Seminario ciris PDF

Title Seminario ciris
Author Francesca Pirri
Course Filologia classica
Institution Università degli Studi di Messina
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Seminario di letteratura latina

La Ciris pseudovirgiliana: tracce di epillio nel mito di Scilla, da Virgilio a Ovidio.

Anonimo - sec. XVI - Scilla taglia i capelli a Niso

Francesca Pirri ______________________________ Anno accademico 2017/2018

0. La vicenda di Scilla: varianti del mito La vicenda narrata nel poemetto mitologico Ciris, di dubbia attribuzione, fa parte di un filone narrativo, caro agli autori antichi, dedicato a fanciulle che, sedotte e abbandonate, successivamente sono oggetto di metamorfosi di varia natura. Scilla, infatti, figlia di Niso, re di Megara, si innamora di Minosse e, per lui, tradisce la patria e causa la morte del padre, dal momento che non esita a tagliare la ciocca rossa dei capelli del genitore che, per volere degli dèi, avrebbe protetto la città di Megara dall’assedio di Minosse; una volta recisa la ciocca, il regno di Niso viene distrutto. Tuttavia, Minosse, lungi dal ricambiare l’amore di Scilla, la abbandona. In seguito all'intervento di Giove, la fanciulla viene tramutata in airone bianco (cfr. ciris), destinato per l’eternità ad essere inseguito dal padre, a sua volta trasformato in aquila marina. Questa, la versione leggibile nell'Appendix, il cui autore, dunque, a prescindere da chi egli possa essere, compie una scelta all'interno della tradizione mitica. Infatti, è interessante notare come, di questo mito, la tradizione presenti alcune varianti, tramandate da fonti primarie per il mito, quali le opere di Apollodoro, Igino e Strabone. Un discorso a parte merita la trattazione del medesimo mito ad opera di Ovidio, per ragioni di genere letterario. Ci si limiti a precisare che, nelle Metamorfosi, Scilla morì quando, dopo essersi avvinghiata alla poppa della nave di Minosse, vide suo padre Niso trasformato in aquila marina, che stava per beccarla, lasciò la presa e si trasformò in airone bianco durante la caduta. In Apollodoro, Biblioteca III, 15, 8, non vi è l'abbandono della fanciulla, ma ella viene appesa per i piedi da Minosse alla prora di una nave e fatta morire annegata: “...Μίνως δὲ Μεγάρων κρατήσας καὶ τὴν κόρην τῆς πρύμνης τῶν ποδῶν ἐκδήσας ὑποβρύχιον ἐποίησε.” 1 La versione del mito riportata da Igino, in Fabulae 198, 4, racconta che Scilla si gettò in mare per non essere perseguitata e che la metamorfosi fu in pesce: “... cum autem Minos Cretam rediret, eum ex fide data rogavit ut secum aueheret; ille negavit Creten santcissimam tantum scelus recepturam. Illa se in mare praecipitauit, ne persequeretur. Nisus autem dum filiam persequitur in auem haliaeton, id est aquilam marinam conuersus est, Scylla filia in piscem cirim quem uocant, hodieque si quando ea auis eum piscem natantem conspexerit, mittit se in aquam raptumque

1 Cfr. M.G. CIANI, 2010.

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unguibus dilaniat.” 2 In Strabone, Scilla viene gettata in mare da Minosse, Geographia, VIII, 6, 13: “τὸ δὲ Σκύλλαιον τὸ ἐν Ἑρμιόνῃ ὠνομάσθαι φασὶν ἀπὸΣκύλλης τῆς Νίσουθυγατρός, ἣν ἐξ ἔρωτος προδοῦσαν Μίνῳ τὴν Νίσαιαν

καταποντωθῆναί φασιν ὑπ᾽ αὐτοῦ,

δεῦρο

δ᾽ ἐκκυμανθεῖσαν ταφῆς τυχεῖν.” 3 Tornando al testo pseudovirgiliano, la sua fortuna, così come di tutte le altre opere dell'Appendix, è legata all'annosa querelle circa l'autenticità di questi questi. I critici si dividono fra i sostenitori della paternità virigliana e coloro che la negano per via di locuzioni e situazioni, desunte dalle tre opere maggiori del mantovano, che maldestramente si inseriscono nel poemetto. L'opera è, sicuramente, di ispirazione neoterica, e non va dimenticato che il medesimo mito è narrato anche da Ovidio, in Metamorfosi VIII, da cui l'ipotesi di alcuni che si tratti di un imitatore di Virgilio e Ovidio e che la datazione, quindi, andrebbe posticipata all'età di Tiberio. Altri critici, di contro, sottolineano come, in realtà, questo presunto imitatore non abbia come modello il Virgilio dell'Eneide, quanto piuttosto una sua fase alessandrineggiante4; si dovrebbe ipotizzare, quindi, una vera e propria falsificazione, peraltro dei neoteroi, più che di Virgilio (nessuno, infatti, nel I secolo d.C. scriveva più nello stile neoterico riscontrabile nella Ciris; questo stile si attesta solo negli anni 70-40 a.C.). Al di là di queste riflessioni, la sventura di questa fanciulla abbandonata richiama senz'altro alla mente il ricordo del dolore di Didone, di Arianna e delle eroine ovidiane; ciò che differenzia le vicende di queste donne, sono i toni con cui i rispettivi autori decidono di trattarle, da qui il confronto fra l'Arianna del carme 64 e i due modi di narrare Scilla, rispettivamente pseudovirgiliano e ovidiano. Il primo nodo da scogliere consiste nel capire se, effettivamente, le tre opere rispecchino il medesimo genere letterario, perlomeno in alcuni elementi comuni. Perciò, risultano doverose, in via preliminare, alcune riflessioni “di genere”. 1. Il problema eidografico dell'epillio Può considerarsi la Ciris un epillio? Ma come si connota, effettivamente, un epillio? È un genere rispetto al quale gli autori antichi non si sono pronunciati in termini precisi. La ricerca lessicale del termine epyllion non ha prodotto i risultati sperati. L'etimologia del 2 Cfr. P. K. MARSHALL, 2002. 3 Cfr. A. MEINEKE, 1877. 4 Cfr. A. ROSTAGNI, 1961.

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“piccolo epos” (per cui l'epillio sarebbe un poemetto in esametri di breve estensione 5) risulta, ormai, insufficiente a chiarirne le caratteristiche, soprattutto se si pensa che, per esempio, le Argonautiche di Apollonio Rodio, in 4 libri, rispecchierebbero questa definizione, eppure si tratta, senza dubbio, di un poema epico “tradizionale”. Rispetto a generi ben codificati, come l'epigramma e l'epitalamio, prediletti dai poetae novi, l'epillio soltanto risulta essere “a codice aperto”, cioè non ha alle spalle una forte tradizione eidografica che lo codifichi in maniera precisa, ma piuttosto essa lo fa in maniera negativa, cioè informa su cosa non sia un epillio, su cosa rifiuti: cioè l'epos; l'epillio è alterazione programmatica dell'epos. La sperimentalità di questo genere permette all'autore, più che in altri contesti, l'uso della varietas, la ποικιλὶα greca. Le macrocaratteristiche che, realmente, segnano l'epillio sono l'uso dell'esametro, il carattere narrativo dei testi e l'origine alessandrina; elementi come l'attenzione per episodi collaterali del mito e il maggior coinvolgimento dell'autore, infatti, non sono da ritenersi assoluti. Lo stesso avviene per l'elemento amoroso connesso al fenomeno della metamorfosi (il cui antecedente greco è l'Europa di Mosco) che caratterizza tutti gli epilli latini, il che ha portato alcuni critici moderni a ipotizzare che le Metamorfosi di Ovidio fossero una raccolta di epilli della generazione poetica neoterica a lui precedente; resta però aperto il problema di come, a un certo punto, l'epillio neoterico si sia schematizzato in questa struttura eros-metamorfosi. E' tendenza riscontrata anche la predilezione per miti di area orientale, soprattutto cretese, dove sono ambientate anche gli scelera di Scilla ed Arianna. 2. Elementi epillici in Ciris, Metamorfosi e Carme 64 Proemio Ciris (vv. 1-91). Il proemio del poemetto su Scilla illumina sugli intendimenti dell'autore, sul suo stato d'animo e di vita. Emerge, subito, la dedica al giovinetto Messalla (iuvenum doctissime, v. 12, 36, 54), con cui probabilmente l'autore condivide studi e simpatie letterarie. Dal v. 48 si assiste, invece, ad una enunciazione e critica del mito. vv. 1-106 5 Cfr. M. CRUMP, 1931. 6 Cfr. H. R. FAIRCLOUGH, 1918.

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Etsi me uario iactatum laudis amore irritaque expertum fallacis praemia uulgi Cecropius suauis expirans hortulus aurasflorentis uiridi sophiae complectitur umbra,mensque, ut quiret eo dignum sibi quaerere carmen, longe aliud studium inque alios accincta laboresaltius ad magni suspexit sidera mundiet placitum paucis ausa est ascendere collem, non tamen absistam coeptum detexere munus, in quo iure meas utinam requiescere musas et leuiter blandum liceat deponere amorem.

Benché di non volgar laude mi tenti amor diverso, e sperto io del fallace onor dei premii, il vano volgo abborra; chè spirando soavi sure al mio petto, l'orto cecropio ai dolci mi lusinga dell'amena Sofia placidi alberghi: disdetto mi sarà, che a non indegni carmi dia mano? Della mente mia vaga or d'altri pensieri e d'altre cure, l'intento è questo: di levarsi all'alte mete dell'universo, e seguir l'orme di sapienza su per l'arduo colle, a cui salire a molti non è in grado. Tuttavia seguirò l'opera che prima cominciai, così per questa io lasci in pace le Muse e mi diparta dall'usato amico stile dei carmi.

L'autore, dopo esser stato sbattuto come in un mare in tempesta dall'ambizione e dopo aver sperimentato i premi del volgo, desidera rifugiarsi nel “giardino cecropio”, cioè il giardino epicureo, e dedicarsi a παὶγνια, i giochi poetici, tralasciando opere di più ampio respiro. Si ripromette, tuttavia, di voler scrivere un grande poema sulla natura, alla maniera lucreziana, e di potervi intessere il nome del giovane Messalla, così come Lucrezio aveva fatto con Gaio Memmio. E' in questa doppia ambizione che egli ritiene di poter soddisfare da un lato le Muse e dall'altro la sapientia, cioè la filosofia epicurea. Ma chi è questo giovane Messalla? La prima identificazione, immediata, è con M. Valerio Messalla Corvino 7, di qualche anno più giovane di Virgilio, retore e politico, presentato qui agli albori della sua ascesa, quando non ha ancora compiuto imprese memorabili, ma risultano spiccate già le sue doti intellettuali (doctissime). Toni patetici e toni narrativi. Se l'epillio è programmatica alterazione dell'epos, e se l'epos (“parola”) è narrazione, allora la Ciris pseudovirgiliana, tutta calata in una prospettiva drammatica, rispetta pienamente questo canone, dal momento che “smembra” il gesto del narrare, scomponendolo tutto sul piano del dramma. La sequenza dei fatti risulta sconvolta da tropi drammatici che interferiscono con l'ordine naturale e consequenziale degli eventi. Per fare un esempio, nei versi dedicati all'antefatto (vv. 129162), ricorrono anafore, apostrofi e altri espedienti tesi a intensificare il patetismo di quanto narrato. vv. 129-132: Nec vero haec vobis custodia vana fuisset 7 Cfr. A. ROSTAGNI, 1961.

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(nec fuerat), ni Scylla novo correpta furore, Scylla, patris miseri patriaeque inventa sepulcrum, o nimium cupidis Minoa inhiasset ocellis. Nei primi quattro versi il punto di vista espresso è quello dei Megaresi ( vobis), che vedono Scilla come la causa della morte di Niso e della distruzione della loro patria (patris miseri patriaeque inventa sepulcrum), da qui le apposizioni legate al nome della fanciulla (novo correpta furore). Seguono indicazioni erudite, tipiche della poesia alessandrina, sulle vicende del dio Cupido. Ai vv. 141-145 assistiamo ad un cambio di prospettiva, ora il punto di vista è quello di Scilla stessa, dipinta in tutta la sua innocenza e inconsapevolezza: ...non ulli licitiam violaverat inscia sedem.

La ragazza è inconsapevole delle proprie azioni

dum sacris operata deae lascivit et extra

e, ingenuamente, corre e gioca col vento.

procedit longe matrum comitumque catervam, suspensam gaudens in corpore ludere vestem et tumidos agitante sinus aquilone relaxans. Necdum etiam castos gustaverat ignis honores necdum sollemni lympha perfusa sacerdos... L'anafora di necdum ai vv. 146-147 stride con quanto detto in precedenza e segnala il fatale errore della ragazza, alla quale ora l'autore si rivolge direttamente, come in un dialogo fra coro e personaggio, tipico della tragedia. Egli le rivolge tre proposizioni desiderative che, rispettivamente, si augurano che lei non avesse mai sciolto la veste nel gioco (quod uti ne prodita ludo aureolam gracili solvisses corpore pallam), non avesse avuto alcun ostacolo alla sua andatura (omnia quae retinere gradum cursusque morari possent, o tecum vellem tua semper haberes) e non avesse mai negato il suo delitto (non, numquam violata manu sacraria divae iurando, infelix, nequiquam periurasses). Seguono versi più pacati, dove anche Giunone è resa vittima solo dei suoi sentimenti contraddittori (et, si quis nocuisse tibi periuria credat... causa pia est: timuit fratri te ostendere Iuno) e tutte le colpe ricadono su Cupido, il quale tela...virginis in tenera defixit acumina mente. Si può concludere che l'interferenza di inserzioni drammatiche e punti di vista differenti che, di volta in volta, mettono in una luce diversa la protagonista, contribuisca a demolire il piano narrativo, che perde quindi di linearità, in favore di toni patetici. Questo non avviene in Ovidio, Metamorfosi VIII, vv. 6-42, dove si narra il medesimo episodio. Qui, a prevalere, è senz'altro la razionalità della successione degli eventi, in un climax quasi 5

scientifico e patologico dei sintomi dell'innamoramento, complice la natura elegiaca dello stile ovidiano. vv. 6-42: Interea Minos Lelegeia litora vastat praetemptatque sui vires Mavortis in urbe Alcathoe quam Nisus habet, cui splendidus ostro

Si noti, subito, la determinazione spaziale

inter honoratos medioque in vertice canos

e temporale dell'accaduto.

crinis inhaerebat, magni fiducia regni. Sexta resurgebant orientis cornua lunae et pendebat adhuc belli fortuna diuque inter utrumque volat dubiis Victoria pennis. Regia turris erat vocalibus addita muris, in quibus auratam proles Letoia fertur deposuisse lyram; saxo sonus eius inhaesit. Saepe illuc solita est ascendere filia Nisi et petere exiguo resonantia saxa lapillo

La fanciulla ha il dono di sentire delle note musicali

tum cum pax esset; bello quoque saepe solebat

quando lancia dei sassolini dalla torre più alta della

spectare ex illa rigidi certamina Martis.

città.

Iamque mora belli procerum quoque nomina norat armaque equosque habitusque Cydoneasque pharetras. Noverat ante alios faciem ducis Europaei, plus etiam quam nosse sat est. Hac iudice Minos,

Scilla, recandosi ogni giorno nella torre, osserva

seu caput abdiderat cristata casside pennis,

le fasi della guerra e conosce fin troppo bene

in galea formosus erat; seu sumpserat aere

i nemici, Minosse primo fra tutti. Iniziano la

fulgentem clipeum, clipeum sumpsisse decebat.

teichoscopia e la descrizione della sua vestizione,

Torserat adductis hastilia lenta lacertis;

con toni erotici tutti elegiaci. Il climax è

laudabat virgo iunctam cum viribus artem.

ascendente, dapprima Minosse è notato per le

Imposito calamo patulos sinuaverat arcus;

sue doti fisiche (formosus), poi si passa alle lodi

sic Phoebum sumptis iurabat stare sagittis.

di qualsiasi cosa faccia, fiino alla follia

Cum vero faciem dempto nudaverat aere

amorosa che la porterebbe a compiere

purpureusque albi stratis insignia pictis

qualsiasi gesto per lui.

terga premebat equi spumantiaque ora regebat,

I punti di vista espressi sono due, quello

vix sua, vix sanae virgo Niseia compos

di Scilla che, in preda al furor, non distingue più la

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mentis erat; felix iaculum, quod tangeret ille,

realtà, e quello oggettivo dell'autore,

quaeque manu premeret, felicia frena vocabat.

rispettivamente resi con i tempi imperfetto e

Impetus est illi, liceat modo, ferre per agmen

piuccheperfetto.

virgineos hostile gradus, est impetus illi turribus e summis in Gnosia mittere corpus castra, vel aeratas hosti recludere portas, vel siquid Minos aliud velit; Si può notare come il tragico non investa mai in profondità la struttura ovidiana, a trionfare è sempre l'ordine naturale delle cose. Ringkomposition. La struttura “ad anello” consiste nella chiusura circolare del poemetto che, inframezzato da ἒκφρασις, le racchiude all'interno di una cornice per poi tornare al punto iniziale. È questo lo schema seguito da Catullo nel carme 64, quando dal matrimonio di Peleo e Teti si passa ad una digressione sull'abbandono di Arianna da parte di Teseo, grazie all'espediente dei ricami della coperta nuziale (l'allontanamento dalla trama principale coinvolge una estesa sequenza di versi, da 50 a 264). Questo espediente è noto sin dall'epos omerico e, da esso, è giunto fino a Callimaco, che se ne serve sistematicamente. Sembrerebbe, invece, non comparire questo espediente proprio nella Ciris pseudovirgiliana, dove l'unico passo riconducibile ad un uso di questo tipo si trova ai vv. 286-314, quando la nutrice di Scilla, Carme, non appena viene a sapere del segreto della ragazza, ripercorre la medesima tragica esperienza che, tempo prima, aveva vissuto sua figlia, Britomarti, inseguita da Minosse invaghitosi di lei, fino a quando fu costretta a gettarsi in mare da un'alta roccia, salvandosi in una rete di pescatori. Però, leggendo questo intermezzo afferente ad un mito che non è quello di Scilla, non si ha lo stesso effetto di straniamento avvertito quando Catullo passa alla storia di Arianna. In effetti, le vicende di Scilla-Britomarti sono del tutto speculari, e più che il racconto lineare della vicenda di sua figlia, nel monologo di Carme prevalgono il dramma, la tragicità, l'affetto materno, il lutto di una madre per la figlia perduta, da qui l'aggettivazione molto forte (crudelis, gravis, ecc). In conclusione, più che un complesso gioco di corrispondenze (presente in Catullo), lo pseudo Virgilio esalta il risvolto patetico della vicenda. Si aggiunga, che la medesima vicenda è narrata da Callimaco nell'Inno ad Artemide: qui la digressione è reale, tipicamente alessandrina, la trama principale non ne risulta sconvolta, tutto prosegue sempre secondo

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un piano narrativo lineare ed ordinato, l'aggettivazione è scarna, l'introspezione psicologica del tutto assente; anzi, il poeta di Cirene presenta più varianti della vicenda, schierandosi a favore di una rispetto alle altre (tecnica erudita tipicamente alessandrina): nella Ciris nulla di tutto questo, Carme non ha tempo né voglia di dedicarsi ad elucubrazioni erudite, il suo dolore è troppo grande. Secondo alcuni critici8, nella stesura del monologo di Carme, lo pseudo Virgilio doveva avere a mente quello pronunciato dalla vecchia Ecale all'indirizzo di Teseo nell'omonimo epillio callimacheo, quando la donna racconta della triste sorte dei suoi figli morti in giovane età. Anche lei, come Carme, vive uno stridente contrasto fra un passato felice ed un presente misero; ma il contesto pseudovirgiliano è molto più patetico, l'avverbio iterum...iterum (vv. 286-7) sottolinea come Carme stia vivendo, una seconda volta, l'offesa di Minosse. Parallelo al monologo di Carme, è anche il lamento monologico della nutrice di Mirra in Ovidio ( Met. X, vv. 414 sgg.), che apprende la relazione incestuosa della ragazza e si dispera. La differenza, però, risede nel fatto che lei non abbia mai vissuto un'esperienza simile, a differenza di Carme, il che la porta a disperarsi, sì, ma senza sconvolgere la struttura narrativa del testo, l'analisi è quasi scientifica. Ancora una volta, in Ovidio, prevalgono i toni narrativi su quelli patetici. La componente moralistica. Le azioni compiute sia da Scilla che da Arianna sono, in quanto scelera, certamente suscettibili di giudizi morali, ma non tutti gli autori si soffermano su questo aspetto. Esso risulta totalmente assente in Callimaco il quale, semmai, si preoccupa della veridicità di ciò che narra (ἀμὰρτυρον ούδὲν ἀεὶδω), ma non della sua validità morale. A riguardo, nel Carme 64, Catullo svilisce questa responsabilità di veridicità, in favore della qualità morale di ciò che narra: separa nettamente i due emisferi del bene e del male (Arianna-Teseo) creando due piani ben distinti fra il mito narrato e quello commentato. Dopo di lui, lo pseudo Virgilio mischia tutto, portando avanti un commento perenne che, presto, si specifica in senso moralistico. In...


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