Saggio Guglielmi \"Tradizione del romanzo e romanzo sperimentale.\" PDF

Title Saggio Guglielmi \"Tradizione del romanzo e romanzo sperimentale.\"
Course Letteratura italiana otto-novecentesca (laurea magistrale)
Institution Università degli Studi di Milano
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Tradizione del romanzo e romanzo sperimentale, Guido Guglielmi Il romanzo ottocentesco è antiletterario. Il realismo di Manzoni o il naturalismo di Verga non hanno a modello la letteratura, ma la storiografia o la scienza. La loro peculiarità è quella di rivendicare contenuti a scapito di negare l’arte. Questi modelli, frutto di ideologie romantiche e positivistiche, vengono meno sullo scadere del secolo: la reazione è quella di rivendicare l’arte come principio assoluto, rinnegando l’aderenza della letteratura al vero. il romanzo d’Annunziano è fortemente letterario e si fonda su libri del passato ridotti alla loro quintessenza poetica. al comune denominatore estetico. Del libro del passato non si riprendono i valori etici, ma se ne fa un uso estetico-emozionale. Reagire contro l’estetismo, senza cadere nelle vecchie formule, è l’obiettivo del nuovo secolo. il romanzo del nuovo secolo segna un ritorno al realismo, ma con avvertitissima consapevolezza artistica. Di fronte a una realtà che non è più quella ottocentesca è compito della letteratura rintracciare novità formali che la rispecchino. Il romanzo ottocentesco tende all’organizzazione degli eventi e alla loro intellegibilità, seppur nella loro complessità di intreccio. L’obiettivo è quello di dare una rappresentazione d’insieme della realtà secondo precise griglie (quella storica e naturalista su tutte). Il punto di vista è largo, ma unitario: ad essere implicita è l’idea platonizzante di verità e assoluto della concezione romantica o l’idea di una conoscenza rischiarativa del fenomenico di carattere postivista. Il romanzo novecentesco sperimentale segna la crisi di questa idea di verità. Le trame si fanno ambigue, alle storie e a i caratteri mancano lineamenti epici e spesso manca una conclusione. È una realtà che non può più riconoscere sè stessa e non può più ricomporsi nella concisione della forma. Al romanzo non interessa più l’integrità dell’oggetto, ma la sua scomposizione. L’immagine sintetica scade a stereotipo e l’attenzione al dettaglio diviene la via di una nuova comprensione del mondo. È questa data una lettura in chiave positiva: il romanzo novecentesco è l’espressione di un diverso modo di problematizzare la realtà. Vi sono state letture in chiave negativa, come la linea critica di Lukacs, che hanno letto in esso la decadenza del romanzo tradizionale, espressione di una disperazione storica, espressione di una disperazione storica per la perdita dell’essenziale, ovvero un senso unitario all’immanenza. A prevalere è la prima linea critica: il mondo di cui parla il romanzo è un orizzonte e può sopportare molte configurazioni perché le oltrepassa tutte. Le modificazioni della struttura romanzo, nell’esperienza italiana, sono da rintracciare nelle opere di Pirandello, Svevo e Gadda. • Anzitutto a mutare è l’idea di dialettica: nel pensiero classico la contraddizione tra elementi opposti si estrinseca per poter raggiungere un tertium, un superamento e una nuova sintesi. Il romanzo classico allora sarà dinamico, ma essenzialmente chiuso. Il romanzo sperimentale ha un’idea di dialettica opposta: la contraddizione non è necessariamente risolta e i punti di vista possono essere molteplici. • Accanto all’idea di dialettica muta coerentemente anche quella di tempo. Il personaggio classico è impegnato in un’esperienza che conduce a un fine che potrà essere raggiunto o meno. Il raggiungimento o meno dell’obiettivo rappresenta un punto di sintesi. Il tempo è in questo caso un ostacolo a tale fine e l’utopia del personaggio è quella in qualche modo di sottrarsi al tempo. Il tempo del romanzo sperimentale è invece, incompiuto. Ad avere fine potrebbe essere il mondo, ma ogni storia dell’uomo è essenzialmente irrisolta. Ora ci occuperemo delle peculiarità del romanzo sperimentale attraversando l’opera di ogni autore che Guglielmi annovera tra gli sperimentali. PIRANDELLO Un riferimento imprescindibile è il suo saggio Umorismo (1908), essa segue la pubblicazione de “Il fu Mattia Pascal” (1904) nel quale veniva messa in discussione ogni forma di identità, dichiarando il proprio spirito critico contro ogni verità dell’ordine sociale. Il saggio sull’umorismo può essere considerato il manifesto di

questa nuova prosa. Ci viene detto che il personaggio non è mai unitario e non può aspirare ad esserlo, come avviene nel romanzo ottocentesco: il personaggio è diviso e plurimo e vive dei compromessi tra le sue personalità. Il principio è quello di contrari che non si risolvono, della dissonanza che nel linguaggio pirandelliano è il sentimento del contrario. L’umorismo nasce dal fatto che nessuna parola può essere monologica, non è tragica e non è comica, ma umoristica ovvero strutturalmente discordante e doppia. Per essere chiari sia la parola tragica che quella comica presuppongo un principio/ordine unitario trasgredito e rispecchiano un solo punto di vista rispetto agli eventi, la parola umoristica è bivoca, può affermare e negare insieme e i due punti di vista sarebbero a pari livello. Nella poetica umoristica la passione della verità non si estingue, ma si sentimento del contrario. La poetica umoristica è quella di un decentramento della verità. I principali romanzi di Pirandello che seguono la pubblicazione del 1904 rispettano la medesima poetica; I quaderni di Serafino Gubbio operatore (1916), Uno nessuno e centomila (1926) sono romanzi umoristici. il massimo acquisto di verità, per Pirandello sta nella perdita di sé, nel considerarsi in divenire. Il personaggio del romanzo classico si muove nel tempo, il personaggio pirandelliano vede il tempo agire su di lui. La temporalità è una dimensione interiore del personaggio che per tale ragione è irrealizzato e tale dimensione è un dato invalicabile e strutturale. La parola conclusiva, come osserva Bachtin, non viene data per principio, poiché un’ultima parola monologica sarebbe una menzogna. La verità, nella realtà contemporanea, non può essere un possesso, ma una direzione: è una verità che si afferma in un contesto polifonico. Ogni parola è bi-accentata, la verità è il dibattito sulla verità. Ecco perché i romanzi sono inconclusi, perché il punto di vista dei romanzi non può più essere onnicomprensivo. Il romanziere del Novecento è consapevole che non si può stare nel mondo e al contempo disporre di uno sguardo che lo abbracci nel suo insieme; l’esperienza è sempre un’esperienza finita e non generalizzabile. SVEVO La produzione di Svevo si compone essenzialmente di tre pubblicazioni: “Una vita” (1982); “Senilità” (1898) e “La coscienza di Zeno” (1923). La più significativa e compiutamente umoristica è la terza opera. La totalità dell’opera si presenta come aperta, non abbiamo sequenze teleologiche e in ogni capitolo si rifrange la vita del personaggio. Lo stesso decorso temporale non va mai da un prima a un poi, ma in ogni momento c’è un’interferenza di tempi, di passato, presente e futuro. Ogni momento diviene un tutto che si carica di memoria e presentimenti. Il personaggio in un simile romanzo non può assestarsi in una forma ed è essenzialmente in contraddizione con sé stesso e nel rapporto con gli altri. In Zeno convivono verità e menzogna e c’è una sottrazione a una tonalità dominante, scartando il concetto stesso di salute ideale. Anche in questo caso non c’è un’ultima parola al romanzo, una risoluzione poiché il racconto del mondo non può avere fine. L’immagine finale della morte della terra accoglie la sola possibilità che possa finire il mondo, che la parola fine la metta solo lo spegnimento del mondo stesso, la sua deflagrazione. In Svevo vediamo compiuto il passaggio alla modernità, poiché in lui decade l’idea canonica di classicità. Classico significa normale o per lo meno indica un’ideale di normalità e su tale base è stata a lungo valutata la storia. Essa era stata letta in relazione allo scarto da quel paradigma della tradizione. La caduta del paradigma fa sì che venga meno un’ideale a cui approssimarsi aprendo il campo alla sperimentazione. La modernità è anzitutto l’impossibilità di uno stile unitario per assenza di valori a cui approssimarsi e un fortissimo conflitto di punti di vista. GADDA Lo sperimentalismo di Gadda prende le mosse da un principio di razionalità: si comincia a scrivere perché si possa applicare un correttivo al disordine del reale. Il reale per Gadda è instabile come rappresentato nei due romanzi “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” (1957) e “La cognizione del dolore” (1963). Nei due romanzi abbiamo due morti enigmatiche, emblemi del disordine del mondo che non vengono risolte, quasi in una parodia del giallo. Per Gadda scrivere non equivale a vincere il disordine, significa tentare di dare un ordine che è precario. Sono esperimenti, carte di orientamento, non la rivelazione di un mondo che è essenzialmente disordine. Anche per Gadda la morte è il confine del racconto e attestazione di una colpa,

senza colpevole. L’assassino non può essere trovato per principio, ogni ordinamento/ricostruzione è provvisorio e non risolve il caos del mondo. Nel racconto di Gadda viene immesso ciò da cui il racconto trae principio, egli fa oggetto di inchiesta il caos da cui nasce il bisogno di scrivere. Da qui la necessità che i suoi romanzi siano frammentari e inconclusi. Per Gadda all’inizio c’è la morte/il non essere/ il caos che è un enigma con infinite soluzioni, pertanto il racconto si destruttura e si decentra, facendo sì che la narrazione proliferi lateralmente. Perso lo statuto di unità e centralità la ricerca scompositiva è essenzialmente un’esplorazione di mondi: questi mondi per Gadda sono le lingue del reale. Nel caso di questo autore si parla di impiego spastico della lingua, una parola che dichiara la sua parzialità e connette punti di vista. L’idea di verità che sottende al lavoro artistico gaddiano è di tipo officinale: di instabilità e di sperimentazione senza risoluzione. Egli procede aggrovigliando i fili con un principio opposto a quello dell’economia dei mezzi e della compiutezza dell’opera. Il Novecento non comprende solo romanzi di nuova struttura, ma anche opere che non sono affatto sperimentali. A dire il vero, la maggioranza dei romanzi che ha prodotto possono dirsi neottocenteschi. Pensiamo al lavoro di Riccardo Bacchelli (“Il mulino del Po”, 1938-40), inscritto nell’estetica neoidealista crociana. Al contempo si sviluppava una narrazione come quella di Giuseppe Antonio Borgese (“Rubè”, 1921), consapevole della crisi e del decadimento sociale e psichico di un intellettuale. Una prosa, la sua, che ricercava un nuovo tipo di realismo che ponesse in primo piano l’interpretazione della realtà storica. Chi ha privilegiato una prosa a carattere espressionista è stato Federigo Tozzi (“Con gli occhi chiusi”, 1919): egli accosta rapidi quadri caratterizzati da punti di vista diversi a volte deformanti; spesso i particolari appaiono dilatati e il flusso temporale sconnesso. È per questo che, personalmente, mi inserisco nella linea interpretativa che lo vuole uno scrittore altamente sperimentale. Guglielmi sceglie di inserirlo in continuità con il romanzo ottocentesco in relazione alla problematica del personaggio, tutta rurale e urbana. Il Novecento conosce anche lo sviluppo, e non la sola ripresa, del romanzo tradizionale. Sono tutte quelle espressioni che rifiutano la strada sperimentale per fondare una nuova identità, un nuovo fondamento. È un romanzo di tradizione nel Novecento quello che si cala nelle zone enigmatiche del reale ponendosi il problema di fornirne un’interpretazione congeniale alla continuità e all’unità della storia. Ciò che è stato considerato fino ad ora, romanzo sperimentale o meno, è da inserire in un filone di narrativa a dominante realistica. Nel Novecento esiste, però, un filone narrativo che magico e metafisico. Un esempio calzante di racconto magico e surreale è rappresentato dal “Codice di Perelà” (1911) di Aldo Palazzeschi. Il racconto per sua natura si pone al di là delle leggi di natura e contraddice ogni principio di consequenzialità. I suoi personaggi sono invenzioni metafisiche poiché Perelà è un uomo di fumo, insostanziale. La sua funzione nel testo è quella di farsi portatore di mondi possibili che interagiscono con la pesantezza della realtà. Nella prospettiva di Palazzeschi l’interazione è contraddittoria e non si risolve: la realtà non si lascia rifondare dalle possibilità offerte da mondi irreali, ma tuttavia non può fare a meno di nuovi mondi irreali che la destabilizzino. Egli non è interessato a proporre attivamente un nuovo ordine, come Marinetti, ma vuole corrodere ogni ordine per creare spazi di irregolarità e di libertà nella compattezza dei mondi reali. Esempio, invece, di narrazione metafisica rappresentata da Alberto Savinio che parte da situazioni quotidiane e le proietta grottescamente sullo schermo della lingua dei miti. I miti sono comicizzati e deconfigurati collocandoli in uno spazio favoloso. Di scrittura magica e surreale (=realismo magico) parliamo anche nel caso di Massimo Bontempelli, ma egli si distacca dalle favole metafisiche per l’assenza della dimensione del tempo. L’idea poetica che lo guida è quello dell’introduzione dell’inverisimile nel verisimile, assumendo le caratteristiche del secondo termine: di fronte alla caduta delle vecchie mitologie egli produce nuovi miti rendendo plausibile il fantastico, scrivendo un inverisimile quotidiano. Il suo sperimentalismo ha avuto una serie di conseguenze e sviluppi; si forma una regione del fantastico di area bontempelliana/novecentista in cui annoveriamo autori come Cesare Zavattini, Dino Buzzati e Tommaso Landolfi. Nei testi di Landolfi si coglie una pulsione autodistruttiva che rinvia a grandi opere del periodo romantico o ai romanzi di Dostoevskij; romanzi che si ispirano ai racconti gotici. Testi surrealisti sono quelli

di Antonio Delfini (“Ricordo della Basca”, 1956) le cui posizioni ideologiche sono di ostentata incoerenza, esprimono risentimenti e reazioni di chi si sente offeso dal mondo. Nel 1929 escono “Gli indifferenti” di Alberto Moravia e con lui la linea narrativa prende una nuova direzione. Essa è un’opera di realismo singolare, diremmo “senza storia” perché priva di agganci a un tempo definito. Egli è uno scrittore di comportamenti, mette in evidenza i gesti. C’è in lui un accanimento nel mettere a nudo i meccanismi del personaggio, essenzialmente mosso dai suoi bisogni (sesso, denaro) in maniera prevedibile ed esatta. La realtà sembra vincere senza contrasto contro il personaggio. Il protagonista Michele aderisce alla realtà, ma ha sempre la sensazione di giocare un ruolo e questo è il suo lato esistenziale. Moravia si rivela un attento interprete dell’interiorità che non un realista a tutti gli effetti. Negli anni successivi il giovane scrittore continuerà a pubblicare abbondantemente senza decidersi per un unico stile. Nel 1944 scriverà “Agostino” che chiude una prima stagione moraviana; seguono opere legate alla storia italiana del dopoguerra come “La Romana” (1947) e “La Ciociara” (1957). il testo del 1957 può dirsi il suo unico vero tentativo di scrivere un romanzo neorealistico. In genere Moravia resta, però, fedele a un tipo di rappresentazione fredda e corrosiva, sempre un poco perversa. In conclusione, tra le due guerre abbiamo avuto direzioni di narrativa differenziate. Tra queste a un certo punto ha assunto un rilievo significativo il neorealismo: un movimento poco unitario che ha inizio, convenzionalmente, con l’opera prima di Moravia. Il neorealismo parte dallo spessore dei fatti e non dubita mai di essi, non si interroga sulla categoria di realtà, ma la assume come un dato. Il focus è, allora, sui contenuti. Questa poetica presuppone una ricostruzione di senso e un ritorno alle forme tradizionali del romanzo. Scrittori neorealisti sono Vasco Pratolini, Carlo Levi, Cesare Pavese ed Elio Vittorini. Uno scrittore a parte, dalle esigenze convergenti fu Ignazio Silone, autore di “Fontamara” (1934). Essi vollero proporre una letteratura che rivelasse il paese reale e fosse impegnata sul fronte civile. I fatti del neorealismo non sono i fatti dei narratori naturalisti: il taglio narrativo è scorciato e il montaggio delle scene più veloce (=influenza del cinema). L’intero movimento ha un orientamento etico, si vive in connessione con i problemi della società italiana. Nel gruppo è possibile individuare due filoni: • Un gruppo di scrittori che lasciano sospese le tensioni del personaggio e non le risolve secondo linee precostituite •

Scrittori che vogliono essere immediatamente comunicativi

Alla prima linea appartiene Romano Bilenchi, la cui narrazione lenta e priva di tensione drammatica; il protagonista delle sue vicende beneficia di una salutare distanza dai fatti. Ciò consente all’autore di dare una visione gremita di fatti. Autore neorealista fu anche Cesare Pavese, ma la sua prosa aveva carattere altamente lirico-drammatica. Nelle sue opere rientra sempre il mito, in quanto fondo primitivo e inconscio. Potremmo dire essere un neorealista non tra i più osservanti: gli elementi della cronaca vengono reinterpretati in una prospettiva mitica. Tra i neorealisti annoveriamo Elio Vittorini, siciliano emigrato, autore di “Conversazione in Sicilia” (1941). Si tratta di un romanzo a sfondo simbolico-allegorico nel quale il rientro in Sicilia del protagonista assume i connotati di una riflessione e le figure del romanzo. Il connubio attivato da Pavese e Vittorini tra realismo e simbolismo è frutto del loro lavoro di traduttori della letteratura nordamericana. Nello sviluppo successivo, la narrativa italiana si sviluppa secondo diverse linee. Il primo nome da fare è quello di Elsa Morante la cui opera d’esordio porta il titolo di “Menzogna e sortilegio” (1948), segue “L’isola d’Arturo” (1957), “La storia” (1974) e “Aracoeli” (1982). I suoi romanzi presentano una crescita abnorme dell’elemento fantastico e la collocano fuori dall’area del neorealismo. Alla realtà sono più interessate le linee poetiche rappresentate da Carlo Levi, Vasco Pratolini, Anna Maria Ortese, Carlo Cassola, Giorgio Bassani, Beppe Fenoglio e Tomasi da Lampedusa. Documenti dal carattere testimoniale, fedelissimi alla realtà sono quelli di Primo levi in merito all’esperienza dell’Olocausto. Alla linea realista sono ascrivibili alcune opere di Italo Calvino. Gli interessi che vengono avvertiti come dominanti nel dopoguerra sono gli

interessi politici. Sul contrasto nato tra funzione politica della letteratura e subordinazione della letteratura alla politica una nuova generazione di scrittori tenta una nuova poetica. Pier Paolo Pasolini e Paolo Volponi vogliono andare incontro alle nuove esigenze di razionalità e comunicabilità. Pasolini critica i vincoli troppo stretti del neorealismo ideologico. Gli anni Sessanta sono anni di intenso sperimentalismo con l’istanza della Neoavanguardia gruppo ’63. I romanzi di rottura più spiccata sono attribuiti a Edoardo Sanguineti, Giorgio Manganelli e Giuseppe Pontiggia. Allo scrittore d’avanguardia non interessa il racconto, ma la violenza fatta al racconto. Nel frattempo, Pasolini e Volponi non rinunciano alla ricerca di una comunicabilità e di una ricostruzione di un senso comune. Volessimo tratteggiare il panorama del romanzo oggi dovremmo prendere le mosse dal testo di Calvino “Se una notte d’inverno un viaggiatore” (1979). È da qui che riconosciamo un vivo interesse per una scrittura che sia metanarrativa, dove il raccontare è oggetto del racconto. in questo orizzonte si muovono anche Antonio Tabucchi e Umberto Eco. La più grossa novità del romanzo di oggi è costituito dall’orizzonte comunicativo multimediale. Si tratta di una cultura in cui l’elemento visivo ed emozionale prevale sull’elemento verbale. Questa linea è stata intelligentemente percorsa da Susanna Tamaro con “Va dove ti porta il cuore” (1994). La forza del libro oggi dipende dal mercato e sta nel suo avere successo....


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