Seghers Transit saggio P. Gheri PDF

Title Seghers Transit saggio P. Gheri
Course Lingua tedesco ii
Institution Università degli Studi di Napoli Federico II
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appunti delle lezioni di grammatica e linguistica tedesca...


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L’ESILIO DEL NARRATORE E IL TRANSITO DELLA LINGUA. TRANSIT DI ANNA SEGHERS Paola Gheri

Il romanzo che più vorrei leggere in questo momento [...] dovrebbe avere come forza motrice solo la voglia di raccontare, d’accumulare storie su storie, senza pretendere d’importi una visione del mondo, ma solo di farti assistere alla propria crescita, come una pianta, un aggrovigliarsi come di rami e di foglie... ITALO CALVINO, Se una notte d’inverno un viaggiatore

1. Un romanzo paradossale Transit gehört zu den Büchern, die in mein Leben eingreifen, an denen mein Leben weiterschreibt, so daß ich sie alle paar Jahre nehmen muß, um zu sehen, was inzwischen mit mir und mit ihnen passiert ist1.

In un breve commento al romanzo di Anna Seghers, che introduce con queste parole, Christa Wolf ne ricorda l’ennesima lettura come un avventuroso viaggio nelle «abissali profondità d[i] una lingua ingannevolmente scarna», sorretta dalla voce di un narratore «pressoché incorporeo [...] che, a quanto pare, per una volta, vuole soltanto “raccontare tutto, dal principio alla fine”»2. Transit è stato scritto, com’è noto, in sincronia con le vicende autobiografiche di Anna Seghers che nell’inverno del 194041 si trovava nella Francia meridionale e, mentre il marito era internato nel campo di Le Vernet, cercava di ottenere i permessi necessari per imbarcarsi e sfuggire alla persecuzione nazista. Secondo le dichiarazioni della stessa scrittrice il libro è nato nella primavera del 1941 sulla nave che, insieme alla famiglia, la portava in esilio verso il Messico e si ispira a queste sue personali esperienze3. La storia si svolge infatti a Marsiglia,

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in un periodo compreso tra il 1940 e il 1941 e, con la voce di un anonimo io narrante, racconta delle vite incerte e smarrite dei profughi tedeschi che, come lei, cercano di emigrare oltreoceano lottando con i disagi e le difficoltà create dall’assurda macchina burocratica dei paesi ospiti. Tuttavia Transit non è soltanto e forse neppure principalmente un romanzo sull’esilio, almeno nel senso storico-documentario che si dà comunemente a questa parola e che la situazione narrata all’apparenza incoraggia. Come ha avvertito Christa Wolf, leggere Transit limitandosi alla sua dimensione storica e politica significa mancare l’avventura simbolica, linguistica e letteraria che contestualmente offre. Transit è anche, o soprattutto, un romanzo sulla lingua poetica e sull’arte di narrare che fa dell’esilio una delle sue più efficaci allegorie. Come romanzo sull’esilio in senso stretto Transit è costruito su un paradosso che, ove non deluda le più comuni aspettative, suscita certamente irritazione e domande. Un giovane profugo tedesco racconta la storia della sua fuga dalla Germania e delle vicende che lo hanno condotto e poi coinvolto a Marsiglia, dove ancora si trova. L’atteggiamento però che assume e mantiene poi per tutto il racconto verso certi drammatici argomenti è sorprendentemente minimizzante e distaccato fino al cinismo. Si dice stufo di ascoltare i profughi e le loro tristi vicende, stufo della loro ansia di partire e delle voci del porto, semmai preoccupato di preservarsi immune dall’ossessione della partenza che tra loro dilaga come una malattia4. Le sue reiterate dichiarazioni di stanchezza, sottolineate da una lingua sobria e priva di pathos, così come dal ritmo lento e regolare della narrazione, intervallano una storia, la sua, che apparentemente resta del tutto simile a quelle che lo annoiano. Il racconto inizia in una pizzeria di Marsiglia vicina al porto, dove l’io narrante cerca di conquistare l’attenzione di un interlocutore il quale, esule e fuggiasco come lui, rimane, come lui, anonimo e senza volto. In questa scena-cornice, che accoglie e racchiude il racconto in una forma circolare, si snoda la storia della sua fuga dalla Germania prima, poi da un campo di lavoro presso Rouen attraverso Parigi fino a Marsiglia, dove ri-

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mane coinvolto in una strana vicenda iniziata nella capitale francese. Qui un amico scrittore, anche lui rifugiato, lo incarica di recapitare una lettera a un collega di nome Weidel, che si nasconde in un albergo di Parigi. Una volta raggiunto l’albergo, il narratore, però, apprende che Weidel è morto suicida e, suo malgrado, ne eredita il bagaglio, contenente un manoscritto incompiuto e alcune lettere. Coperto dai documenti falsi di un certo Seidel e incoraggiato dall’ottusità di un funzionario che lo scambia per il morto, il narratore decide di sfruttare l’equivoco e assumere l’identità dello scrittore. Nel mondo assurdo dei profughi e della burocrazia francese la sua scelta non solo resta credibile, ma acquista per lui una forza determinante. Sotto le mentite spoglie di Weidel il narratore si ritaglierà un ruolo nella storia di cui è diventato personaggio: corteggerà Marie, la moglie del defunto Weidel, e l’aiuterà a partire insieme al suo nuovo uomo grazie ai permessi che ottiene con la falsa identità di Weidel, ritroverà vecchi compagni di prigionia e farà nuove conoscenze, mantenendo però sempre il suo singolare distacco e la sua terribile noia. 2. La noia e le storie L’occasione del racconto è la voce del naufragio di una nave di profughi tra i quali, come si apprenderà poi, si trovano Marie e il suo compagno. Tuttavia, per quanto tragica possa essere, la voce rimarrà, fino alla fine, una delle tante «chiacchiere del porto», una delle noiose storie di profughi che non «riguardano più» (T, 260) colui che racconta: Ich selbst war früher leicht in Sachen verwickelt, über die ich mich heute schäme. Nur ein wenig schäme – sie sind ja vorbei. Ich müßte mich furchtbar schämen, wenn ich die andren langweilte. Ich möchte trotzdem einmal alles von Anfang an erzählen (T, 7)5.

L’indifferenza dell’io narrante verso discorsi che, per quanto gravi, non si preoccupa di verificare, toglie subito peso ai fatti e a ogni loro accertabile verità, spostando piuttosto l’attenzione sulla scena in sé di un uomo che racconta e di uno che

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ascolta cose, come si dice, di scarso interesse (T, 6-7). La casualità dell’incontro con l’interlocutore, l’anonimità di entrambi e l’incognita di una conclusione aperta, che non offre nessuna informazione certa sulle principali figure coinvolte e sul loro futuro, contribuiscono ad accrescere «la simulazione di fondo»6 di un romanzo labirintico. L’avventore, infatti, ascolterà una storia strana, che non risponde affatto alle domande che solitamente si pongono a un racconto: chi è l’eroe, da dove viene e dove va, perché e con quale esito. Il narratore non rivela niente di sé, né il suo vero nome, né le sue origini o il suo passato. Usurpando l’identità di un morto, questo moderno Nessuno è il protagonista doppiamente sconosciuto della vicenda che, nonostante l’ossessivo timore di essere noioso, finisce comunque per raccontare: Sie finden das alles ziemlich gleichgültig? Sie langweilen sich? – ich mich auch [...]. Ich möchte gern einmal alles erzählen, von Anfang an bis zu Ende. Wenn ich mich nur nicht fürchten müßte, den andern zu langweilen [...]. Ich möchte trotzdem einmal alles von Anfang an erzählen (T, 5-7)7.

Con questo timore, proiezione del suo inguaribile ennui, colui che narra introduce uno dei motivi più importanti del testo, a prima vista perché segnala un disagio che sembra affiancarlo ai tanti “uomini senza qualità” della letteratura, non solo tedesca, del primo Novecento. Nessun impegno o interesse, nemmeno l’amore per una donna riesce a guarirlo dal taedium vitae che, come una «malattia mortale» (T, 23), lo perseguita fino alla fine. Costui però non è il solo a dover fare i conti con la vita vuota dell’esule e col bisogno di riempirla narrando. Tutti i suoi compagni di sventura, spesso col medesimo timore, fra un’anticamera e l’altra, raccontano. Paul, l’ex compagno di prigionia, gli narra la propria fuga, la stessa padrona dell’albergo parigino, pur non essendo una profuga, lo annoia con la storia di Weidel (T, 20 s.), ai tavoli dei vari caffè, davanti ai consolati o negli alloggi provvisori degli alberghi di Marsiglia si susseguono personaggi che narrano storie d’esilio e di fughe, pur temendo di annoiare o annoiandosi loro stessi quando ascoltano quelle altrui.

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Il testo ripropone uno schema che ripete continuamente, variando le parti, la scena iniziale. Negli innumerevoli incontri occasionali tra i profughi, la noia, o il suo timore, è spesso ciò che promuove e realizza, come una specie di formula epica, un sottinteso patto narrativo, essa regala cioè una condizione psicologica di debolezza dell’io che, come la stanchezza nel successivo Der Ausflug der toten Mädchen (1946), va a servire le ragioni del racconto. Tenendo in sospensione l’identità soggettiva, certi stati favoriscono, secondo ciò che Benjamin scrive nel saggio sul Narratore e che Seghers ha quasi sicuramente letto8, la «distensione spirituale»9 che è necessaria al narrare. La noia, in particolare, ne rappresenta il «culmine» perché induce ad un oblio di sé grazie al quale l’ascoltatore si dispone a un massimo di ricettività mettendosi in grado di rinarrare a sua volta le storie che sente. La noia è, per Benjamin, l’ormai rara condizione in cui si trovano unite, come le maglie di una stessa rete, «la facoltà di ascoltare» e «l’arte di narrare»10: Die Langeweile ist der Traumvogel, der das Ei der Erfahrung ausbrütet. Das Rascheln im Blätterwalde vertreibt ihn. Seine Nester – die Tätigkeiten, die sich innig der Langeweile verbinden – sind in den Städten ausgestorben, verfallen auch auf dem Lande. Damit verliert sich die Gabe des Lauschens, und es verschwindet die Gemeinschaft der Lauschenden. Geschichten erzählen ist ja immer die Kunst, sie weiter zu erzählen, und die verliert sich, wenn die Geschichten nicht mehr behalten werden [...]. Je selbstvergessener der Lauschende, desto tiefer prägt sich ihm das Gehörte ein11.

Indebolendo la soggettività, la noia, come suggerisce il sostantivo tedesco Langeweile (letteralmente “lunga durata”), rallenta anche l’avanzare del tempo. Essa provoca come una sincope nella storia di cui proprio l’individuo moderno si è fatto artefice, determinando, con la sua prepotente affermazione, il declino di quelle situazioni proto-narrative che, viceversa, si fondavano sulla sua “debolezza”. Con altre parole si potrebbe dire, seguendo la tesi di Benjamin, che le condizioni della narrazione epica, rimossa dal romanzo moderno, sono (state) metaforicamente l’esilio dell’io e il tempo lento della sua noia. Anche in Transit, infatti, il tempo non scorre, in una Marsiglia spettrale, simile a un limbo dantesco, i profughi, che l’esilio ha sospinto fuori dal corso degli eventi, attendono solo, come delle

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«anime dipartite» (T, 104), di essere traghettati «sull’altra riva» (T, 95, 230)12 e, in questa attesa, raccontano. Il drammatico sradicamento dell’esule, soggetto espropriato di ogni connotazione e attività individualizzante, ricrea così le condizioni inattuali affinché si ricostituisca una temporanea comunità di narratori e di ascoltatori e dalle ombre delle individualità negate13 risorga un defunto spirito epico. Nel romanzo di Seghers noia, esilio e racconto si stringono in un nodo che all’amico Benjamin sembra rendere un omaggio ben più alto di quello riconoscibile nell’episodio del suicidio di Weidel14. Come ogni altro evento riferito dal testo, anche questa morte, che richiama il destino tragico di tanti esuli tedeschi, si piega nel romanzo alle supreme ragioni del narrare, diventandone un presupposto e una funzione. 3. L’esilio del narratore e il romanzo nel romanzo Sebbene colui che racconta non abbia mai avuto rapporti con degli scrittori (T, 15), né nutrito un particolare interesse per i libri (T, 101), è l’incontro casuale col manoscritto (che si presume un romanzo) di uno scrittore suicida a deciderne la storia dipanandola lungo un doppio binario di identità negative: quella reale, di cui nulla si dice e quella usurpata di Weidel, che è morto. Neppure del romanzo di Weidel si sa molto; pur avendone subìto il fascino (T, 23 s.), il narratore, per evitare la noia di chi lo ascolta, rinuncia a riferirne in dettaglio il contenuto. Dai pochi vaghi tratti che abbozza si crea però una curiosa analogia con la vicenda che stiamo leggendo, non solo perché il testo di Weidel manca, come Transit, della conclusione (T, 25)15, ma anche perché nel frammento di Weidel il narratore sembra aver incontrato il romanzo stesso di cui è anche personaggio: Das Ganze war eine ziemlich vertrackte Geschichte mit ziemlich vertrackten Menschen. Ich fand auch, dass einer darunter mir selbst glich. Es ging in dieser Geschichte darum – ach nein, ich werde sie lieber nicht langweilen (T, 24)16.

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La rinuncia a riferire la trama del libro torna a sottolineare, come nella scena-cornice, la scarsa importanza dei contenuti a favore della situazione comunicativa stessa e dei percorsi labirintici di un narrare che sempre di più sembra asservire cose e figure a fini suoi propri. Si scarta una storia per dirne un’altra, si abbandona un racconto a favore di un altro indifferentemente (cfr. anche T, 18), in modo che i dati di realtà valgano solo come funzioni occasionali, come pretesti della narrazione che se ne appropria per perpetuare se stessa. Tutte le volte che il narratore rinuncia a narrare, che un racconto si interrompe o una lettera programmata non viene scritta (T, 102), è la lingua che perde un’occasione a vantaggio di un’altra. Quello che conta, come ben sa Scheherazade, è che il narrare non si interrompa. Tramite la simbolica lettera che la moglie gli ha scritto da Marsiglia pregandolo di raggiungerla e che Weidel non fa in tempo a ricevere dal narratore, questi ne continua la storia, recandosi a Marsiglia, spacciandosi per Weidel, corteggiandone la moglie, mentre continua anche quella del manoscritto nel quale ha riconosciuto la propria. Colui che racconta raccoglie l’eredità di Weidel sia sul piano biografico, proseguendone la storia oltre la morte, sia e soprattutto su quello narrativo come continuatio del suo frammento. Il narratore, però, è a sua volta parte di una finzione poetica che altri ha scritto e che, allegoricamente, si riflette nelle cose che racconta, al di là del loro valore documentario o del loro contenuto di verità. Alla letteratura che scrive di fughe, guerre e campi di concentramento questi afferma di preferire la «meccanica di precisione» (T, 222) del suo mestiere di montatore (T, 15) oppure, come dice all’inizio, la storia di «un tornitore che narri quanti metri di filo metallico abbia ritorto nella sua lunga vita» (T, 6). Sono informazioni che, nell’assenza di un profilo biografico e psicologico dell’io narrante, divengono metafore del raffinato ingranaggio del romanzo17, nel quale voci, conversazioni, storie udite e riferite sono montate insieme come in un meccanismo azionato da varie istanze autoriali (Seghers, narratore, scrittore), occasionalmente catalizzate dal-

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la figura anonima di un narratore-montatore che si esaurisce nel suo gesto. Senza volto né nome, questo Nessuno di un’Odissea senza ritorno18 non sembra essere più che un tramite del discorso poetico, una sostanza porosa e transitabile da eventi-parole che non lo riguardano mai direttamente: Ja, alles war immer nur durch mich durchgegangen. Deshalb trieb ich mich auch noch immer unversehrt in einer Welt herum, in der ich mich allzu gut auskannte (T, 220)19.

Talvolta l’anonimo sembra avere addirittura una coscienza della «materia volatile» di cui è fatto, la stessa che compone anche le parole del libro dello scrittore morto: Aus diesem Stoff war also der Zauber des Toten gemacht! Vielleicht aber war das auch nur ich, der aus diesem Stoff gemacht war, der sich verflüchtigte (T, 45)20.

Da qui la sua ostentata indifferenza per i discorsi, le storie e le chiacchiere sull’esilio fino al manifesto rifiuto della letteratura che lo ha per tema. Come confessa al console, spacciandosi per lo scrittore del quale veste i panni: Ich will Ihnen sagen, was ich darüber denke. Als kleiner Junge habe ich öfters Schulausflüge gemacht. Die Ausflüge waren soweit ganz lustig. Doch leider, am nächsten Tag kam der Lehrer und gab uns als Klassenaufsatz das Thema «Unser Schulausflug» [...]. Da kam es mir schließlich vor, ich erlebte den Schulausflug, meine Ferien, Weihnachten nur, um darüber den Klassenaufsatz zu schreiben. Und all diese Schreibenden, die mit mir in einem Lager steckten, die mit mir flohen, für die sind plötzlich die furchtbarsten und die seltsamsten Strecken unseres Lebens bloß durchlebt, um darüber zu schreiben: das Lager, der Krieg, die Flucht (T, 222)21.

Questo rifiuto così drastico di una letteratura di tipo mimeticorealistico si aggiunge alle dichiarazioni con cui Anna Seghers si è opposta alle teorie sul realismo di Georg Lukacs22, mostrandosi come una specifica condanna di quelle opere che intendevano rispecchiare l’esilio in modo diretto. Ma c’è di più. «Il campo di concentramento, la guerra, la fuga» sono anche i temi delle precedenti opere di Seghers (Der Kopflohn, 1933, Das siebte Kreuz, 1942) e dello stesso Transit 23, il cui narratore è, a sua volta, fuggiasco, narratore della propria fuga (capp. 1 e 2) e ascoltatore di quelle altrui, quando non contribuisce addirittura a favorirle. Il suo commento negativo (cfr. anche T, 6) crea

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perciò un circuito di riferimenti inter- e intratestuali che confluirebbero all’apparenza in un’autoaccusa (sua e di Seghers), se non fossero riscattati dalla struttura retorica con cui il romanzo, svuotando le tematiche che pur accoglie, si sottrae alla mimesi e trasforma gli apparenti dati di realtà in allegorie di una lingua poetica che non sa, o non intende, riferirsi che a séstessa. «Non appena un fatto è raccontato, per fini intransitivi, e non più per agire direttamente sul reale [...] la voce perde la sua origine»24, scrive Roland Barthes, e la mano dell’autore «staccata da qualsiasi voce, guidata da un puro gesto di inscrizione (e non di espressione), traccia un campo senza origine – o che, per lo meno, non ha altra origine che il linguaggio stesso»25. Narratore e scrittore tendono a sovrapporsi in una terra di nessuno che nella Marsiglia desolata dei profughi tedeschi trova la propria congeniale allegoria. Il movimento della lingua poetica trascende le loro rispettive identità a vantaggio della funzione che rivestono e della quale i pochi (fittizi) fatti biografici sono a loro volta un’allegoria: entrambi sono narratori in esilio, legati da un nome quasi uguale26 e da una stessa donna che, figura più mitico-leggendaria che reale27, discende a sua volta dalla lingua di narrazioni anteriori: [Ich] betrachtete [...] Mariens Gesicht, so still im Abendlicht. Sie mußte schon tausend Jahre an diesem Fenster gesessen haben, in kretischen und phönizischen Tagen, ein Mädchen, das vergebens nach seinem Geliebten späht unter den Heeren der Völkerschaften, doch diese tausend Jahre waren vergangen wie ein Tag. Jetzt ging die Sonne unter (T, 198-199)28.

L’esilio (o la morte) dell’istanza autoriale libera il movimento del linguaggio e gli consente di rispecchiarsi in ogni punto della finzione letteraria: come Seidel prolunga la scrittura di Weidel, la donna, richiamando il luogo mitico dell’amata che cerca lo sposo, riprende e continua un racconto antico e così via. Il romanzo nel romanzo appare, perciò, come la macrofigura del circuito senza fine delle autorappresentazioni della lingua poetica, tanto più che questa mise en abyme sembra portare a

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sua volta l’eco di un precedente letterario famoso, lo Heinrich von Ofterdingen di Novalis. 4. Autorispecchiamenti e transiti della lingua Come l’io narrante di Transit, Heinrich incontra il romanzo di cui è protagonista in un manoscritto incompiuto «worin die Dichtkunst in ihren mannigfa...


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