Riassunto La Societa\' Degli Altri - Tito Marci PDF

Title Riassunto La Societa\' Degli Altri - Tito Marci
Course Sociologia
Institution Sapienza - Università di Roma
Pages 10
File Size 96.4 KB
File Type PDF
Total Downloads 43
Total Views 145

Summary

Riassunto del libro la società degli altri, prof tito marci esame di sociologia ...


Description

La società degli altri: ripensare l’ospitalità Il linguaggio Il linguaggio rappresenta il punto di partenza necessario per affrontare la questione degli “altri”, degli stranieri, degli estranei, in un orizzonte sociale caratterizzato da barriere, limiti e frontiere. La lingua non è solo la prima e ultima condizione di appartenenza è anche l’esperienza dell’espropriazione; è qualcosa che ci appartiene che è sempre con noi, ma allo stesso tempo non cessa di allontanarsi da noi. La lingua inglese rappresenta la lingua del mercato globale, quella che ci permette di comunicare e intrattenere scambi. Tuttavia esistono termini che appartengono a culture nazionali difficili da tradurre, espressioni e concetti che si sono costruiti in determinate fasi storiche. Dunque oltre i confini incerti di questo inglese globale continua ad esistere una molteplicità di lingue, portatrici di identità. Il linguaggio è il mezzo mediante cui costruiamo il reale. Ma ciò a ben vedere presuppone una lingua viva, capace di tradurre e mutare, ovvero di ospitare nel suo essere altri idiomi, appropriandosene e al contempo espropriandosi. Ogni traduzione è esperienza di ospitalità. Tradurre significa ospitare, cogliere nella propria dimora estranei, senza pretesa di assimilazione o omologazione. Le lingue intendono tutte la stessa realtà, ma non nello stesso modo. La differenza delle lingue non è destinata a scomparire, non deve essere soppressa, al contrario, è il gioco. Ogni lingua originale trattiene in sé stessa un’estraneità all’origine. Non bisogna andare alla ricerca di un significato univoco, bensì creare uno spazio per uno scambio reciproco. L’ospitalità si presenta come uno spazio linguistico capace di proteggere la differenza tra i soggetti, che rispetti le differenze, e che offri un punto di incontro, un punto di partenza dal quale poter costruire un futuro insieme. C’è un problema difficile da ignorare: la differenza incolmabile tra il linguaggio d il reale. Il linguaggio inteso come attesa di qualcosa, mai soddisfatta, poiché sopraggiunge la realtà a sorpresa. La sorpresa è sempre qualcos’altro dal linguaggio. Il linguaggio non riconoscerà il suo ospite quando si presenterà. Lo spettro dell’ospite, dell’altro inatteso, dello straniero non invitato, attraversa tutto il linguaggio dell’ospitalità. La lingua è ospitale, non tiene conto delle origini, essa diventa quello che noi ci aspettiamo da noi stessi. E tale aspettativa è sempre esposta al rischio di rimanere delusa. Attraverso il linguaggio accediamo al nostro proprio essere, a ciò che tramite la parola ci vincola agli altri, e ci qualifica come soggetti in rapporto all’universo degli altri. Ciò vuol dire che siamo al contempo ostaggi del linguaggio. Le condizioni di un’inclusione ospitale In un paese sempre più indirizzato verso una composizione culturale multietnica, emerge la questione dell’integrazione sociale che solleva problemi politici, giuridici, religiosi ed etici, di non facile soluzione. Possiamo partire da un’analisi critica dei fondamenti culturali posti alla base della nostra convivenza sociale estesa a un contesto globale più ampio e in rapida trasformazione. Ciò che sembra più urgente è la riformulazione etica del problema dell’integrazione giuridica e sociale tra estranei. Occorre guardare a quel processo di globalizzazione e deterritorializzazione, che ci vede sempre più altri ed estranei nel mondo, che trova nel diritto un argine, un rifugio e, al contempo, un ostacolo ed un limite.

Il diritto sembra seguire ancora la logica delle frontiere territoriali per quanto le nuove prospettive del cosmopolitismo mirino a una costituzionalizzazione del diritto internazionale. Contrariamente all’economia, insofferente ai confini politici e alle frontiere giuridiche, il diritto ha bisogno di limiti, ha bisogno di essere localizzato. La legge divide l’altro dall’altro, separa il residente e l’estraneo, consegnandoli allo spazio di frontiera. La legge ancora oggi trattiene con la frontiera il suo rapporto esistenziale. Il confine, nella misura in cui delimita un fuori, rimanda alla possibilità di un passaggio, mettendo in contatto separa. Il diritto registra sempre una fondamentale tensione tra chiusura ed apertura, appartenenza ed ostilità. Paradossalmente possiamo cogliere il diritto come spazio di ospitalità, che conserva al contempo il significato dell’accoglienza e dell’ostilità. Sembra avviarsi un processo di sconfinamento dello spazio giuridico. Mai come oggi, nella deterritorializzazione di un mondo che ha elevato l’estraniazione a sua cifra essenziale possiamo cogliere i tratti fondamentali dell’etica. Dietro le figure emblematiche che descrivono tale condizione, l’esule, il profugo, il migrante, possiamo riconoscere la nostra origine. Viviamo in un mondo che ha assunto a sua condizione essenziale l’esperienza di sradicamento totale, dietro cui, al contempo, ritroviamo traccia di un radicamento più profondo e completo. Dobbiamo allora ripartire da qui per ripensare la dimensione essenziale dell’etica: la condizione di esilio, di stranieri nella nostra dimora. Se la società oggettivata, evidenzia quei tratti dell’alienazione tipici dei rapporti di produzione capitalistici, è perché attraverso di essi si svela un modo proprio di essere al mondo che caratterizza la vita dell’uomo in ciò che più lo definisce quale straniero, esule ed estraneo nel suo più autentico dimorare. Se nell’epoca della razionalizzazione capitalistica, questa condizione si presentava nei termini di alienazione, al giorno d’oggi parliamo di dislocazione ed estraneità. L’ordine dello scambio economico Con la progressiva perdita della sua egemonia economica e finanziaria, l’Occidente sta indebolendo anche la sua centralità culturale. Il problema dell’integrazione sociale continua ad essere pensato entro l’ordine dello scambio economico e delle transazioni mercantili. Oggi sono le politiche economiche del lavoro e i meri interessi di mercato le condizioni prevalenti che regolano i flussi migratori e i rapporti sociali tra estranei. Lo scambio generalizzato si afferma come unico e universale principio regolatore dei flussi migratori; esso va inteso Valore stesso, Valore assoluto. Lo scambio come misura di valore dei rapporti sociali, che trova nel denaro il suo equivalente simbolico generale. Con l’economia dello scambio, diviene tutto ordinabile ed equiparabile, tutto relativo. Se vi è relatività culturale è perché domina il principio dello scambio assoluto. Si passa dal regime dell’alterità originaria al principio della differenza funzionale. Ed è proprio qui che l’alterità si riduce a differenza, che l’altro diviene diverso, e paradossalmente l’altro diviene l’uguale, l’identico. Dall’individualismo etico universalista si è finiti per passare all’omologazione numerica,

uniforme e spersonalizzata. Tutto può essere scambiato e soggetti differenti diventano uguali: la disuguaglianza apparentemente negata nel rapporto astratto e formale tra pari, scaturisce paradossalmente da un’equivalenza che costringe il diverso all’uguale. Si è affermata un’idea di integrazione sociale basata essenzialmente sul modello funzionalista. La sociologia, soprattutto con Durkheim, ci ha restituito la forma tipica di questo modello attraverso l’analisi dei processi sociali che, nella società industriale, hanno caratterizzato la crescente complessità della divisione del lavoro. Secondo il sociologo, l’integrazione sociale doveva essere misurata mediante il modello della “solidarietà organica” quale forma di coesione fondata sui rapporti di scambio. Se oggi l’inclusione sociale viene pensata entro l’ordine dello scambio economico e delle transazioni mercantili, essa è sempre più attraversata dalle difficili dinamiche che accompagnano il fenomeno delle migrazioni. L’individuo si trova sempre di più esposto senza protezioni e garanzie all’universo dello scambio generalizzato, al dominio delle transazioni mercantili autonome, ormai svincolate dal controllo politico e dai legami con la società. E’ proprio in questo contesto, in questa desocializzazione dei rapporti economici che oggi si dispiega il problema delle migrazioni quale fenomeno che interessa chi è costretto ad elevare l’estraneità. Sono le politiche economiche del lavoro e i meri interessi di mercato le condizioni prevalenti che regolano i flussi migratori e i rapporti sociali tra estranei. Tutto sembra attenersi ad una ragione dello Scambio che, riducendo gli uomini a merci, a entità spersonalizzate, rimane indifferente al fenomeno della migrazione, nei confronti di quei soggetti che si trovano costretti a scambiare. L tragicità di questa condizione è anche la nostra, di noi tutti come residenti in un mondo che, dietro l’estensione globale, la logica della globalizzazione, paradossalmente ci rende sempre più stranieri, estranei agli altri, al mondo a noi stessi. Solidarietà tra estranei A differenza dello scambio economico, che astrae gli individui dal contesto societario, l’ospitalità definisce una sfera di incontro tra estranei fondata sul piano dei rapporti sociali. Un principio che si dispone non solo nel territorio dell’etica, ma anche in quello del diritto. L’ospitalità considera, paradossalmente, l’altro come estraneo all’interno delle relazioni sociali. Ripensare l’ospitalità appare oggi, più che mai, un’operazione importante, in quanto proprio adesso con lo sviluppo della globalizzazione e l’incremento della migrazione, il modo di rapportarsi tra estranei si presenta come un fatto decisivo per la nostra convivenza sociale. Il problema della convivenza tra estranei in un tessuto sociale attraversato da differenze culturali, ha storicamente trovato, sul piano giuridico, un suo tentativo di soluzione, da parte dell’ordinamento dello Stato nazione, attraverso due strategie: una tendente a promuovere l’unificazione culturale nazionale, l’altra diretta a garantire sfere di autonomia alle varie culture. Gli Stati hanno promosso al loro interno l’unificazione del diritto privato, pubblico e processuale, ma anche un’omogeneità linguistica, di cultura ed istruzione. Tutto questo ricade sull’individuo, il quale per partecipare alla comunità, si trova costretto a rinunciare a quelle caratteristiche che lo differenziano, e a mantenere quelle che lo pongono in identità. Le differenze culturali non vengono comunque soppresse ma confinate nella sfera privata. Quest’ultima, dipendente dal processo di unificazione

culturale, risulta diversa in America rispetto che in Europa. Qui in Europa, dove è stata possibile un’omogeneizzazione giuridica e culturale, la sfera dell’autonomia privata appare ridotta. Nell’ordinamento americano, invece, imperniato sul principio di libertà delle più differenti religioni e culture, la sfera privata resta ampia. Il modello di ordinamento legato allo Stato nazione non appare adeguato ai problemi sollevati dalla globalizzazione; infatti un tentativo di unificazione, si risolverebbe in una lotta contro i diritti e le differenze culturali. Allo stesso modo anche la variabile americana risulta inadeguata, o meglio può essere accettabile solo là dove la differenza culturale sia un problema legato all’individuo. In Europa la situazione è diversa, in quanto le medesime differenze sono legate ad una comunità mediante il riferimento ad un territorio determinato. Questo legame con il territorio mostra che la differenza di cultura presenta un’immediata dimensione pubblica. In Europa le differenze culturali sono molto più stabili e radicate; così mentre in America il centro del sistema resta il diritto dell’individuo, in Europa non si può evitare di ritenere fondamentale il diritto all’identità culturale. A questo punto bisogna capire come rinnovare l’ordinamento europeo a garanzia dei diritti delle differenze, da un lato, e a garanzia della compatibilità di questi ultimi con un diritto generale. A rendere ancora più complicato il quadro culturale, si è aggiunto il crescente problema dell’immigrazione, che da una parte, diluendo le concentrazioni etniche regionali, dall’altro pone nuovi problemi di integrazione fra estranei. Gli attuali Stati sono costretti a tollerare dei nuovi arrivati, ed ogni paese deve così trovare un modo per stabilire una convivenza pacifica, allo stesso modo i nuovi venuti devono adattarsi con la cultura politica del nuovo paese. In realtà tutto questo non sembra coincidere con quanto vediamo. Di fatti numerose rimangono le tensioni fra soggetti appartenenti a culture diverse, si riaccendono conflitti religiosi e sorgono nuovi sentimenti nazionalistici. Sono prevalse fino ad oggi due differenti strategie: una politica delle pari dignità, fondata sull’idea che tutti gli esseri umani sono ugualmente degni di rispetto a causa di una potenzialità umana universale, e una politica della differenza basata sull’idea che questa stessa potenzialità definisce l’identità non solo dal punto di vista degli individui, ma anche dei gruppi. Il confronto tra culture diverse rischia, da un lato, di inasprire i conflitti, ma dall’altro, di avviare e promuovere processi di omologazione sociale atti a comprimere e dissolvere la pluralità delle differenze. Ogni integrazione pensata in tal senso implica sempre un sacrificio della differenza, ovvero di quella alterità. Nei suoi ultimi studi, Habermas recupera gli assunti fondamentali del formalismo etico in vista della riformulazione di una teoria della razionalità di tipo pratico-morale da opporre al modello weberiano fondato sull’idea dell’inconciliabilità tra la sostanza dei valori e il carattere puramente formale del diritto razionale e legale moderno. Quello che i politici devono fare è riorganizzare i rapporti fra Stati in vista dell’allargamento della democrazia secondo una prospettiva cosmopolitica. Ecco che torna l’idea del diritto cosmopolitico kantiano, concepito come il realizzarsi di una sfera pubblica mondiale. Il ritorno al diritto cosmopolitico kantiano segna il terreno fecondo su cui si snoda gran parte dell’ultima riflessione giuridico-politica di Habermas. Il sociologo contemporaneo accentua la distinzione tra diritto e morale e rimarca la centralità funzionale e normativa del diritto positivo quale medium formale dell’integrazione sociale. Egli ha sostituito alla religione e al commercio, il diritto quale medium di una ragione comunicabile all’intero universo. Habermas è tornato a ripensare un possibile cosmopolitismo proponendo un modello di democrazia procedurale e deliberativa, attraverso il primato della funzione socio-

integrativa del diritto. Solo il diritto si è mostrato come lo strumento capace di salvaguardare la solidarietà, ossia di realizzare una democrazia in grado di includere l’altro senza assimilarlo. Il diritto positivo viene inteso dal sociologo come risorsa funzionale capace di coniugare solidarietà e giustizia. Da qui l’idea della “solidarietà giuridica tra estranei”, ovvero di un’integrazione sociale fondata sul diritto. Il pensiero di Habermas procede in linea con quelle filosofie giusnaturalistiche del contratto che hanno restituito l’idea dell’autoregolazione della società. Una società che si presenta come società giuridica ha bisogno di un diritto che sia interamente riducibile alla società stessa. Il mondo vitale diventa per Habermas quel luogo trascendentale nel quale parlante e ascoltatore si incontrano per trovare un accordo tra le loro espressioni: un “a priori dell’intendersi” affidato alla capacità dell’agire comunicativo. La comunicazione discorsiva si presenta come quel luogo neutro aperto fra individuo e potere, capace di costruire una sorta di dover essere che permette di misurare le diseguaglianze. Dietro il formalismo etico della ragione comunicativa, rimane ancora aperto, il problema sostanziale dell’etica. Se tale teoria sociologica è stata in grado di esprimere un’adeguata rappresentazione delle moderne società, è perché ne ha colto soltanto gli aspetti organizzativi. Dietro la razionalità organizzativa, si presenta ancora la tensione di forze in continuo conflitto tra loro. Habermas finisce per dimenticare la condizione storica della società, e ad elevare a principio generale un modello astratto e formale di inclusione sociale valevole per ogni organizzazione sociale al di là della sua caratteristica storica. Habermas non ha riproposto la questione dell’ospitalità. Egli ha parlato di solidarietà tra estranei come forma di integrazione garantita dal diritto. L’ospitalità, come modo di accoglienza incondizionata dell’altro nella sua alterità, non ha più ragione di essere nominata né discussa. E’ qui che si registra la propensione tipica della nostra epoca, verso la promozione di forme di accoglienza, regolate e limitate dal diritto, prive così di ospitalità. Proprio l’omissione di Habermas la dice lunga sull’incapacità del nostro mondo di ripensare l’accoglienza dell’altro attraverso le forme proprie dell’etica e di riformulare un principio di responsabilità nei confronti dell’estraneo.

Prospettive cosmopolitiche

E’ lo stesso diritto che può fare ancora appello a quelle leggi dell’ospitalità, ovvero a quello spazio di accoglienza che da sempre definisce e regola il terreno di incontro tra estranei. L’ospitalità riconosce a suo fondamento l’esigenza giuridica dell’universale nel comune. L’altro non è altro che, paradossalmente, l’uguale che eleva la sua estraniazione a cifra di identità universale. Quella stessa estraniazione che assume valore di un’appartenenza estensiva, di una cittadinanza universale, nel cosmopolitismo paolino. Secondo l’apostolo Paolo si è cittadini nel mondo poiché si è tutti ospitati nel mondo. In questo modo viene meno la distinzione tra stranieri e residenti, in quanto siamo tutti residenti e stranieri nel nostro universo. Fu proprio San Paolo a ricondurre il tema dell’universalismo alla radice della sua fondamentale esposizione: alla logica simmetrica del diritto e del dovere, scindendo così il politico e la filosofia. Questa scissione toglie al rapporto ospitale il suo supporto giuridico, che ritrova solo nel pensiero moderno. Se per San Paolo la religione soltanto avrebbe potuto creare una comunità universale tra gli uomini, per il giusnaturalismo moderno, solo la Ragione, elevata a principio giuridico, avrebbe potuto svolgere la stessa funzione. Proprio Kant ricondusse il cosmopolitismo entro i margini della legge. Sebbene sia sempre ordinato al confine e alla frontiera, sebbene il suo stesso esercizio giuridico imponga di porre limiti e condizioni alla pratica dell’ospitalità, Kant ha avuto il merito di ripensare un diritto aperto all’estraneo, all’accoglienza dell’altro, un diritto probabilmente irrealizzabile. Bisogna pensare il cosmopolitismo nel modo seguente: realizzazione di una società non più ancorata ad identità definite culturalmente, ma esposta nell’ordine di una diversità permanente; l’universale società degli estranei, degli altri, che condividono universalmente la loro estraniazione. L’ambivalenza del rapporto tra estranei e l’ospitalità come principio giuridico Giorgio Del Vecchio, filosofo del diritto, nel 1902 pubblicava nella un piccolo saggio dal titolo “L’evoluzione dell’ospitalità”. Tra le popolazioni arcaiche l’abbandono volontario del territorio di appartenenza veniva percepito come una violazione degli obblighi del singolo verso la comunità, e questa si difendeva ponendo ostacoli di vario genere, specialmente patrimoniali. Lo straniero quindi si trovava privo di protezione giuridica e nulla poteva invocare a sua difesa se non la forza o l’aiuto divino. Non si trattava di odio contro lo straniero, ma semplicemente egli era fuori dalla legge in quanto fuori dalla propria comunità. Dunque lo straniero non aveva significato politico, era mera individualità, persona fisica e non morale. Proprio a partire da questa situazione, egli assumeva una veste sacrale. Negare asilo ad un forestiero era considerato un atto positivo di crudeltà. L’idea che sotto le spoglie del peregrino si nascondesse una divinità, era stimolo dell’osservanza degli offici ospitali. Nelle società primitive l’ospitalità si manifestava nella forma di beneficio spontaneo come obbligo religioso. A partire dallo sviluppo degli scambi e del commercio, l’istituto dell’ospitalità si modifica profondamente: diventa un negozio, acquistando un valore più giuridico e commerciale. All’originario carattere religioso si sovrappone l’...


Similar Free PDFs