Riassunto E. CASTELNUOVO, C. GINZBURG, CENTRO E PERIFERIA, IN STORIA DELL\'ARTE ITALIANA. MATERIALI E PROBLEMI. QUESTIONI E METODI, TORINO, 1979 PDF

Title Riassunto E. CASTELNUOVO, C. GINZBURG, CENTRO E PERIFERIA, IN STORIA DELL\'ARTE ITALIANA. MATERIALI E PROBLEMI. QUESTIONI E METODI, TORINO, 1979
Author Letizia Comminiello
Course Metodologia della storia dell’arte 
Institution Università degli Studi di Salerno
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Riassunto CENTRO E PERIFERIA, IN STORIA DELL'ARTE ITALIANA. (PP. 285-352)...


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Centro e periferia- Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg

1- Periferia e provincia Nella scelta tra periferia e provincia è meglio parlare di periferia, termine più neutro, meno carico di implicazioni valutative. La storia dell'arte europea è stata in larga misura la storia di una serie di centri da ciascuno dei quali si è irradiato uno stile. Per un periodo più o meno lungo questo stile ha dominato l'arte del tempo, è divenuto di fatto uno stile internazionale, che in partenza era uno stile metropolitano e diveniva sempre più provinciale quanto più raggiungeva la periferia. Uno stile altro non è che la creazione di un centro. Se il centro è per definizione il luogo della creazione artistica non rimane che considerare la periferia sinonimo di ritardo artistico. Si prova invece ad accogliere i termini centro e periferia nella loro complessità virgola che può essere geografica, politica, economica, religiosa e artistica. 2- Il caso italiano Per uno studio del nesso centro/periferia in campo artistico, l'Italia appare un laboratorio privilegiato per molte ragioni, innanzitutto geografiche, come la lunghezza della penisola, il rapporto tra il perimetro delle coste e la superficie, la presenza di due catene montuose, eccetera. Questi elementi hanno creato un paesaggio quanto mai contraddittorio e diversificato. La facilità di scambio con paesi lontani è stata accompagnata da comunicazioni scassa e difficoltose tra zone interne magiari vicinissime. La presenza di una fitta rete di strade romane e di una quantità eccezionale di centri urbani hanno esaltato la diversificazione da un lato e l'abbondanza delle comunicazioni dall’altro. Fin d'allora la produzione artistica in Italia era destinata a fare i conti con una fortissima tendenza al policentrismo caratterizzato il più delle volte da contatti più subiti che cercati. Ripensare la fisionomia della produzione artistica italiana dal punto di vista dei rapporti tra centro e periferia significa dunque di pensare al l'intera storia d'Italia. 3- La Storia del Lanzi La grande sistemazione proposta dal Lanzi è un punto di partenza obbligato: se non altro perché per primo egli si distaccò dal venerando schema imperniato sulle biografie degli artisti per adottarne uno diverso, storico geografico. Solo le scuole forniscono un criterio di classificazione immune da rigidità o da schematismi. La ricchezza della storia pittorica italiana non è riducibile a l'individuazione delle maniere o alla narrazione delle biografie dei capiscuola. La geografia dell’Italia pittorica si precisò con lentezza nella mente del Lanzi. Il progetto di originario prevedeva due volumi, ma solo il primo fu dato alle stampe nel 1792: esso comprendeva due scuole considerate principali ovvero la fiorentina e la romana, più altri due, la senese e la napoletana. Le successive rielaborazioni sostituirono all’iniziale bipartizione un'opera più ampia e complessa, divise in 5 volumi. A ciascun volume corrispondeva una delle scuole principali. Tale suddivisione si ispirava esplicitamente a quella formulata al principio del Seicento da monsignor Agucchi, che di scuole ne aveva menzionate solo quattro. Nel definire le scuole pittoriche italiane il Lanzi si inseriva in una discussione che durava ormai da più di due secoli, in questo arco di tempo il numero delle scuole riconosciute era via via cresciuto appunto la novità del Lanzi consisteva nell’aver affiancato alle maggiori una ricca costellazione di scuole di scuole minori (in tutto 14). Ne risultava un quadro molto più articolato di quelli precedenti: la novità maggiore è rappresentata forse dalle 5 scuole in cui veniva scomposta la generica etichetta di scuola lombarda. Nell’edizione del 1809 della Storia pittorica la parte del leone spettava alle scuole maggiori: fiorentina, veneta, romana e

bolognese. La parte dedicata ai pittori dell’Italia meridionale era molto piccola poiché il Lanzi non si recò mai nel regno né nelle isole e il suo scrupolo di conoscitore si arrestò apparentemente di fronte alle difficoltà e alle fatiche di un viaggio a sud di Roma. Di questa situazione di inferiorità il Lanzi era il primo ad esserne consapevole infatti cercò di entrare in possesso di informazioni più ampie e attendibili sulla scuola napoletana, ma queste ricerche non ebbero troppo successo. In breve, il capitolo sulla scuola napoletana prende in considerazione soltanto due centri cioè Napoli e Messina; gli accenni ai pittori operanti al di fuori di Napoli sono pochi e generici. la Sardegna e la Corsica non sono neppure ricordate. 4- Storia artistica e distribuzione geografica La maggior parte della Storia pittorica è dunque dedicata all’Italia centro settentrionale. L'appartenenza o meno a una determinata a scuola sembra legato a considerazioni politiche, come la provenienza da città suddite della capitale. In realtà l'atteggiamento di Lanzi è più complesso. Da un lato l’esclusione anche se giustificabile da un punto di vista geografico politico, risulta di fatto formulata sul terreno stilistico, dall'altro, alcune città suddite di Roma nel momento in cui Lanzi scrive, hanno dato in passato vita a scuole autonome. Dunque il criterio stilistico e quello politico, spesso coincidono perché ogni scuola presuppone un centro, che è un centro anche politico. Talvolta però divergono perché esistono centri artistici che sono stati in passato centri politici e ora non lo sono più. In questi casi il criterio determinante è quello stilistico. In un caso tuttavia il Lanzi è costretto a confessare che tale metodo è inadeguato, ciò è dovuto all’assenza di un centro unificatore: è il caso della Lombardia in cui ogni stato ebbe una scuola diversa da tutte le altre. Alla consueta immagine di un centro maggiore incontrastato subentra questa volta un'immagine policentrica. La preminenza assegnata alle determinazioni stilistiche fa intravedere un nesso tra storia delle scuole pittoriche e storia degli stati, adombrato dal fatto che i centri artistici da lui presi in considerazione furono anche i centri di potere politico. In conclusione, la galassia pittorica italiana descritta da Lanzi appare dominata da quattro pianeti più importanti, le città capitali: Firenze, Roma, Venezia, Bologna. Di regola queste città sono quelle che riescono ad imporre un’egemonia artistica durevole sulle città suddite dei rispettivi stati. Quando ciò non si verifica ci troviamo di fronte a una costellazione di pianeti di seconda grandezza. 5- Citta capitali e città suddite Si potrebbe dire che nella storia del Lanzi la periferia è presente soltanto sotto forma di zona d'ombra che fa risaltare meglio la luce della metropoli. La mancanza di idee caratterizza i pittori delle città suddite. Secondo il Lanzi le caratteristiche delle metropoli adatte a stimolare le arti sono bontà del clima, mecenatismo, emulazione e buoni esempi. Si tratta di un elenco tradizionale, anche se il tema dell’emulazione tra gli artisti si carica nel Lanzi di implicazioni nuove in quanto le pitture sono divenute un ramo del commercio e anche per esse valgono i principi della concorrenza. Nella storia pittorica l'importanza della concorrenza è fortemente sottolineata: sia nel senso di emulazione tra gli artisti, sia nel senso di emulazione tra committenti. È chiaro che l’insistenza sulla pluralità dei committenti pone implicitamente un problema politico: un principato assoluto è favorevole allo sviluppo delle arti al pari di una Repubblica? (Esempio di Siena con Cosimo I). L'accento alla libertà aveva un timbro molto winkelmanniano. Nella Storia delle arti del disegno Winkelmann aveva scritto per esempio che “la libertà fu la principal cagione dei progressi dell'arte greca”. Non si può nemmeno escludere il riferimento a Ferguson che ritiene l'avanzamento delle arti come un segnale della felicità politica di un popolo. Quando Lanzi parla di “società civile” probabilmente si riferisce proprio alla lettura di Ferguson: soprattutto perché qui la società civile non è la comunità umana organizzata dalla tradizione aristotelica ma la società borghese.

6- Concorrenza e società civile Se si insiste sulla possibilità di una lettura di Ferguson da parte di Lanzi, è perché essa potrebbe dar conto di un tema che ricompare più e più volte nelle pagine della Storia pittorica. L'esistenza di una committenza molteplice, e quindi di un mercato, influisce in maniera positiva sulla produzione artistica. Ma questa è per Lanzi soltanto una faccia della medaglia poiché egli vede il rischio che per far fronte alle committenze e battere la concorrenza un artista sia indotto a risparmiare sul tempo, o sui materiali. Soprattutto il risparmio di tempo, la velocità, pare al Lanzi una pratica diffusa e condannabile; secondo lui troppi pittori seguono le orme del Vasari che difatti antepose la velocità alla finezza. Il punto di discrimine è da presentato dai veneti, e in particolare da Giorgione. I veneti si sono attirati dagli stranieri l'accusa di aver ceduto ad una velocità che non consente di finire il lavoro presente per l'ansia di passare presto ad un altro lavoro, per ottenere un altro guadagno. Tiziano e Veronese, entrambi molto veloci nella produzione di opere sono però assolti da quest’accusa in quanto le loro opere sono accompagnate da perizia. La società civile analizzata da Rousseau e da Ferguson è la società borghese basata sulla concorrenza. Anche Lanzi sottolinea sia gli effetti propulsivi della concludenza sullo sviluppo della pittura, sia il dilagate del meccanismo a danno della qualità dei prodotti causa la crescente commercializzazione dell'attività artistica. 7- Gli squilibri territoriali Questa rilettura della storia del Lanzi condotta sul filo dei rapporti tra centro e periferia ha fatto emergere due ordini di problemi irrisolti. Dal punto di vista geografico, lo squilibrio tra la parte dedicata all’Italia centro settentrionale e quella dedicata alla Italia meridionale e alle isole; dal punto di vista storico genetico, l'importanza decisiva attribuita alla concorrenza non solo tra artisti ma tra committenti e centri di elaborazione artistica. È stato rilevato autorevolmente che tra Cinquecento e Settecento si determina nell’ambito della cultura letteraria italiana un pieno equilibrio tra nord e sud mentre il quadro tracciato dal Lanzi appare sbilanciato. Questa distorsione di cui l'autore stesso era consapevole è tutta da attribuire alla povertà e inattendibilità delle sue fonti di informazione sull'Italia meridionale. È indubbio che la pittura del Regno e delle isole sia ancora in grandissima parte da scoprire, tuttavia le auspicabili ricerche sulla pittura meridionale non potranno porre in luce una rete di centri artistici paragonabile a quella del centro e del nord Italia. Perché i centri artistici italiani sono stati storicamente certi e non altri? Per rispondere bisognerà partire da molto lontano, infatti l'antichità e la persistenza dei centri urbani è una delle caratteristiche più evidenti della storia della penisola. Un contrasto fondamentale tra i centri urbani della penisola si era già delineato nel corso del primo secolo a.C. 8- Questioni di lunga durata In questo periodo si verificarono infatti due processi paralleli ma disegno diverso. Dopo la fine della guerra sociale un gran numero di contadini impoveriti del centro sud tendeva ad abbandonare le campagne per riversarsi su Roma. La classe dirigente romana dovette perciò vedere con favore le massicce iniziative di ricostruzione e di rinnovamento edilizio attuati dei municipi ex alleati. Antichi centri si ampliarono e numerose comunità uscirono dallo stato tribale per passare una vita associata di tipo urbano. Queste iniziative municipali si verificarono in tutto il centro sud. All'incirca nello stesso periodo si venne attuando la colonizzazione romana della Gallia cisalpina che fu accompagnata dalla fondazione di centri urbani, ma secondo modalità molto diverse da quelle del Sud poiché la fondazione di questi centri avvenne secondo un vero e proprio piano regolatore, che implicava una riorganizzazione del territorio, la costruzione di opere idrauliche e così via. Il Salvatorelli sostenne che di storia d'Italia in senso proprio si poteva cominciare a parlare

fin dal primo secolo avanti Cristo. È vero che lo squilibrio fondamentale che caratterizza la storia della penisola ha le sue origini lontanissime proprio in queste vicende. Alla fine dell'evo antico la rete dei centri urbani italiani presentava un aspetto duplice, nel centro sud aveva una maglia fittissima mentre nel nord un reticolato molto più dado. Notando il numero delle diocesi italiane e la loro soppressione si capisce che il reticolato urbano più fitto risultò il più fragile mentre il reticolato urbano più rado del nord oppose maggiore resistenza. Scomparvero o decaddero gravemente centri litoranei, ma il quadro complessivo non subì modificazioni troppo gravi. Dopo il Mille, in tutta Italia c'è una rinascita delle città, ma nel giro di un secolo le vicende del centro nord e del centro sud divergono ancora una volta. All'Italia dei comuni si contrappose un’Italia feudale; al panorama che si andava profilando ne subentra uno del tutto diverso, caratterizzato dallo schiacciamento delle città minori a danno delle metropoli. L'area di diffusione dei comuni coincide largamente con quella parte d'Italia in cui il reticolato urbano di origine romana era il risultato più esistente. 9- La dislocazione dei centri artistici Queste contraddizioni di lungo periodo vanno tenute presenti se si vuole capire la dislocazione geografica dei centri artistici italiani. Tra essi si trovano infatti molti centri di origine romana o pre romana, ma questo non costituisce una condizione necessaria per fare delle generalizzazioni. Venezia o Ferrara infatti sono state sedi di diocesi, ed è sicuramente vero che siano stati grandi centri artistici, ma non è vero che alle sedi vescovili corrispondano dei centri artistici. Nel corso del secolo XI nell'Italia centro settentrionale i centri artistici si identificano con le città che sviluppano un'intensa vita comunale, e sono tutte sede di diocesi; nell’Italia meridionale con le città poi soffocate dal centralismo normanno-svevo e con le città sede di Corte. La frontiera tra queste due italie artistiche ricalca quella emersa nel primo secolo avanti Cristo e mai cancellata dalle vicissitudini posteriori. 10- Le città comunali Ciò che conta è innanzitutto la presenza simultanea di una serie di centri urbani di un potere comunale e di un potere vescovile che diedero luogo a una duplice, alternativa committenza, laica ed ecclesiastica. In secondo luogo, l’esasperata tensione municipalistica esplosa in età comunale che costituì una spinta fortissima alla diversificazione artistica. È indubbio che le condizioni che tendono a favorire l'innovazione artistica si verificano di regola nei cosiddetti centri. I centri artistici potrebbero essere definiti come luoghi caratterizzati dalla presenza di un numero cospicuo di artisti e di gruppi significativi di committenti che per diverse motivazioni sono pronti a investire in opere d'arte una parte delle loro ricchezze. Quest'ultimo punto implica che il centro sia un luogo in cui affluiscono quantità considerevoli di surplus da destinare alla produzione artistica. Inoltre potrà essere dotato di istituzioni di tutela, educazione e promozione degli artisti, nonché di distribuzione di opere. Infine, conterà un pubblico ben più vasto di quello dei committenti veri e propri, un pubblico non omogeneo, ma divisi in gruppi, ognuno dei quali caratterizzato da abitudini e criteri di valutazione. Centro artistico potrà essere soltanto un centro di potere extra artistico: politico e/o economico e/o religioso. La mera presenza di un'opera d'arte in una determinata località non basta fare di quest’ultimo un centro artistico. 11- Centri di innovazione e aree di ritardo Se il centro tende a configurarsi come il luogo dell’innovazione artistica, la periferia tende a configurarsi come il luogo del ritardo. È possibile distinguere un ritardo plurisecolare, come nel caso della produzione cosiddetta popolare , quella elaborata da contadini per i contadini; un ritardo

plurigenerazionale nel caso dei prodotti eseguiti da artisti professionisti per una clientela contadina e un ritardo di pochi anni che però viene avvertito come traumatico perché coincide con momenti e situazioni caratterizzate da subitanea svolte del giusto. Per quanto riguarda i prodotti contadini le forme fondamentali si basano su un repertorio limitato che rimane pressoché immutabile per secoli. Ai diversi livelli corrispondono diversi gradi di vischiosità. Nel caso dei pittori itineranti vercellesi della metà del Quattrocento ci si poteva tranquillamente servire di modelli assai antichi in quanto il pubblico non aveva alcuna possibilità di confronto. 12- Periferizzazione e declassamento Altre volte è lo spostamento materiale delle opere dal centro alla periferia a far intravedere che quest’ultima viene identificata con un gusto artistico ritardatario. Un esempio è il caso del pulpito della cattedrale di Cagliari, scolpito per la cattedrale di Pisa, e trasportati in Sardegna quando a Pisa venne inaugurato un nuovo pulpito. Il vecchio pulpito rappresentava per i sardi una reliquia della terra d'origine, uno strumento di identificazione e di aggregazione nonostante il gusto arretrato. Tra Cinque e Settecento i polittici trecenteschi vengono allontanati dalle più celebri chiese di Siena e delegati in remoti oratori di campagna. Capita che monumenti e opere del passato a un certo momento vengono ceduti o gettati in un canto come vestiti smessi. Quanto detto fin qui mostra a sufficienza che il nesso centro/periferia non può essere visto come un rapporto invariabile tra innovazione e ritardo. Si tratta al contrario di un rapporto mobile, soggetto a brusche accelerazioni e tensioni, legate a modificazioni politiche e sociali, oltre che artistiche. 13- Vasari Per Vasari, l'unica possibilità per un artista nato ed educato in provincia è quella di venire a contatto con il centro: solo così potrà entrare nel gioco dell’innovazione e del progresso. Lca vocazione egemonica che era stata proprio di Firenze fin dalla fine del 200, verrà assunta da Roma. È a Roma tendono artisti di ogni parte d'Italia che si sono resi vagamente conto di quello che c'è nell'aria. È il caso di Parmigianino che arriva per conoscere le opere di Raffaello e di Michelangelo, di Nicolò Soggi, di Pierino da Vinci. Di fronte alle rivelazioni romane, artisti già affermati ripudiano la loro prima educazione e ricominciano da capo, come Raffaello che vede la Battaglia di cascina di Michelangelo e si perde d’animo, decide quindi di abbandonare la maniera di Pietro e apprendere quella di Michelangelo. A Roma dunque si arriva da Parma, da Firenze, da Venezia, da Mantova o da Ferrara. L'immagine della provincia è quanto di più lontano si possa immaginare da quella del centro. Un caso estremo è quello di Marco Cardisco, che Vasari ritiene un ottimo pittore nato però in una provincia, ovvero in Calabria. Non sempre la provincia è questa plaga desolata dove la pianta degli artisti non alligna; ma quando anche ve ne siano, sarà bene che non vi stiano a lungo, perché essa manca di esempi, vale a dire di alcuni degli elementi fondamentali per lo sviluppo dell'innovazione. Arezzo si trova in tali condizioni, insieme a Perugia, Volterra, ma anche Siena che è considerata come una provincia poco stimolante agli occhi del Vasari, che racconta come Sodoma non trovando concorrenza vi lavorasse da solo, non studiando mai. Si tratta di casi in cui l'artista avrebbe quasi sempre preso coscienza della situazione. Altrove il Vasari si limita a notare che l'artefice di cui parla, se avessi avuto la possibilità di uscire dalla sua provincia avrebbe fatto cose straordinarie. È il caso di Luca de Longhi, rimasto a Ravenna o di un gruppo di scultori Lombardi limitatisi a lavorare a Milano. Particolarmente duro da ammettere per il Vasari è il caso di chi decide di non muoversi come Cola dell’amatrice che rimase sempre ad Ascoli o il Franciabigio che non vuole mai uscire da Firenze poiché aveva veduto alcune opere di Raffaello ad Urbino e non si sentiva al suo livello. Le emulazioni tra gli artisti e gli stimoli che possono venire dalle attese del pubblico sono, secondo il Vasari, molle fondamentali del progress...


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