Riassunto Regime di storicità di Hartog PDF

Title Riassunto Regime di storicità di Hartog
Course Storia comparata del pensiero politico
Institution Università degli Studi Internazionali di Roma
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Libro a scelta per l’esame di sistemi politici comparati...


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«Cercando, da storico, di essere attento al mio tempo, ho osservato insieme a molti altri l’ascesa della categoria del presente, fino ad imporsi l’evidenza di un presente onnipresente. Ciò che chiamo qui “presentismo”». François Hartog, Regimi di storicità, Sellerio editore, Palermo, 2007. Ibid. quando non specifico diversamente in nota. Hartog, sulla scia di Koselleck, intende osservare lo specifico rapporto che ogni presente intreccia con il suo passato e il suo futuro, il suo campo di esperienza e il suo orizzonte di attesa. Le tensioni e le articolazioni tra questi mondi della percezione storica, “campo” e “orizzonte” rientrano a pieno titolo nell’area semantica del vedere, diventano oggetti perspicui per la comprensione dei diversi “regimi di storicità”. Quest’ultima nozione costituisce il filo conduttore della sua ambiziosa ricerca, che chiama a sé gli strumenti della storia, della filosofia e dell’antropologia. Se volessimo individuare i tre autori che impersonano più autorevolmente queste tre direttrici nel testo di Hartog, troveremmo lo storico Lucien Febvre, lo storico e filosofo Koselleck e l’antropologo Sahlins. In accordo con il primo sul metodo di fare storia, Hartog pensa che il compito dello storico contemporaneo sia quello di «rispondere alle domande che si pone l’uomo d’oggi». Non si tratta di cancellare il passato, ma «di comprendere appunto in che cosa esso -il passato- differisce dal presente». Koselleck è uno dei principali innovatori del lessico storiografico tedesco del secolo scorso, e per Hartog è irrinunciabile la strumentazione della sua storia concettuale. Marshall Sahlins è il motivo della prima enunciazione della nozione di “regime di storicità”, 1983. Hartog è interessato ad un suo studio condotto sulla particolare forma di storia di alcune popolazioni delle isole Figi, che Sahlins, sulla scorta di Vico, definisce eroica. Figi rappresenta il paradigma della storia eroica, ma ciascun ordine culturale ha la sua propria storicità, ovvero, il passaggio risulta chiaro, il suo proprio regime di storicità. Utile «per comparare tipi di storia diversi, […] per mettere in luce i modi di relazionarsi al tempo: le forme dell’esperienza del tempo, qui e altrove, ieri e oggi: le maniere di essere del tempo», più che una nozione, quindi, il regime di storicità esprime una modalità di relazione con la storia alternativa a tutte le “cronosofie” che ambiscono a descrivere un continuum evenemenziale. Hartog non si misura con la disordinata materia storica e neppure con la rappresentazione storiografica di forme soggettive discrete e consapevoli, ma colloca la sua riflessione su un piano presupposto dalla storiografia stessa: la domanda che si pone non è infatti quale historia rerum gestarum sia possibile o preferibile, bensì quali siano le sue condizioni di possibilità, se ci sono, e quali le percezioni della temporalità. Diverse concezioni del tempo implicano diversi regimi di storicità, si tratta quindi di osservare il rapporto stabilito in contesti spaziotemporali diversi tra uomo e tempo. Uno dei riferimenti teorici più importanti a questo proposito non può che essere Giambattista Vico, a cui il nostro autore, che ha una letteratura di riferimento prevalentemente francese, non tributa però molta importanza. Vico ha il merito di comprendere, per primo, come a diversi stadi di sviluppo della mente umana corrispondano diverse modalità di rappresentazione del tempo, dello spazio, del linguaggio e dei costumi sociali. L’umanità primitiva ed eroica, che Hartog chiamerebbe il regime di storicità eroico, possedeva una fantasia robusta e corpulenta che traduceva in un articolato sistema di miti e lingue poetiche, mai perduto nelle modificazioni della mente umana, ma andato progressivamente rarefacendosi col farsi astratto dell’intelletto. Il modo di pensare mitico di questa umanità del senso, di questo mondo di eroi e dei coinvolgeva tutte le produzioni e le rappresentazioni. Lì la metafora era l’immediatezza dell’atto o gesto poetico creativo, precedeva la designazione come atto di appropriazione del mondo: Achille era allora ogni uomo coraggioso e ogni tuono era Zeus.

Regimi di storicità La breve digressione sul mondo eroico di Vico dovrebbe averci aiutato a comprendere quale complesso registro di rappresentazioni ruotano intorno a un regime di storicità. Il compito di Hartog, storico della storia, come si autodefinisce, è tuttavia quello prescrittogli dal già ricordato Febvre, nel suo editoriale del 1946 “Face au Vent”, ovvero parlare al presente: «Finito il mondo di ieri. Finito per sempre. Se abbiamo una possibilità di cavarcela, noi Francesi, essa consiste nel comprendere più velocemente e meglio degli altri questa evidente verità. Lasciate il relitto. In acqua, vi dico, e nuotate saldi». Il richiamo di Lucien Febvre è iscrivibile nel regime di storicità cosiddetto moderno: la Francia deve affrontare la ricostruzione, “il vento” del futuro scuote di senso il presente, dirada le nubi di un passato da dimenticare e rinvigorisce le aspettative degli uomini. L’urgenza di parlare al presente dello storico che scrive nella Francia del ’46 è tradotta da Hartog nell’esigenza di avere a tema il suo presente, il presente ipertrofico della nostra contemporaneità. I tre fondamentali regimi di storicità che individua Hartog nel corso della trattazione sono tutti presenti qui: il regime passatista, solo evocato, il regime modernista, e il presentismo. Risulta piuttosto autoevidente quale sia, di volta in volta, la posta in gioco: la centralità di uno dei fattori, passato-presente-futuro, rispetto al presente stesso. 1. regime passatista: è il passato che domina sul presente, la storia è esemplare e ciclica, magistra vitae. 2. regime modernista: è il futuro che rischiara il presente con le sue “magnifiche sorti e progressive”. 3. presentismo: un presente dilatato e monodimensionale che rincorre se stesso e mette in moto tutta una serie di meccanismi di autoriproduzione sterile. Procediamo con ordine, cercando di collocare temporalmente il succedersi di questi regimi di storicità; non si tratta di trovare principio e fine di un’entità metafisica, quanto piuttosto di orientarci, attraverso di essi, sulla linea del tempo. Il modello dell’historia magistra risale a Cicerone, ma è anteriore alla sua teorizzazione ed avrà fortuna fino alla seconda metà del XVIII secolo, quando la Rivoluzione francese si ritaglierà tra tutti gli eventi il ruolo di unicum, di evento che fa epoca, rompendo la ciclicità della storia esemplare e dei modelli da imitare. «L’historia magistra riposava sull’idea che il futuro se non ripeteva esattamente il passato almeno non lo eccedeva mai. Ci si muoveva, difatti, all’interno del medesimo cerchio, con la stessa Provvidenza o le stesse leggi e in tutti i casi, con uomini dotati della stessa natura umana». Il regime dell’historia magistra trova terreno fertile nel Cristianesimo, nella misura in cui entrambi si rivolgono a un passato, con una differenza: il passato dei cristiani dischiude un orizzonte figurale che ha da compiersi e la venuta di Cristo redime e rende nuove tutte le cose. All’interno di uno stesso ordine temporale coesistono inevitabilmente permanenze e crisi, esattamente come Vico aveva notato a proposito del passaggio dai “parlari” poetici al discorso logico-razionale, passaggio che non avveniva bruscamente, ma manteneva consistenti aspetti di continuità: «come i grandi rapidi fiumi si spargono molto dentro il mare e serbano dolci l’acque portatevi con violenza del corso», così il linguaggio poetico primordiale si prolunga «per […] lungo tratto dentro il tempo istorico». Anche la cesura della Rivoluzione francese è stata meno violenta di quanto si possa pensare, specialmente se si

richiamano alla mente autoritarie figure politiche, forme di occupazione territoriale, e curiosi gemellaggi culturali del nostro panorama novecentesco che hanno cercato legittimazione nei modelli offerti dal passato. Con il regime moderno di storicità la storia ha dismesso la sua ciclicità e ha assunto un procedere lineare che ha fatto, vuoi del progresso morale e tecnico del genere umano, vuoi della rivoluzione dei popoli il suo eschaton secolarizzato. Il passato è solo funzionale all’interpretazione del corso storico, è il passato della Nazione, del Popolo, della Repubblica, della Società o del Proletariato. Le prime avvisaglie di sfiducia nei confronti del regime moderno di storicità si hanno a partire dagli anni sessanta, Hartog ne propone una carrellata: il XX congresso del PCUS, Praga nel ‘56 prima, ancora Praga nel ’68; a Parigi, nello stesso anno, i muri che chiedono «Tutto, subito!»; si sfalda l’idea rivoluzionaria, sopravviene una grave crisi economica a metà degli anni settanta, i Sex Pistols cantano “No future”, e siamo nel ’77, fino all’89 e alla caduta del muro di Berlino. 1789-1989, due secoli di regime moderno di storicità si concludono con l’abbattimento dell’orizzonte di attesa e con l’emergenza del presente, nuovo orizzonte e campo d’esperienza. Il presente occupa tutto lo spettro visivo, «senza futuro, senza passato, esso genera, giorno per giorno, il passato e il futuro di cui ha giorno dopo giorno bisogno, e valorizza l’immediato». Che cos’è allora il presentismo: «Esperienza contemporanea di un presente perpetuo, impalpabile e quasi immobile […]. E’ come se non ci fosse altro che presente, una specie di vasta distesa d’acqua agitata da un incessante sciabordio. Conviene allora parlare di fine o di uscita dai tempi moderni […]? Non ne sappiamo ancora niente. Di crisi sicuramente. E’questo momento e questa esperienza contemporanea del tempo che designo come presentismo». Infatti si ha sempre più «a che fare con un passato dimenticato o troppo ricordato, con un futuro che è quasi scomparso dall’orizzonte o con un avvenire prevalentemente minaccioso, un presente ininterrottamente consumato nell’immediatezza e quasi statico e interminabile, se non eterno». Sono tre le parole chiave individuate da Hartog per descrivere il regime presentista: memoria, patrimonio e commemorazione; aggiungerei che queste descrivono la sintassi dell’articolazione tra presente e passato nella nostra contemporaneità, mentre nei confronti del futuro si delineano altri due modelli di comportamento, frutto del timore con cui si guarda all’avvenire, questi modelli sono la responsabilità e la precauzione. Per quanto riguarda la prima serie di parole chiave, Hartog affronta analiticamente il cambiamento del paradigma della memoria: «da ciò che bisognava ricordare del passato per preparare l’avvenire voluto, essa è ciò che rende il presente presente a se stesso»; passa allora in rassegna gli autori, soprattutto francesi, che mettono la memoria e i luoghi della memoria al centro dei loro studi, ed individua nella memoria uno dei più potenti strumenti presentisti, quello che più contribuisce alla creazione dell’identità del presente, con i suoi archivi, i suoi luoghi e le sue commemorazioni. Lo stesso accade con l’idea di “patrimonio”, indice di una preoccupazione per la conservazione nel presente e di uno stato di crisi. «Nel corso degli anni il patrimonio si è imposto sempre di più come una categoria onnicomprensiva e totalizzante della vita culturale e politica pubblica. Ma il patrimonio indica lo stato “al presente” dei beni, da conservare appunto, senza aperture al futuro». La preoccupazione per la salvaguardia, la conservazione e la museificazione del patrimonio si è

attestata ovunque come auspicabile atteggiamento di buon governo, entrando a far parte del discorso politico progressista. Più che annoverare ciò che si ha, ciò che si possiede, il patrimonio circoscrive ciò che si è, è un vettore portante dell’identità di una nazione, definisce quell’identità e la riempie di contenuti. Ecco allora che si moltiplicano gli ecomusei e le aree naturali protette, si stila una lista di animali e vegetali in via d’estinzione e si fanno campagne per concorrere alla loro salvaguardia, si inneggia al mito del naturale, del selvaggio, dell’inappropriabile, senza tener conto che la nozione di patrimonio vi si oppone semanticamente; a ben guardare, ogni intervento dell’uomo a tutela della natura è un’intromissione nella naturalità della natura. Il fatto stesso che si parli della necessità di tutelare un patrimonio implica una diversa percezione del futuro che grava minaccioso sulle aspettative del presente. Le fiducia riposta nel progresso della tecnica e della scienza non fa pari con la preoccupazione per le disastrose conseguenze potenziali di cui quella tecnica può essere portatrice. «Del futuro si cerca di arginare l’incombenza, si cerca si anticiparne le mosse per intralciarne i pericoli». Da qui nasce l’esigenza di commisurare gli imperativi etici della nostra contemporaneità con il potenziale distruttivo della nostra tecnica, le risposte che la filosofia e il diritto offrono sono descritte nei termini di “principio responsabilità” e “principio precauzione”. Il punto di partenza del principio responsabilità è analogo a quello del principio di precauzione: la presa di coscienza dei pericoli ai quali ci espone il potere tecnoscientifico dell’uomo a livello cosmico e l’esigenza etica di valutare (teleologicamente) il rischio delle conseguenze delle azioni umane nei confronti della natura. L’euristica della paura (Jonas), l’anticipazione della minaccia, ossia dell’incertezza della continuità della specie umana e della sopravvivenza della stessa vita sulla terra, la domanda sul destino degli altri e della sorte del nostro pianeta, divengono oggetto preciso di responsabilità, formulata dall’imperativo: “agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra” o, in senso negativo “agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita”. Jonas sottolinea come sia proprio la minaccia all’identità umana la principale causa che ha sollecitato l’emergere della consapevolezza del valore della salvaguardia dell’identità antropologica (riconosciamo indirettamente cioè il valore alla luce del disvalore che immediatamente percepiamo). La sfida del nostro presente è farsi carico di questa responsabilità, che possa diventare seriamente un nuovo modello di azione piuttosto che un pretesto per l’inazione. Del futuro abbiamo bisogno, sia come orizzonte di progettualità politica, sia come principio di speranza, rinunciarci per abbassare lo sguardo sul presente ci renderebbe colpevoli di non aver colto la posta in gioco del paradigma della responsabilità. Jonas lo pensa a partire dall’archetipo ontogenetico e filosofico del rapporto genitore figlio, ma noi possiamo anche fare astrazione dalla dimensione della genitorialità, per trasporlo nel campo della storia e delle generazioni future, nei confronti delle quali il presente deve corrispondere scelte responsabili. Immaginare il futuro è un esercizio che negli ultimi anni è stato abbandonato dagli studiosi di scienze umane, più frequentemente è stato tuttavia praticato da economisti e statistici, è diventato uno strumento micidiale nelle mani delle agenzie di rating, che assegnano outlook negativi o positivi ai paesi e agli istituti di credito valutati. E’ senso comune che sia praticamente impossibile effettuare previsioni a lungo termine, e se questo può essere vero per la piccola impresa che si trova a fronteggiare gli ondeggiamenti nauseanti del mercato, non può esserlo per i governi europei, che affastellano correttivi su correttivi incapaci di dare

realtà al progetto comunitario, la nostra prima responsabilità nei confronti delle generazioni future. La mia analisi si spinge certamente oltre la lettera di Hartog, perché il suo testo è capace di osservare molto criticamente il tempo presente, la particolare temporalità del presentismo, ma rimane impantanato nella sua stessa costruzione trascendentale: descrive le condizioni di possibilità della nostra attuale esperienza del tempo ma le cristallizza e non ne osserva le contraddizioni interne esistenti, le vie di fuga, la loro continua ibridazione. Ad Hartog manca, in definitiva, un po’ di sano storicismo per accorgersi che anche il regime di storicità del presente, per quanto pervicace, è pur sempre un prodotto dell’uomo, ha esso stesso una sua storia filologicamente ricostruibile e come «Questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana». Forti di questa consapevolezza assume tutto un altro sapore la chiusa del testo: «Questo, dunque, sarà il volto del presentismo di questo presente: il nostro.»...


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