Siamo ancora cittadini di Paestum e di Velia PDF

Title Siamo ancora cittadini di Paestum e di Velia
Course Storia Romana
Institution Università degli Studi di Salerno
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Annali Storici di Principato Citra

X, 2, 2012, pp. 195-210

Fernando La Greca SIAMO ANCORA CITTADINI DI PAESTUM E DI VELIA: DALLA RICERCA STORICA NUOVE RISORSE PER LO SVILUPPO ECONOMICO DEL CILENTO La storia del Cilento è stata ormai scritta tante volte, e qui vogliamo solo invitare i lettori ad una attenta riflessione sui rapporti fra storia, risorse e sviluppo economico odierno di un territorio che vide in passato il grande splendore delle città di PoseidoniaPaestum e di Elea-Velia. Se appare un bene il recupero totale e la valorizzazione delle aree archeologiche (recente è la proposta di acquisto dei terreni privati all'interno delle mura di Paestum), tante altre iniziative, legate allo studio ed alla conoscenza della vita quotidiana nell'antichità nei suoi risvolti economici, possono utilmente contribuire alla valorizzazione di tali siti, all'incremento dei flussi turistici e alla crescita dell'occupazione locale. Infatti nella storia del Cilento c’è un filo conduttore legato all’economia ed alla produzione. Gli insediamenti preistorici e protostorici, l’arrivo dei coloni greci, la conquista romana, come pure le successive occupazioni ed immigrazioni, la densità degli abitati medioevali e moderni, sono tutti fenomeni dovuti alla costante abbondanza di prodotti agricoli, resa possibile dalla posizione geografica, dal clima favorevole, dalle risorse idriche, dalla qualità del terreno, dalla sua esposizione, dalla vicinanza al mare, dalla disponibilità di porti. Dall’antichità all’era moderna, la lunga lista dei popoli che si insediarono in questo territorio, significativamente, dà testimonianza di una terra ambita da tutti per la sua ricchezza produttiva. I prodotti (olio, vino, ortaggi, fiori, rose, cosmetici, erbe medicinali, unguenti, carni, lucaniche o salsicce affumicate, latte, pesci freschi, salagione, legnami, ed altro ancora) tramite i numerosi porti lungo la costa, erano facilmente condotti nelle grandi città e nei mercati regionali e mediterranei, già al tempo delle colonie greche, Poseidonia ed Elea, che operavano in pieno accordo. La sinergia fra le due città prevedeva una divisione dei compiti: i Poseidoniati coltivavano il loro vasto territorio, mentre gli Eleati, abili mercanti e marinai, commercializzavano i prodotti1. Ogni metro quadrato del Cilento ha una storia da raccontare e una ricchezza da offrire. Perché allora non valorizzare, oggi, di nuovo, quelle antiche risorse? Perché non considerarci ancora paradossalmente cittadini di Paestum e di Velia, comportarci come tali, trarne le necessarie conseguenze? Con la consapevolezza che un bene culturale non è solo il ritrovamento archeologico, l’edificio, il monumento, ma anche un bene “non materiale”, un’idea, un concetto, un fiume, una sorgente, una montagna, un paesaggio, un prodotto, che la storia ha individuato come elemento determinante per la crescita e la ricchezza di una comunità umana. I beni culturali sono “beni dello spirito”, beni che sa riconoscere chi ha dentro di sé la cultura, la conoscenza della storia, del percorso seguito dagli uomini e dalle civiltà per giungere ai nostri giorni2.

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GASSNER, 2003. MELLO, 2004; 2005.

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Un esempio di questo riconoscimento spirituale è dato dai templi di Paestum: una volta fiorenti, sopravvissuti anche perché diventati ad un certo punto chiese cristiane, dopo l’abbandono della città trascorrono i secoli nell’indifferenza, finché i primi attenti visitatori del Settecento, imbevuti di illuminismo e di cultura classica, li descrivono e li fanno conoscere al mondo, con disegni che illustrano la loro penosa condizione di stalle per animali, per le bufale. A questo li aveva portati la mancanza di cultura di coloro che ne avevano la gestione. La riscoperta fece giungere a Paestum i più famosi intellettuali d’Europa, ed i templi divennero un modello artistico ed architettonico per tante nuove costruzioni in tutto il mondo3. Solo allora vi furono per i templi le prime iniziative di tutela, decoro, restauro, e tanto ancora restava da fare, ma ormai si era affermata e diffusa la consapevolezza del valore culturale di quelle rovine. Ma c’è un altro aspetto da considerare. In genere non si pensa che i templi di Poseidonia-Paestum furono innalzati da persone che avevano ricchezze da spendere, guadagnate soprattutto con l’esportazione dei prodotti agricoli. Intendiamoci: i beni culturali, i templi, i siti archeologici, le chiese, i palazzi, le opere d’arte sono testimonianze importantissime del nostro passato e vanno tutelate e valorizzate. Tuttavia si può andare oltre, immaginando tali beni nel loro contesto originale, e guardando alla società, alle attività ed alle risorse che allora ne permisero la realizzazione. Se comprendiamo questo nesso, oggi noi potremmo riappropriarci di queste risorse, e finalizzarle allo sviluppo odierno del nostro territorio. Pertanto, la valorizzazione del patrimonio che ci viene dall’antichità comincia innanzitutto dalla sua conoscenza, e da una considerazione di fondo: gli antichi vivevano negli stessi spazi, nello stesso ambiente fisico e naturale dove noi viviamo oggi, e utilizzavano con intelligenza le risorse disponibili. Gli abitanti dell’antica città di Poseidonia-Paestum, per vivere la loro vita di ogni giorno, utilizzavano le risorse naturali e ambientali del territorio: la piana del Sele, il mare, la costa, i corsi d’acqua, le colline ed i monti circostanti. Poiché con essi, con gli antichi, noi condividiamo lo stesso territorio, diventa utile sapere come concretamente essi operavano, quali risorse in particolare erano importanti per la loro economia. Questa consapevolezza culturale, unita alla valorizzazione di queste stesse risorse, oggi, può essere la molla per uno sviluppo economico “sostenibile”, immerso nell’ambiente e nel paesaggio geografico, riscattandoci da una presunta povertà atavica, che però è recente e dovuta solo all’ignoranza. Lo studio della storia, allora, per essere attuale, valido, e parlare agli uomini d’oggi, si lega alla storia locale, alla geografia, all’economia, al territorio ed alla sua utilizzazione da parte degli antichi nella loro vita quotidiana. La conoscenza di questi aspetti, messa in luce dalle ricerche di storia locale, permette di avanzare oggi concrete proposte di valorizzazione, eventualmente da discutere e migliorare, in un ampio dibattito che coinvolga tutti coloro che operano sul territorio. In epoca romana, il Cilento faceva parte della III regione augustea, denominata “Lucania e Bruzio”, a partire dal Sele e più tardi a partire dalla stessa Salerno. La regione, secondo numerose fonti antiche e in particolare secondo un’operetta geografica del tardo

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RASPI SERRA, 1986.

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impero, era “ottima e ricca di prodotti di ogni genere (optima et omnibus bonis abundans)”4. Per fare solo un breve elenco dei prodotti e delle risorse che gli antichi hanno tratto dalle nostre terre cilentane, troviamo: sale, grano, ceci, ortaggi, zucche, cetrioli, cavoli, broccoli, fiori, rose, olio, vino, fichi, frutta, legno, erbe medicinali; bovini, ovini, caprini, suini, carni fresche e salate, lardo, lucaniche o salsicce stagionate, cuoio, latte, formaggi, miele; pesci di scoglio freschi, pesci salati, tonni, salsa di pesce detta garum, ricci di mare, polpi, ostriche. In epoca moderna, si aggiunsero sparto, canapa, lino e seta. Se abbondanti erano le risorse, straordinaria era l’inventiva degli abitanti, che riuscivano ad imporre sui mercati la qualità, e ad abbinare prodotti diversi producendo qualcosa di unico e di famoso in tutto il mondo antico. Così, ad esempio, un allevamento di qualità richiedeva che il bestiame pascolasse libero, su prati d’altura ricchi di erbe medicinali; le proprietà delle erbe, secondo la concezione naturalistica degli antichi5, si trasferivano così al latte, e si produceva un latte denso, medicinale, salutare e curativo per le malattie dell’apparato respiratorio. A questo scopo si impiegavano specificamente le capre, ritenute dagli antichi un vero e proprio laboratorio farmaceutico: le capre erano nutrite per diversi giorni esclusivamente con le erbe medicinali che possedevano le proprietà curative desiderate, e queste proprietà si trasferivano quindi al latte, che poi gli ammalati bevevano6. Si ha notizia di personaggi della corte imperiale romana, e successivamente anche della corte di Teodorico, che giungono nelle nostre terre, e in particolare sui Monti Lattari, a curarsi con questo latte medicinale7. In generale bovini, caprini, ovini, davano un latte di qualità, ma anche formaggi e lane famose per la loro morbidezza. Il latte di capra era però quello più consumato nel mondo antico, e in effetti i dietologi moderni lo ritengono il più vicino per le sue caratteristiche al latte umano. E tuttavia oggi la sua produzione langue, ed è difficile reperirlo. Possibile che i prodotti buoni, validi, nutrienti degli antichi non debbano oggi essere conosciuti e di largo consumo, come essi meritano? Una prima proposta potrebbe essere quella di una linea produttiva che a partire dagli allevamenti caprini cilentani offra latte fresco, formaggi freschi e stagionati, e, perché no, una specie di “mozzarella” caprina, che pure esiste nella tradizione locale8. La qualità dei prodotti animali era assicurata, secondo il costante pensiero degli antichi, che era anche quello dei nostri nonni, dalla qualità di ciò che l’animale mangiava (concetto da noi purtroppo trascurato se non completamente dimenticato). Questo vale per tutti gli animali: ad esempio, i pesci di scoglio sono per Galeno i migliori, perché vivono al largo, lontano dalle coste inquinate e dalle foci dei fiumi, beneficiano del ricambio d’acqua dovuto alle correnti e si nutrono nei pascoli sottomarini9. Gli animali allevati all’aperto beneficiano di pascoli ricchi di erbe medicinali. Si tratta di un ambiente naturale unico,

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Expositio Totius Mundi, 53. GRANT, 2005. LA GRECA, 2010b. 7 Galeno, De methodo medendi, V, 12; Simmaco, Epist.,VI, 17; Cassiodoro, Var., XI, 10. 8 LA GRECA, 2010b. 9 LA GRECA, 2008a.

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quello cilentano, che produceva erbe medicinali studiate ed utilizzate dalle scuole mediche antiche e poi dalla Scuola Medica Salernitana. Ancora nel Settecento, per attestazione di Costantino Gatta, i monti del Cilento rifornivano di erbe medicinali le farmacie di tutta l’Europa10. In diverse opere, Piero Cantalupo ha messo in luce l’importanza delle erbe medicinali del Salernitano nell’antichità, anche in connessione alla vocazione “salutare” del territorio11. Ecco una seconda proposta: l’avvio di aziende specializzate nella raccolta e/o nella coltivazione di erbe medicinali, per le quali il Cilento ha una particolare e antica tradizione. Le famose rose rosse di Paestum, che emanavano un profumo intenso, e che fiorivano più volte in un anno, erano, secondo una nostra recente ipotesi, probabilmente un prodotto ibrido, creato a partire da innesti speciali, usando forse come portainnesto il rovo (il comune rubus fruticosus, anch’esso appartenente alla famiglia delle rosacee), tenuto in verticale con delle canne come si vede in alcuni affreschi di Pompei. Questo connubio, a quanto risulta da un riuscito esperimento di innesto, produce rose di notevole grandezza, assicurando così un raccolto abbondante12. Obiettivamente, ci sono delle difficoltà. I nostri esprimenti non sono sistematici, ed è necessario trovare la tecnica giusta e più efficace, perché molti innesti non fanno presa. Inoltre, data l’impossibilità di “coltivare” e irrigare adeguatamente i rovi, scelti fra quelli più robusti di grandi cespugli in campagna, anche gli innesti che mettono foglie e fiori poi diventano secchi. Anche le rose innestate sono state scelte a caso, mentre bisognerebbe provarne tipi diversi. Ma abbiamo dimostrato che la cosa è possibile, e che, in qualche modo, la rosa nata sul rovo presenta significative diversità rispetto all'originale: sono nate rose un po' più grandi, oppure con più petali, oppure un po' più profumate, e sempre rose con colori più intensi e con variazioni di tonalità. Il rovo fa la sua parte nel cambiare le caratteristiche della pianticella innestata. Abbiamo provato con successo anche l'innesto su biancospino, che però non sembra produrre rose significativamente diverse dall'originale, anche se guadagna in spettacolarità spostando in tal modo la coltivazione delle rose dagli arbusti agli alberi (il biancospino cresce fino a sei metri di altezza). Con questo certamente non abbiamo ritrovato la rosa pestana con le sue tipiche caratteristiche, ma abbiamo, credo, riscoperto il metodo usato dagli antichi: l'innesto su piante spinose, e in primis sul rovo. Ci vorranno ancora tante altre sperimentazioni, ma le lasciamo ai centri specializzati e agli addetti ai lavori. Gli abbondanti petali delle rose pestane erano usati per i profumi, per il rosaceum, un olio di rose dagli usi svariati, alimentari e medicinali, e per il rosatum, un vino eccezionale e graditissimo al palato, dal sapore e dal profumo di rose13, che abbinava le rose pestane all’ottimo vino prodotto dai vitigni chiamati “lucani”, capaci di prosperare anche nelle zone ombrose. D’altra parte, il rosatum poteva essere prodotto facilmente a Paestum, perché solo qui troviamo le rose bifere, che fiorivano anche d’autunno, al tempo della vendemmia, ed i loro profumatissimi petali potevano essere lavorati insieme al mosto. La ricetta del rosatum è stata sempre a disposizione di tutti, nell’opera di Plinio il Vecchio, ma chi legge mai questi antichi testi? Dunque dice Plinio. “Si fa il vino dai petali 10

GATTA, 1732. CANTALUPO, 1992; 2002. 12 LA GRECA, 2010a. 13 MELLO, 2003. 11

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Siamo ancora cittadini di Paestum e Velia: dalla ricerca storica nuove risorse per lo sviluppo economico del Cilento

di rosa pestati, che vengono calati, in un panno di lino, nel mosto con un piccolo peso, in modo da far adagiare l’involucro sul fondo, nella quantità di 50 denari (circa 200 grammi) per ogni venti sestari di mosto (circa 11 litri), e non si può aprire il recipiente prima di tre mesi”14. Se nel mondo sono riuscite ad affermarsi alcune bevande per la loro unicità, questa fortuna non potrebbe toccare di nuovo, come nell’antichità, ad una moderna e ben fatta produzione di rosatum? Noi che ne abbiamo assaggiato e fatto assaggiare i primi esperimenti di produzione (durante alcune conferenze, ad ascoltatori entusiasti), crediamo decisamente di sì: se ne “beve” dapprima l’aroma, il profumo, preludio di un gusto straordinario e unico che potrebbe farne una bevanda per ogni momento, e non solo per i pasti. Sempre per quanto riguarda il vino, nel Cilento esistono ancora antichissime installazioni per la spremitura delle uve, risalenti almeno al periodo greco-romano se non all’età del ferro, chiamate “palmenti”, e costituite da vasche di pietra, scavate nella roccia. In genere le vasche sono due, di forma rettangolare o circolare; nella prima, più grande, si pigiavano le uve con i piedi; il fondo in pendenza faceva colare il succo mediante una canaletta nella seconda vasca, dove si raccoglieva il mosto15. Al di là della loro importanza storico-culturale, bisogna considerare un altro aspetto, di grande interesse, relativo alla qualità del vino prodotto con questo sistema, che solo apparentemente è arcaico e “superato”. Infatti l’aroma e il sapore unico dei vini è dato in gran parte dagli esteri aromatici, presenti nella buccia d’uva. Ora, i moderni mezzi meccanici non permettono una buona spremitura della buccia, e la semplice fermentazione non è sufficiente per il rilascio completo delle sostanze aromatiche. D’altra parte, anche la spremitura tradizionale nei tini di legno non è ottimale, in quanto gran parte dei chicchi d’uva scivolano nel succo fra il piede e il fondo di legno, senza rompersi. La spremitura ottimale è data invece proprio dai palmenti, ossia dalle vasche in pietra lavica ruvida e inclinata verso il foro di scolo. In tal modo il succo scorre via subito, ed i chicchi si frangono benissimo fra il piede e il fondo di pietra, rilasciando le sostanze aromatiche. Dunque, gli antichi abitanti del Cilento producevano in tal modo un vino di grande qualità: perché non imitarli oggi? Secondo un trafiletto di giornale, pare che alcune grandi case vinicole note a livello internazionale stiano tornando proprio alla pigiatura con i piedi su pietra, per migliorare i loro prodotti. Ma la cosa viene descritta sotto l’aspetto del folklore, della “vendemmia tradizionale”, mentre si tratta di un importante e sostanziale cambiamento nei processi di lavorazione che permette un decisivo aumento della qualità. E non potrebbero essere interessati, a maggior ragione, anche i produttori locali? I Romani erano grandi bevitori di vino, e di solito lo mischiavano all’acqua per poter reggere a tali ritmi. Ma aggiungere l’acqua era l’ultima operazione da fare prima di bere, e occorreva comunque che il vino giungesse puro sulle tavole imbandite. Per essere sicuri che il vino del produttore o del rivenditore fosse schietto e non annacquato, si ricorreva al “test dell’edera”. E’ sempre Plinio a parlarcene. “Straordinaria è la proprietà dell’edera per controllare la purezza del vino: un recipiente di legno d’edera lascia passare il vino e trattiene l’acqua, nel caso che ve ne sia stata mescolata”16. Una favola, si direbbe oggi: chi può crederci? Ma gli antichi sono osservatori. Osservano l’edera che si aggrappa alle altre 14

Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XIV, 19, 106. BOTTI - THURMOND - LA GRECA, 2011. 16 Plinio il Vecchio, Naturalis historia, XVI, 63, 155.

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piante, le succhia e le soffoca, sottrae la loro linfa e si ingrossa. Succhierà anche il frutto della vite? L’esperimento è stato effettuato nel Laboratorio della Soprintendenza Archeologica di Pompei da Annamaria Ciarallo, ed ha confermato in pieno la sapienza antica: effettivamente un vasetto di legno d’edera ha assorbito interamente, in 3 ore, 3 ml di vino rosso genuino, mentre, riempito con 1,5 ml di vino mischiato con 1,5 ml di acqua, dopo tre ore ha assorbito solo il vino, lasciando nel fondo tutta l’acqua17. Nell’antichità il vino rosso veniva utilizzato anche nell’impasto di carni suine insaccato nelle lucaniche, salsicce stagionate di produzione lucana, che conquistarono immediatamente le mense dei Romani per la loro qualità18. Nell’impasto erano amalgamate erbe aromatiche locali, come prezzemolo, sedano, finocchio, basilico, rosmarino, ecc., con funzione antiossidante e conservante: ecco altri prodotti di antica tradizione, le erbe aromatiche, che potrebbero avere oggi una rinascita e una nuova valenza, come potenti conservanti naturali, alternativi alla valanga di prodotti chimici che avvelena le nostre tavole19. La bontà delle carni suine antiche era assicurata dal fatto che i maiali di giorno pascolavano liberi nei prati boschivi, e si nutrivano di erbe e di ghiande. Poiché le bestie appartenevano a proprietari diversi, e pascolavano tutte insieme in terreni comuni, il problema di riportare la sera ciascun gruppo nella propria stalla fu risolto brillantemente dai pastori romani, secondo Polibio20, abituando ogni gregge a specifici distinti suoni di tuba ossia tromba (usata in genere per segnali militari), sicché la sera ogni gregge si ricomponeva seguendo le note del proprio pastore. Il pane era fatto con un misto di farine, di grano ma anche di farro e di ceci, ottenendo un prodotto straordinario, cotto “a legna”, in grado di conservare le sue qualità organolettiche per oltre una settimana21. E così era anche il pane tradizionale del Cilento fatto in casa. Oggi i consumi di massa ci offrono il pane usa e getta, già immangiabile il giorno dopo. Ma un fornaio che volesse riproporre il “pane romano”, in un sito archeologico quale Paestum o Velia, con la qualità antica e imitando le forme visibili ad esempio negli affreschi e nei calchi di Pompei, sicuramente incrementerebbe i suoi affari, e consentirebbe ai turi...


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