Tesi finale - Master in Criminologia e studi giuridici forensi - Il Mobbing PDF

Title Tesi finale - Master in Criminologia e studi giuridici forensi - Il Mobbing
Author Nicoló Ferlito
Course Master in criminologia e studi giuridici forensi
Institution Università Telematica Pegaso
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UNIVERSITÀ TELEMATICA PEGASO

MASTER “CRIMINOLOGIA E STUDI GIURIDICI FORENSI”

IL MOBBING

RELATORE:

CANDIDATO:

Prof.ssa Giusy Savastano

Ferlito Nicolò MATRICOLA: MA6680818

Anno Accademico

2017/2018

Indice

Pag.

1. Introduzione………………………...............................................................3 2. La fenomenologia mobbing………………………………………………...3 3. Le fasi del mobbing………………………………………………………...5 4. Le diverse tipologie di mobbing………………………………………………….…………………8 5. La situazione italiana……………………………………………………….9 Bibliografia

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1. Introduzione Il mobbing è un fenomeno proprio degli ambienti lavorativi che si verifica con comportamenti volontariamente tesi a ledere il cittadino, con effetti che creano danno non solo al lavoratore ma anche alla sua famiglia e all’azienda di cui fa parte. Pur non esistendo ancora in Italia una legge che disciplina tale fenomeno, è possibile considerarlo un’azione dolosa e per questo oggetto di osservazione e studio per la criminologia. Saranno qui illustrate brevemente la definizione del fenomeno, sia dal punto di vista psicologico che dell’inquadramento giuridico, essendo la criminologia una scienza multidisciplinare che osserva i fenomeni delittuosi con riferimento alle caratteristiche psicologiche del reo, della vittima e alle regole del suo ambiente. 2.

La fenomenologia mobbing

Il termine inglese , derivante dal verbo , indica i seguenti tipi di azione: affollarsi, accalcarsi intorno a qualcuno; assalire tumultuando, attaccare, aggredire, malmenare, schernire. Fu l’etologo Konrad Lorenz, agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, il primo ad usare il termine con questa accezione per descrivere il comportamento di alcune specie animali quando circondano un proprio simile e lo assalgono in gruppo, al fine di allontanarlo dal branco. In campo etologico, ad esempio, il mobbing è una reazione collettiva e aggressiva mediante la quale alcuni uccelli rispondono all’invasione del territorio ed al pericolo, attaccando in gruppo l’intruso (es. rapace) con strategie difensive quali l’emissione di gridi particolari, la formazione di volo o l’accerchiamento a terra.

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È dunque la difesa di un territorio, ossia, in termini sistemici, dei confini e della stabilità di un sistema. Il primo a parlare di mobbing, quale condizione stressante nell’ambiente di lavoro, fu lo psicologo tedesco Heinz Leymann verso la fine degli anni ’80, il quale è considerato il fondatore di questa nuova direzione di ricerca della Psicologia del Lavoro. In particolare, Leymann trovò un’analogia tra l’aggressività degli uccelli e quella manifestata da certi lavoratori nei confronti di altri. Negli ultimi anni, poi, l’uso del termine ha conosciuto un enorme sviluppo nello studio del fenomeno nel contesto lavorativo. Attualmente, il fenomeno viene definito come una forma di pressione psicologica sul posto di lavoro, esercitata da parte dei colleghi o superiori attraverso comportamenti aggressivi e vessatori attuati in modo ripetitivo e protratti nel tempo, per un periodo di almeno sei mesi, lesivi della dignità personale e professionale di un lavoratore, e talmente gravi da poter sviluppare condizioni di malessere fisico e/o psichico nel lavoratore mobbizzato, che in casi più estremi giunge a richiedere il licenziamento. Quindi, la condizione per poter parlare di mobbing è innanzitutto il requisito temporale: infatti, le violenze psicologiche devono essere regolari, sistematiche, frequenti e durare nel tempo – almeno sei mesi (Ascenzi e Bergagio, 2000). Gli attori sulla scena del mobbing sono tre: i mobbers, ossia coloro che compiono le azioni vessatorie; i mobbizzati ovvero le vittime, coloro che subiscono comportamenti persecutori; gli spettatori, cioè coloro che non sono direttamente coinvolti nel comportamento vessatorio ma il cui comportamento può influire sullo sviluppo del mobbing.

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Gli spettatori sono rappresentati da un numero molto alto di persone, costituito dai colleghi, dall’amministrazione del personale e da tutti coloro che rifiutano di assumersi qualsiasi responsabilità preferendo restare nell’ombra. Gli spettatori spesso hanno paura di diventare vittima del mobber e così non reagiscono e a volte aiutano il/la mobber nelle sue vessazioni. Per quanto concerne le cause di sviluppo del mobbing, bisogna evidenziare che esistono molte teorie che sino ad ora hanno cercato di far luce sul fenomeno e di spiegare le principali motivazioni per cui esso si verifica; tali teorie, però, pur affrontando il fenomeno da punti di vista differenti ed analizzando i vari aspetti della personalità e dell’ambiente di lavoro che possono favorirne lo sviluppo, non riescono a delineare un’unica situazione a rischio. Infatti, non sembra esistere un ambiente tipo o una caratteristica di personalità che da sola basti per scatenare il mobbing, poichè è dalla relazione tra le molteplici variabili in gioco che esso si sviluppa. 2. Le fasi del mobbing Possiamo definire il mobbing come un processo che si sviluppa in maniera esponenziale, attraverso diverse fasi, in quanto non è un evento puntuale che si abbatte all’improvviso sulla vittima ma prevede un perdurare delle azioni vessatorie nel tempo. Tra tutti i modelli esistenti, uno tra i più completi ed esaurienti è il modello a quattro fasi di Leymann, il quale descrive il fenomeno del mobbing attraverso uno schema sequenziale che differenzia i diversi stadi in cui si trova l’individuo mentre subisce le strategie di persecuzione del mobber. Fase 1: nasce un conflitto in un contesto lavorativo a causa di scontri di caratteri, di opinioni ed abitudini diverse, a causa di invidia o competizione. Tale conflitto è nascosto

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poiché non viene ancora esplicitato da nessuna azione o frase. Esso diviene mobbing solo se non viene risolto e se comunque diviene continuativo per almeno sei mesi. Fase 2: è quella in cui inizia il mobbing vero e proprio. Il conflitto quotidiano matura e diviene continuativo, vengono definiti e fissati i ruoli di mobber e di vittima. Il/la mobber agisce in modo sistematico ed intenzionale con strategie persecutorie ed il soggetto mobbizzato subisce la stigmatizzazione collettiva. Le azioni del mobber possono essere distinte per il grado di rilevanza: dalle più palesi e violente (se sono effettuate attraverso aggressioni verbali e fisiche, atti di vandalismo, urla, commenti inopportuni alla sfera sessuale e privata) a quelle sottili e silenziose (se la vittima viene isolata ed esclusa dal gruppo). Si possono distinguere, inoltre, le azioni mobbizzanti per tipologia. Esistono poi azioni disciplinari, ad esempio continue lettere di richiamo ingiustificato; azioni logistiche, se la vittima viene trasferita in sedi periferiche, scomode e lontane dagli affetti; azioni mobbizzanti dirette alla mansione, se si affidano alla vittima compiti al di sotto delle sue competenze o paradossali, quando si affidano compiti superiori alle sue capacità con la speranza che la vittima sbagli (Menelao et al., 2001). La terza fase si verifica nel momento in cui il mobbing oltrepassa i limiti dell’ufficio in cui è nato e diventa di dominio pubblico. In tale fase, la vittima comincia ad accusare problemi di salute e si assenta ripetutamente dal lavoro per malesseri o visite mediche; i danni che il mobbing provoca alla vittima possono interessare sia la salute fisica che quella psichica. In particolare, la salute fisica viene compromessa dalla somatizzazione degli stati ansiosi indotti dal mobber (tra le patologie riscontrate: asma, cefalea, crisi anginose, crisi emicraniche, dermatite, dolori articolari e muscolari, gastralgie, perdita di capelli, tachicardia ecc.).

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Gli effetti negativi del mobbing sul sistema psichico e nervoso della vittima, poi, non cessano con il venir meno della condotta vessatoria ma permangono per un periodo compreso mediamente tra i 12 e i 18 mesi (Monateri et al., 2000). È stato evidenziato come le preoccupazioni di incontrare il/la mobber, generano stati d’ansia e di panico costanti e fuori dal controllo personale, facendo sì che la persona si concentri esclusivamente sulle problematiche lavorative (cause del conflitto, possibilità di uscita, difendere la propria incolumità), perda la capacità di concentrazione, accusa mal di testa, giramenti di capo, riduzione della capacità mnemonica. Uno dei disturbi d’ansia facilmente riscontrabili è il cosiddetto disturbo da attacchi di panico: un disturbo che prevede ripetuti e improvvisi attacchi di panico accompagnati da paure immotivate, sensazione di morte imminente e contemporanea perdita del controllo di sé stessi. Il mobbizzato inizia a macerarsi, pensa a cosa può aver fatto di male per meritarsi l’emarginazione e pertanto perde il senso dell’autostima e diventa vulnerabile, incapace di sostenere il confronto o addirittura il colloquio con un proprio simile. Lo stato di depressione e insoddisfazione che ne deriva può portare la vittima a sviluppare patologie legate all’area dei disturbi depressivi. La quarta fase, infine, prevede l’esclusione della vittima dal mondo del lavoro, o per licenziamento o per dimissioni. Casi più gravi e violenti si verificano per suicidi (dovuto ad un crollo interiore e morale della persona) della vittima o invalidità permanenti (dovute a mancanza di concentrazione o sabotaggi). Talvolta, possono verificarsi anche aggressioni verso il/la mobber. È in questa fase che il mobbing ha raggiunto il suo scopo, ossia eliminare la vittima.

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3. Le diverse tipologie di mobbing Prendendo in considerazione gli autori dei comportamenti persecutori, è possibile distinguere diverse tipologie di mobbing: verticale, orizzontale, trasversale e doppio. Il mobbing verticale (detto anche discendente o dall’alto) consiste in violenze psicologiche messe in atto da un superiore ai danni della vittima. Tali azioni possono essere dirette o indirette (se attuate con l’aiuto dei colleghi della vittima) e mirano ad escludere dall’azienda un lavoratore “scomodo” o sgradito costringendolo al licenziamento. Il mobbing verticale, a sua volta, può essere di tipo organizzativo o corporativo. Nel primo caso, l’azienda cerca di adattarsi ai cambiamenti del mercato utilizzando strategie mobbizzanti. Nel secondo caso, sono i datori di lavoro che esercitano comportamenti mobbizzanti come aumento delle ore lavorative, rifiuto delle ferie, ecc. Ciò si verifica maggiormente nei paesi in cui il tasso di disoccupazione è molto elevato. Il mobbing orizzontale, invece, si verifica quando le azioni vessatorie sono messe in atto dai colleghi di pari grado ai danni della vittima. Anche qui le motivazioni possono essere molte, come la competizione, l’invidia, il razzismo, il campanilismo, la fede politica diversa, ecc. Il mobbing trasversale si verifica quando il mobber si accorda con persone al di fuori dell’ambito lavorativo, detti co-mobber, con la cui complicità si tende ad aumentare il livello di emarginazione e discriminazione nei confronti della vittima. Con il termine “doppio mobbing”, infine, si intende la perdita del sostegno della famiglia da parte di un soggetto mobbizzato. In questi casi, il soggetto mobbizzato sul posto di lavoro tenderà a cercare aiuto e conforto tra i suoi familiari. Inizialmente, la vicinanza fisica e il coinvolgimento emotivo, che caratterizzano la famiglia, sono un

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grande sostegno per la vittima, ma alle lunghe la famiglia potrebbe essere a sua volta stressata dalle continue lamentele presentate dall’individuo e, incapace di aiutarlo, potrebbe a sua volta isolarlo. 5. La situazione italiana Secondo una stima dell’UGL ed in virtù delle ricerche della Clinica del Lavoro “L. Devoto” di Milano, sono oltre un milione, forse anche un milione e mezzo, gli italiani malati di mobbing, molto più al Nord dove si è registrato un 78% che al Centro (20%) e al Sud (8%). Il dottor Gilioli, che dirige il Centro disadattamento lavorativo della Clinica del Lavoro di Milano, afferma che riguardo al fenomeno in questione in Italia siamo ancora agli albori “e lo si capisce da un semplice fatto: quando un lavoratore italiano è vittima di queste persecuzioni, per prima cosa si domanda quali errori ha commesso e, solo dopo molti tormenti, comincia a pensare che siano colleghi e superiori ad avere un rapporto scorretto con lui. Nelle società e negli ambienti più consapevoli, la vittima è invece capace di individuare le responsabilità e di intervenire o chiedere aiuto molto rapidamente. Nelle aziende svedesi in ogni reparto c’è un garante antimobbing”.

Al fine di prevedere una regolamentazione specifica e garantire una tutela adeguata per i casi di mobbing, sono state presentate in Parlamento delle proposte di legge. In particolare, il disegno di legge n° 4265, presentato alla Presidenza del Senato il 13 ottobre 1999 ed assegnato il 21 ottobre 1999 alla Commissione lavoro e previdenza sociale in sede referente, porta il titolo “Tutela della persona che lavora da violenze morali e persecuzioni psicologiche nell’ambito dell’attività lavorativa”.

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Come risulta dalla relazione che lo accompagna, il D.d.l. ha, innanzitutto, lo scopo di “favorire un’azione preventive ed efficace”, tramite l’informazione-sensibilizzazione e l’intervento prima che le condotte di mobbing abbiano cagionato danni, ma anche quello di fornire, comunque, strumenti di tutela ex post, repressivi e riparatori. E ciò, non solo al fine, etico e di giustizia, della “tutela individuale della dignità ed integrità della persona”, per la correttezza nei rapporti umani e la civile convivenza e coesione, ma anche a quello, di opportunità economica, di impedire la “generazione di diseconomie interne ed esterne al luogo di lavoro”, per il buon funzionamento delle aziende e la minimizzazione dei costi sociali e sanitari. In particolare, per quanto riguarda gli interventi ai fini preventivi, l’art. 3 prevede l’obbligo per i datori di lavoro e le rappresentanze sindacali aziendali di effettuare azioni di informazione periodica verso i lavoratori, azioni che “concorrono ad individuare, anche a livello di sintomi, la manifestazione di condizioni” dei comportamenti lesivi. È stabilito espressamente che tale attività informativa deve riguardare anche gli “aspetti organizzativi – ruoli, mansioni, carriere, mobilità – nei quali la trasparenza e la correttezza nei rapporti aziendali e professionali deve essere sempre manifesta”. In relazione agli interventi da attuare prima che le violenze morali e le persecuzioni psicologiche abbiano cagionato danni, l’art. 3 comma 2, stabilisce che quando sono denunciati i comportamenti lesivi al datore di lavoro e alle rappresentanze sindacali aziendali, tali soggetti devono attivare “procedure tempestive di accertamento dei fatti denunciati e misure per il loro superamento”, per la predisposizione delle quali “vengono sentiti anche i lavoratori dell’area aziendale interessata ai fatti accertati”. Per quanto riguarda le conseguenze dei comportamenti illeciti, l’art. 4 stabilisce che sia nei confronti di coloro che attuano le azioni lesive, sia di chi denuncia

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consapevolmente violenze morali e persecuzioni psicologiche che si rilevino inesistenti per ottenere vantaggi comunque configurabili, “si può realizzare responsabilità disciplinare, secondo quanto previsto dalla contrattazione collettiva”. L’art. 5, inoltre, prevede, per il lavoratore che abbia subito il comportamento lesivo e non ritenga di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, la possibilità di adire il giudice ex art. 413 c.p.c. e di promuovere il tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c., anche attraverso le rappresentanze sindacali aziendali. Sempre lo stesso art. 5, poi, prevede la condanna da parte del giudice, del responsabile del comportamento sanzionato al risarcimento del danno, da liquidarsi in forma equitativa. In mancanza di ulteriori precisazioni a riguardo, è stato rilevato in dottrina che essa potrebbe ipotizzare il risarcimento del danno biologico, del danno morale ex art. 2059 c.c. slegato dall’integrazione di un reato e del danno professionale (da dequalificazione o perdita di chance di carriera). L’art. 6 stabilisce che “le variazioni nelle qualifiche, nelle mansioni, negli incarichi, nei trasferimenti o le dimissioni, determinate da azioni di violenza morale e persecuzione psicologica, sono impugnabili ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2113 c.c., salvo risarcimento dei danni” come stabilito dall’art. 5 del D.d.l. L’art. 7 prevede che: ”Su istanza della parte interessata, il giudice può disporre che del provvedimento di condanna o di assoluzione venga data informazione, a cura del datore di lavoro, mediante lettera ai dipendenti interessati, per reparto ed attività, dove si è manifestato il caso di violenza morale e persecuzione psicologica, oggetto dell’intervento giudiziario, omettendo il nome della persona che subito tali azioni di violenza e persecuzione”.

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L’art. 8, infine, sancisce la nullità di tutti gli atti o fatti che derivano da comportamenti lesivi, nonché la presunzione, salvo prova contraria ex art. 2728 comma 2 c.c., del contenuto discriminatorio dei provvedimenti, in qualunque modo peggiorativi della condizione professionale, relativi alla posizione soggettiva del lavoratore che abbia posto in essere una denuncia, compresi i trasferimenti ed i licenziamenti.

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Bibliografia Ascenzi A., Bergagio G.L., Il mobbing. Il marketing sociale come strumento per combatterlo, Giappichelli, Torino 2000. Ege H., Che cos’è il terrore psicologico sul luogo di lavoro, Pitagora, Bologna 1996. Ege H., Il mobbing in Italia, Pitagora, Bologna 1997. Leymann H., The Content and Development of Mobbing at Work, «European Journal of Work and Organizational Psychology», 5, 1996. Menelao M. et al., Mobbing: la faccia impresentabile del mondo del lavoro, Franco Angeli, Milano 2001. Monateri P.G., Bona M., Oliva U., Mobbing: vessazioni sul lavoro, Giuffré, Milano 2000

Sitografia www.ilmobbing.it www.unicam.it www.uniroma1.it

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