era parte di un’attitudine sociale più generale, agli albori della modernità era la città stessa ad assumere le sembianze di una gigantesca “macchina di visione”; la città industriale doveva infatti rendere rappresentabili i luoghi della socialità del lavoro e predisporre gli spazi idonei alla celebrazione dei suoi rituali: teatri, piazze, università e, subito accanto, gli spazi per l’enfermement delle quote di popolazione urbana ancora “non disciplinate”. In questi edifici, una folla di esperti e un insieme di saperi presero in carico questi corpi indocili con lo scopo di addomesticarli ai difficili ritmi e salari del regime di fabbrica. La coesione interna dei cittadini, la deterrenza contro il crimine e la dissuasione verso le turbolenze urbane possibili in momenti di instabilità, furono affidati ad una speciale pedagogia di massa basata su un regime di trasparenza perpetua fondato sull’abbattimento delle distanze ottiche tra classi sociali. Questo è lo scenario in cui vive la sua vicenda Maria F., contadina marchigiana di Sassocorvaro, assassina del proprio suocero molestatore. La sua diagnosi ufficiale fu “Semimbecille, affetta da mania puerperale”, e tale dato la sottrarrà al carcere per aprirle le porte del manicomio di Pesaro, designata dalla matricola 2513. La cartella clinica di questa donna svela subito la natura tutta politica della psichiatria fin de siècle e del suo oggetto vero: il disciplinamento delle classi popolari. Controllare e organizzare il corpo sociale per garantirne l’ordine politico-economico comportava in primis la definizione dei comportamenti legittimi, separando ciò che appariva utile a forgiare le “classi laboriose” da ciò che poteva nutrire le “classi pericolose” dei devianti. Dunque non stupisce che il dottor Piazzi (che ereditò la direzione del nosocomio “San Benedetto” di Pesaro da Lombroso) concentri la propria attenzione soprattutto sul vissuto sociale dell’internata: il suo “carattere morale” in famiglia e in società, l’istruzione ricevuta, le sue compagnie preferite, la maniera in cui assolve ai propri lavori, l’eventuale abuso di alcol, l’igiene personale, ecc. diventano elementi per la messa a fuoco della sua vita e implicitamente anche delle abitudini di un intero mondo di subalterni rurali. Secondo le statistiche dell’epoca, i braccianti e i contadini poveri rappresentavano il 70% della popolazione marchigiana e la loro arretratezza costituiva un problema per le ideologie di modernizzazione e industrializzazione affermatesi. La psichiatria, più di altre scienze, era dunque chiamata a ridefinire - nella contrapposizione tra normalità e follia - i contorni di senso del bene e del male, di ciò che poteva ritenersi adeguato alla nuova società e di ciò che doveva esserne inesorabilmente cacciato. Proprio in virtù di questa speciale vocazione pedagogica di disciplinamento del corpo sociale, i manicomi dovevano essere ben in vista, proprio nel centro della città (esattamente come il “San Benedetto” di Pesaro, affacciato sul corso principale). Nel corso della prima metà del ‘900, forse proprio per la necessità di contrastare un’interpretazione troppo economica e troppo politica della povertà, i confini tra questa e la malattia continueranno a sovrapporsi spesso. Tuttavia, nel secondo dopoguerra si aprirà, nel segno dello Stato sociale di diritto, una stagione completamente differente: la mobilitazione di ingenti masse di lavoratori nello sforzo della ricostruzione postbellica, il diffondersi dei modelli produttivi di tipo fordista e il forte radicamento delle organizzazioni sindacali sembrarono trasformare i poveri da “marginali” a “cittadini svantaggiati”, cosicché il paradigma dell’intervento sociale, almeno in apparenza, si spostava dalla “lotta contro la miseria” alla “lotta per l’inclusione”. Le porte dei manicomi rimasero aperte ma a venir meno fu la visibilità pedagogica della follia e del suo trattamento, poiché lo spettacolo era ormai divenuto intollerabile per la società dell’inclusione. Quest’ultimo modello di cittadinanza ha costituito una parentesi molto limitata nella storia complessiva del lavoro salariato. I segni di una fuoriuscita dal fordismo e dal welfare cominciarono a evidenziarsi già dagli anni ’70, conducendo in circa una trentina d’anni a una drastica polverizzazione delle posizioni lavorative e dei diritti ad esse connessi. L’esilio dei folli all’esterno delle mura delle città medievali e il loro internamento in istituzioni di sequestro apposite proprio della prima modernità, possono fondersi in un unico gesto che esclude e reclude. La carne della povertà sembra, oggi, scomparire definitivamente alla vista per riapparire soltanto nelle immagini televisive. In una radicale inversione della tradizione cristiana della confessione (presentata da Foucault), la novità di oggi sembra che quest’ultima non sia più necessaria alla rivelazione della verità poiché già ne possediamo tutto il potenziale di minaccia, riconducendo questo alla provenienza, alla 1

Appunti di Stefania Bortone e Chiara Nardo Corso di Metodologia della ricerca sociale (Docente S. Ferraro) A.A.2018/2019 religione, a quella cultura che non può più essere “integrata” poiché del tutto inadeguata. L’inadeguatezza dei migranti incontra quella di milioni di autoctoni altrettanto incapaci di integrarsi nelle prospettive di successo individuale prospettate dai modelli di vita e di consumi vigenti. In opposizione esplicita a tale ordine discorsivo, questo libro ci conduce a tornare a guardare i corpi ed ascoltarne le voci: nei prossimi capitoli fanno la comparsa Mario, Titina, Liliana, Peppino, Emma, figure dell’inadeguato del tempo presente appartenenti a mondi sociali diversi ma ciò che conta non è la distanza dei loro mondi tra loro quanto piuttosto la distanza dei loro mondi dal mondo sociale legittimo.

 Introduzione Tutto ha inizio il giorno in cui Antonello Petrillo, rovistando in una bancarella di libri usati al mercatino di Scario in Cilento, trova una perizia medico-legale redatta dal dottor Giuseppe Piazzi il 05/09/1892 e intitolata “Omicidio e tentato infanticidio in una semimbecille affetta da mania puerperale ”. Petrillo, visto l’interesse della prof.ssa Ferraro riguardo alla relazione tra donna e follia, decide di regalarla a lei, proponendole di ripubblicarla per restituire al presente la tragica storia della donna a cui la perizia si riferisce. In quest’ultima il perito racconta che nel pomeriggio del 9 agosto Maria F., contadina trentenne di Sassocorvaro nelle Marche, servendosi di un mattarello aveva colpito il suocero sul capo talmente forte da spezzare l’utensile in due parti; col pezzo rimastole l’aveva poi ferito al punto che la necroscopia aveva attribuito la morte dell’uomo alle ferite riportate. Successivamente, tenendo il figlio maggiore per mano e il minore penzoloni per un piede, si era diretta a casa dei vicini urlando di aver ucciso il “baghino” (maiale). La famiglia dei vicini aveva poi dovuto circuire Maria che voleva gettare nel forno acceso i due figli. A quel punto la donna fu tratta in arresto e condotta nel carcere femminile di Maceratafeltria ma dopo due giorni fu trasferita al manicomio provinciale di Pesaro poiché dava segni di alienazione mentale . Il 18/08/1892 il Magistrato Frattini interrogò l’imputata e incaricò il dott. Piazzi di emettere un parere sulle condizioni mentali e sulla responsabilità dell’imputata.

Con tale perizia il dottore consegna definitivamente Maria al manicomio di S.Benedetto, imbarcandola sulla “Nave dei folli” (cfr. alla Narrenshiff di cui parla Foucault, uno strano battello che attraversava i fiumi della Renania trasportando un carico di folli per allontanare la loro “impurità” dai centri abitati).

La suddetta perizia arriva nelle mani della prof.ssa Ferraro mentre quest’ultima sta facendo etnografia presso un’associazione che offre disponibilità ai senza fissa dimora nel centro storico di Napoli, quindi in qualche modo la storia della semimbecille le giunge quando è già immersa in biografie di povertà e follia. Tra queste, Titina e Mario - nati da famiglie povere e costretti a traiettorie di vita fatte di esclusione e désaffiliation (questo termine indica un processo di sganciamento dagli statuti ordinari della cittadinanza a seguito della perdita del lavoro e/o delle garanzie ad esso connesse) - “grazie” ai loro problemi di natura psichica riescono ad ottenere un’assistenza minima ma

quasi permanente nella struttura d’accoglienza che limita la permanenza a soli 15 giorni per i “solamente” poveri. Attraverso il racconto di queste vite è possibile evidenziare come, nel corso degli anni, il governo delle popolazioni - separando il sano dal folle e l’onesto dal delinquente - abbia prodotto interventi in termini di welfare state che però oggi agiscono in maniera selettiva e producono principi di responsabilizzazione del singolo, per cui il povero non folle deve - in maniera responsabile - lavorare e produrre ad ogni costo. Tuttavia i protagonisti di questo libro non sono solo il risultato dei dettami dell’utilità sociale, la loro navigazione verso la follia è soprattutto incertezza, separazione dal normale e “assoluto Passaggio” (esso rappresenta la posizione simbolica del folle che, attraverso una qualsiasi forma di reclusione, non può e non deve avere altra prigione che la soglia stessa; egli è trattenuto volutamente sul luogo di passaggio come spiega Foucault).

Come spiega Jacques Donzelot, a partire dalla fine del XIX sec. vengono introdotte nuove figure professionali chiamate a svolgere una missione civilizzatrice del corpo sociale (es. assistenti sociali, educatori specializzati,..). La gestione di rivolte e malcontenti causati dalla povertà viene affidata al controllo del “ tecnico/medico” che si fa garante dell’ordine sociale. In quegli anni in Europa imperava inoltre il darwinismo che, con la definizione di un “metodo scientifico”, definiva l’uomo come un animale selvaggio che una lunga e costrittiva educazione avrebbe potuto domare. Il darwinismo sociale e il positivismo lombrosiano favoriscono lo sviluppo di una sottocultura di medici e giuristi che in nome del sapere scientifico produce e legittima luoghi comuni e pregiudizi razionalizzati rispetto alla ripartizione Nord/Sud, centro/periferia, urbano/rurale.

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Appunti di Stefania Bortone e Chiara Nardo Corso di Metodologia della ricerca sociale (Docente S. Ferraro) A.A.2018/2019 [Tra l’altro Lombroso comincia a elaborare la sua teoria razzista proprio nel manicomio di Pesaro nel 1872, quando nell’esaminare la scatola cranica di Giuseppe Vilella - contadino calabrese di 70 anni condannato per furto e sospettato di brigantaggio - si convince che c’è un rapporto tra i tratti somatici e la predisposizione a delinquere. Tale rapporto sarà dimostrato anche nella perizia di Maria F.].

In sintesi Maria ha avuto la sfortuna di vivere in un’epoca in cui i tratti biologici della specie umana diventano oggetto di una strategia di potere che genera discriminazioni. In tale contesto la medicina è chiamata, prima che il morbo si manifesti, a costruire profili di popolazione a cui destinare un trattamento speciale per evitare rischi e prevenire pericoli; in altri termini bisogna individuare e dominare le classi pericolose per preservare i privilegi delle classi agiate.

Quella che finora abbiamo chiamato Maria F. è Maria Francesca Ferri che il giorno in cui viene internata - il 12/08/1892 con diagnosi di “Mania impulsiva e demenza precoce” - ha 29 anni ed altrettanti li trascorrerà reclusa nel manicomio di S.Benedetto a Pesaro dove morirà alle ore 13 dell’ 11/03/1921, all’età di 58 anni. Dalla lettura dell’anamnesi della perizia, scritta con una certa freddezza e lasciandosi andare ad interpretazioni sulla funzione di moglie della donna dal dottor Piazzi, apprendiamo che Maria all’età di 20 anni si sposa con Giovanni Magnini, uomo di 45 anni, dal quale ha 3 figli, il primogenito morto però dopo pochi giorni. Il dottor Piazzi nella perizia lunga 38 pagine si dilunga in esercizi di interpretazione morale dei comportamenti e della vita di Maria F., descrivendola con una serie di aggettivi denigratori e non facendo mai riferimento al suo nome per esteso o alla sua data di nascita, perché la si considera un “caso” non una donna; anche perché come insegna Goffman, spogliare gli alienati del proprio sé è una pratica consolidata nelle istituzioni totali.

La prima parte della ricerca condotta da Ferraro è stata di archivio, seguendo il metodo archeologico si è partiti dall’Archivio di Stato di Pesaro dove è custodito il Fondo del manicomio S. Benedetto e con le poche informazioni possedute (iniziali del nome e del paese di provenienza, età, data di internamento, stato civile) si è cercati di risalire all’identità della semimbecille. Si scopre che la donna si chiama Maria Francesca Ferri in Magnanini, è cattolica e viene da Sassocorvaro, è affetta da “mania puerperale” quindi la sua pazzia deriva dalla gravidanza e dall’allattamento. Il giorno della sua morte nel manicomio muoiono altre 3 donne per enterite tubercolare come lei. Da quel punto la prof. Ferraro cerca di ricostruire la vita della donna anche attraverso una microetnografia svolta a Sassocorvaro per una settimana attraverso i racconti degli anziani del luogo.

 1° Cap. “Pratiche ottocentesche di costruzione della devianza: una donna follemente omicida” Stefania Ferraro, durante la settimana di permanenza a Sassocorvaro sulle tracce della vita di Maria F., scopre dalla testimonianza di alcuni anziani del luogo che nel paese vi è una frase molto usata e derivante da una storiella che si racconta lì: “Tu abbuscà co lasagnolo!” cioè col mattarello, questa frase viene usata dalle donne per difendersi dagli uomini che vogliono solo comandare. Almeno così le racconta Rosa, un’anziana signora convinta che quella da cui deriva la frase sia una storiella inventata dalle nonne del paese per insegnare loro a farsi rispettare dagli uomini. In realtà davanti alla perizia mostratale da Ferraro, scoprirà che la storia è tutta vera. In quel paese di poche anime è comprensibile che la storia di Maria sopravviva attraverso una rivisitazione di senso, difatti il modo in cui i fatti di follia vengono ricomposti e narrati nelle culture ha una forte valenza antropologica: ciò che viene omesso nella storiella sono l’atto omicida (difficile da accettare da un punto di vista morale) e la dimensione della follia e del manicomio (poiché una cultura esclude sempre la follia). Quando Ferraro chiede se ci siano ancora Ferri o Magnanini in paese rispondono che i primi sono emigrati in Belgio ed Argentina e le danno il nome della suocera dell’ultimo Magnanini ancora in paese; a quel punto interviene Gino, un carpentiere ottantenne in pensione, che oltre ad accompagnare la prof nel luogo dove in passato c’era la casa dei Ferri, spiega anche che i Ferri erano molto poveri, erano coloni e lavoravano proprio 3

Appunti di Stefania Bortone e Chiara Nardo Corso di Metodologia della ricerca sociale (Docente S. Ferraro) A.A.2018/2019 per i Magnanini che era una famiglia di coloni-capo, almeno questo è quanto gli raccontava la nonna visto che quando lui è nato nel ’36, i Ferri erano già emigrati da circa 20 anni; i Magnanini invece erano passati col tempo nell’edilizia. Proprio dalla signora Gina, suocera dell’ultimo Magnanini della zona apprendiamo che la verità sulla morte suocero di Maria F. in paese non era molto chiara, dopo la morte di Maria F. (che in realtà era in manicomio), suo marito emigrò con i figli. Ad oggi l’unico Magnanini in paese è il genero di Gina poiché gli altri durante il fascismo scapparono in America e quando Ferraro arriva da lui, egli sa già tutto e le dice di ricordarsi dell’ espressione “fai la fine e ‘zi Bruno” detta agli uomini che facevano i farfalloni con le donne, ma di non aver saputo mai quale fosse questa fine e di suppore che tale ‘zi Bruno fosse lo zio di suo nonno. La cosa bella finora è sapere che Maria nel paese ha assunto le vesti del simbolo della resistenza della donna al dominio maschile. Attraverso le fotografie della signora Luigia e i racconti di Zeno, Ferraro riesce a ricostruire i luoghi e le trasformazioni che hanno vissuto dalla ruralità più profonda a forme di industrializzazione selvaggia e improduttiva. Oggi Sassocorvaro ha una popolazione più o meno pari agli anni in cui ci viveva Maria F .(circa 3500), con un’età media di 50 anni, un tasso di natalità inferiore a quello di mortalità e costanti flussi di emigrazione nei giovani tra i 20 e i 30 anni. L’economia è ancora prevalentemente rurale con alcune piccole aziende agroalimentari nate negli ultimi 20 anni, mentre il Distretto tessile di Urbania anche noto come “jeans valley” è andato in crisi a causa della concorrenza cinese. Durante gli anni di vita di Maria F. i flussi migratori in partenza dalle Marche sono tra i più alti in Italia e la meta principale è l’Argentina. Il tasso di analfabetismo a Sassocorvaro superava la media del Sud Italia. Quelli di Maria F. sono i tempi durante i quali il ricovero dei folli e dei devianti non è caratterizzato da nessuna finalità curativa, ma solo segregativa, come direbbe Foucault è un mero “affaire de police”. Grazie al superamento di una situazione che vedeva queste figure disperse per strada, la loro centralizzazione nelle strutture manicomiali era presentata come una conquista di civiltà . Nell’Italia post-unitaria dei lombrosiani e della definizione delle razze per regioni, tra i tratti comportamentali dei Marchigiani troviamo: la laboriosità, l’etica del lavoro e del risparmio, l’individualismo ostinato ma contemporaneamente il senso di appartenenza al clan familiare. Tenendo presenti tali tratti, in seguito alla perizia del dottor Piazzi, evinciamo che Maria F. e la sua famiglia sono da considerarsi devianti in quanto “di carattere irritabile” e quindi fuori dai “valori di equilibrio caratteriali” medi predefiniti. A contribuire al definirsi del sistema di rappresentazioni della Regione è l’“ Inchiesta agraria Jacini” del 1880, la quale fa emergere che, ai tempi di Maria F., le Marche sono la regione più agricola e più povera d’Italia. Quindi, una volta sottolineata la deficienza della donna, il dott. Piazzi ricava i restanti elementi descrittivi dal contesto generale di povertà, descrivendo la sua mancata istruzione ed educazione, la scarsa nutrizione e la sudiceria tipica della miseria. Ed è curioso come nonostante la generale miseria di contesto, fatta di alimenti poveri come mais, patate e minime integrazioni di carne suina con conseguenti morti per malattia, il dott. Piazzi riesca a rilevare in Maria F. i segni di una follia connessa a una denutrizione e a una deficienza nello sviluppo scheletrico determinato non dalla miseria secondo il dottore ma dal “ retaggio ereditario”. Il dibattito sulle malattie dei contadini, dei poveri e dei miserabili è molto intenso all’epoca di Lombroso, si definiscono due correnti di pensiero in merito allo studio della pellagra: quella “eziologica” e lombrosiana che fa riferimento alle muffe presenti nel mais, mal macinato e conservato, e che rinvia a una farmacologia del tutto sperimentale, e quella “caritatevole”, supportata da molti medici di base, che si riferisce all’esigenza di interventi statali di igiene pubblica. In realtà la pellagra è una malattia causata dalla mancanza di vitamine del gruppo B contenute in alimenti riservati al commercio urbano e di cui i contadini erano dunque privati. Il riportare la questione della pellagra è solo per far comprendere che all’epoca di Maria F. anche questa malattia è usata come strumento di definizione delle razze finalizzata a tracciare i confini entro cui richiudere la semimbecille e i suoi simili per evitare dispersioni di risorse economiche nella cura di chi è “condannato dai propri geni” ...


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