Tesina sul saggio “ Diritti delle donne e multiculturalismo” di Susan Moller Okin PDF

Title Tesina sul saggio “ Diritti delle donne e multiculturalismo” di Susan Moller Okin
Author Margherita Zuppiroli
Course Mod. i - sociologia generale e delle migrazioni
Institution Università degli Studi di Firenze
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Tesina saggio “ Diritti delle donne e multiculturalismo” Susan Moller Okin Margherita Zuppiroli, SECI. Nel suo saggio, Diritti delle donne e multiculturalismo, la studiosa femminista liberale Susan Moller Okin pone in primo piano il problema della divergenza e della tensione intrinseca che esiste tra multiculturalismo e femminismo. Il primo secondo l’affermazione di Will Kymlicka, il uno tra i più importanti difensori dei diritti dei gruppi minoritari, il quale sostiene che le culture sociali “offrono ai propri membri modi di vivere dotati di senso in un ampio spettro di attività umane […] appartenenti tanto alla sfera pubblica quanto alla sfera privata” e dal momento che “[..] all’interno di democrazie fortemente liberali, le culture o i modi di vivere minoritari non sono sufficientemente protetti dalla pratica che garantisce diritti individuali ai loro membri [..] dovrebbero essere protetti anche mediante speciali diritti o privilegi di gruppo”. Per femminismo, invece, intende quel principio secondo il quale lo svantaggio, la discriminazione, la segregazione, in tutti gli ambiti della vita privata, sociale e politica, delle donne non dovrebbero essere determinati naturalisticamente, a causa cioè del sesso, e “[..] che andrebbe riconosciuta loro la stessa dignità umana degli uomini [..] ed avere la stessa opportunità degli uomini di vivere una vita gratificante e liberamente scelta.”. Le due teorie, almeno apparentemente nelle loro definizioni, sembrano seguire simili linee guida come il rispetto delle differenze, da un lato etniche, dall’altro di genere, e la battaglia per il riconoscimento alle due categorie dei fondamentali principi liberali di autodeterminazione personale e collettiva, libertà di decisione riguardo la gestione della vita ed indipendenza nel determinare il proprio futuro. S. Okin, già dalle prime pagine riporta però argomentazioni che smentiscono questa superficiale vicinanza tra multiculturalismo e femminismo, primo tra i quali, tratta di un fatto avvenuto corso degli anni Ottanta, quando, il governo francese, libero dalle pressioni dell’opinione pubblica che quasi non si espresse riguardo l’argomento, diede il permesso agli immigrati di portare nel paese, ottenendo il ricongiungimento familiare, più di una moglie. Adottando una politica permissiva la poligamia venne così riconosciuta nell’ambito di una pratica propria di una minoranza culturale all’interno di una cultura dominante del paese ospitante. La decisione però, contesta l’autrice, venne presa senza preoccuparsi di andare ad indagare che cosa avrebbe comportato per i singoli componenti della comunità, in particolar modo per le donne, e di come vivessero e considerassero tale pratica. Di fatto quando anni dopo alcuni giornalisti intervistarono quelle donne che colpite direttamente da quel privilegio di gruppo, constatarono che, oltre a considerarlo “un’imposizione insostenibile” in Francia, tolleravano a malapena la poligamia anche nei rispettivi luoghi d’origine.

Il governo francese così, qualche anno dopo, optò per il riconoscimento di una sola moglie, non tanto perché riconobbe cosa comportasse per le donne appartenenti a quei gruppi la poligamia, quanto per motivi economici dati dall’eccessivo carico sul sistema del welfare che queste numerose famiglie rappresentavano. Sorge così il problema di che fine avrebbero fatto “il resto delle mogli” ed i loro figli. Con questo primo esempio Okin illustra, a mio parere, perfettamente la pericolosità insita nelle politiche avventate, in misura ancor maggiore, quando quest’ultime riguardano il riconoscimento di diritti a culture minoritarie e la delicatezza dell’argomento che, oggi più che mai, è impossibile ed immorale, a mio avviso, affrontare mediante trattazioni, idee e politiche superficiali, basate su generalizzazioni e decisioni affrettate che riguardano e colpiscono chi è più debole, tanto diversi gruppi minoritari quanto le minoranze all’interno degli stessi, in particolar modo le donne. Le ragioni, secondo Okin, per cui nel multiculturalismo risiede una componente antifemminista sono date dal fatto che i teorici dei diritti delle minoranze culturali tendono a focalizzarsi principalmente su quelle che sono le differenze tra i diversi gruppi tralasciando così quelle che invece risiedono al loro interno, in particolar modo, li accusa di non riconoscere affatto le strutturali differenze di genere di cui sono imperniate le culture minoritarie, così come quelle maggioritarie in cui vivono, e la poca attenzione che viene prestata all’analisi della sfera privata di queste comunità. Di fatto le principali politiche si occupano di quello che è lo statuto personale delle culture, le leggi che riguardano il matrimonio, il divorzio l’eredità, come, le diverse norme e pratiche volte alla gestione della casa e dei figli, dei quali si occupano principalmente le donne. L’impatto, quindi, andrà a ricadere sulle donne. Okin riconosce un ulteriore nesso tra cultura e genere, quello secondo il quale, uno degli obbiettivi fondamentali delle culture consista nel controllo delle donne da parte degli uomini. Indagando su miti fondativi più diversi, da quelli dell’ebraismo all’islam, dell’antichità greca e del cristianesimo, riconosce come alla base di tutti vi sia una volontà e giustificazione della subordinazione delle donne agli uomini. Molte delle società del mondo sono quindi patriarcali ed adottano pratiche, rituali e rapporti sociali tutti volti al controllo della sessualità ed indipendenza femminile. Per quanto riguarda, ad esempio, la clitoridectomia, pratica che consiste nell’asportazione parziale o totale del clitoride, viene riportata nel testo, parte di un’intervista del New York Times, nel quale, coloro che praticano la clitoridectomia, affermano che “ contribuisce a garantire la verginità delle ragazze prima del matrimonio ed in seguito, riducendo il sesso ad un obbligo coniugale”. È dunque riconosciuto come mezzo per controllare e subordinare le donne, vale anche per la poligamia in quanto le donne

vengono minacciate dai rispettivi mariti che se non si comportano in conformità ai ruoli che gli sono imposti, cambiano moglie. Un’altra pratica ricorrente è quella dei matrimoni imposti, come ad esempio quelli infantili, un modo per poter decidere con chi si sposeranno le ragazze, e dunque di conseguenza, per controllare ed influenzare aprioristicamente il loro futuro e far in modo che arrivino vergini al matrimonio. L’esempio, per me, più brutale tra quelli che riporta l’autrice, è quello in cui le donne stuprate vengono incoraggiate, o addirittura, obbligate a sposare chi ha perpetuato tale violenza nei loro confronti. Questo non tanto per la necessità della ragazza o donna, quanto per l’orgoglio della famiglia di liberarsi di quella che ormai è considerata “merce avariata” o “articolo usato”. Ciò che trapela da tutte queste testimonianze è l’immagine di un mondo fortemente patriarcale, ove, alcune consuetudini sono esplicitamente volte all’asservimento e alla repressione, in particolar modo sessuale, delle donne. Partendo da una motivazione totalmente aprioristica dell’inferiorità del genere femminile, le donne vengono considerate e trattate come semplice oggetto il cui possesso è nelle mani della famiglia prima, per passare in quelle degli uomini, poi, una volta sposata. Le tradizioni e le differenze di genere, inoltre, appaiono in alcuni casi e contesti talmente legate quasi necessarie l’una all’altra, la cultura addotta a giustificazione dei soprusi perpetuati dagli uomini sulle donne e la netta distinzione di genere che, come riportato prima, appare come fondamenta di quasi tutte le culture e religioni, passate ed odierne, che diventano allora quasi indistinguibili, fondendosi sotto la bandiera del patrimonio e della memoria culturale. Fino a questo momento gli esempi hanno tutti trattato di avvenimenti accaduti nei paesi d’origine delle donne; cosa succede però se questi atti vengono perpetuati in un paese cosiddetto “avanzato” o liberale? S. Okin ne riporta quattro tipi di cause in cui la difesa, adducendo a motivazione dei comportamenti dell’imputato fattori culturali, ha avuto maggior successo: 

La pratica dello zij poj niam, o matrimonio per rapimento, propria delle tribù hmong i Laos, per la quale la donna viene rapita e poi stuprata dagli uomini.



L’uxoricidio commesso da immigrati asiatici o mediorientali giustificato dal fatto che le mogli avevano commesso adulterio o non si erano comportate in modo adeguato nei confronti del marito.



La pratica propria delle donne giapponesi e cinesi, le quali, alla scoperta dell’infedeltà del marito, uccidono il figlio e poi tentano il suicidio per la vergogna del tradimento del coniuge.



La clitoridectomia in Francia.

In questi quattro casi ed in casi simili, processati in stati liberali, le testimonianze dei periti riguardo il retroterra culturale degli imputati hanno portato ad una riduzione della pena, all’adduzione della responsabilità penale a tratti culturali ed in certi casi addirittura alla caduta dei capi d’accusa. Anche se si hanno imputati diversi, si evince facilmente chi sarà in fondo a pagare il prezzo più alto: le donne, ed in alcuni casi i loro figli. Sono quindi comunque le donne a dover addossarsi la colpa, ad esempio, della deviazione del principio della monogamia, ed a pagarne le conseguenze. Nonostante queste prove inconfutabili della tensione che si genera tra il riconoscimento dei diritti culturali alle minoranze e quelli delle donne, come afferma S. Okin, tra i teorici del multiculturalismo nessuno si è mai occupato di indagare ed affrontare le problematiche relazioni che sorgono da questo rapporto ed i conseguenti conflitti, quasi sempre a direzione univoca a scapito del genere femminile, comportando così di conseguenza la netta divisione tra multiculturalismo e femminismo. L’autrice, richiamando nuovamente alle argomentazioni di Will Kymlicka, identifica il ruolo cardine che il valore della libertà ha nel pensiero dello studioso. Egli infatti afferma che un “gruppo che reclama diritti speciali deve autogovernarsi secondo principi apertamente liberali senza violare le libertà dei suoi membri.” ed esclude il riconoscimento dei diritti di gruppo per i “ fondamentalisti di ogni credo politico e religioso che pensano che la comunità migliore sia quella in cui vengono dichiarate illegali tutte le pratiche religiose, sessuali, estetiche diverse dalle proprie”. Molte culture non impongono le proprie pratiche e riconoscono, almeno a livello formale, il rispetto delle principali libertà alle donne, tutti requisiti minimi per Kymlicka per poter ottenere il riconoscimento dei diritti di gruppo, ma, nonostante questo, Okin riconosce che molto spesso la discriminazione sessuale non è evidente o dichiarata in maniera formale ed evidente. Difatti in molte culture il rigido controllo sulle donne viene protratto nell’ambiente familiare, nascosto agli occhi dei più, dagli uomini e dalle donne più anziane, come le definisce Okin, cooptate, che limitano le loro libertà ed attentano al loro stesso benessere. Alla luce di ciò l’autrice sostiene quindi che alla costruzione del rispetto di sé e dell’autostima concorrono altri fattori oltre l’appartenenza ad una cultura. Sono di fatto fondamentali “il proprio posto nella cultura”, “la questione se la propria cultura inculchi e imponga particolari ruoli sociali” e la possibilità, per ogni suo membro, di poter riconoscere le diverse imposizioni e di potersene svincolare ed allontanare. In conclusione quindi S. Okin sottolinea l’importanza imprescindibile di un’adeguata ed uguale rappresentanza di tutti i membri, all’interno di quei gruppi minoritari verso i quali vengono rivolte politiche di tutela, che hanno meno potere, al fine di tutelarli dalle imposizioni e oppressioni protratte all’interno della loro stessa comunità.

Come essere umano, e come donna soprattutto, mi trovo d’accordo con l’asserzione principale del saggio e cioè che nessun diritto al riconoscimento della libertà individuale e di gruppo, al conseguimento di una vita autodeterminata, possa essere messo in discussione o addirittura, non riconosciuto, in nome di diritti rivendicati da tradizioni e pratiche profondamente sessiste per la salvaguardia delle differenze culturali. Come nella maggior parte dei casi quando abbiamo un gruppo eterogeneo sia nella composizione che nella sua strutturazione, sono sempre presenti conflitti e tensioni tra i diversi componenti, in maniera più o meno accentuata, che portano quasi sempre alla sopraffazione della minoranza o della componente più debole. È moralmente necessario prestare dunque particolare attenzione alla tutela di quelle donne che oltre a subire discriminazione e subordinazione da parte degli uomini del loro gruppo culturale, sono sottoposte ad un ulteriore dominio poiché appartenenti ad una minoranza culturale. Il tema è dunque molto delicato e difficile da trattare. Tenterò, per quel che mi è possibile, di delineare a grandi linee quelle che sono state le impressioni e riflessioni a riguardo. Prima di tutto vorrei dare una definizione diversa di cultura da quella di Kymlicka riportata dall’autrice. La cultura, a mio avviso, oltre ad essere ciò che “offre agli individui modi di vivere dotati di senso tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata”, è soprattutto quel complesso di elementi attraverso cui i gruppi umani si adattano all’ambiente ed organizzano la propria vita sociale mediante, cioè, istituzioni, tecniche di lavoro, forme di parentela, linguaggio e così via. Tra le due definizioni vedo un’importante differenza; difatti, se nella prima la cultura viene definita come qualcosa che offre parametri agli individui per interpretare, affrontare e gestire la vita, ed è dunque posta come soggetto agente in questi processi, nella seconda è l’individuo che sfrutta la cultura al fine di gestire la propria vita. La cultura, a mio parere, non è dunque qualcosa di immanente nella vita degli individui, quasi come fosse una divinità che incombe sui destini di coloro che vi appartengono e che ne determina incondizionatamente l’esistenza. Non la si può definire semplicisticamente come una peculiarità di un determinato gruppo data ora e per sempre, immutabile, chiusa ed omogenea. Le culture sono infatti costruzioni sociali, frutto dell’azione umana; una sorta di lente attraverso cui il mondo viene percepito, analizzato ed interpretato. Diverse culture, a mio avviso, rispecchiano diverse modalità di quel gruppo di rispondere ed affrontare tematiche basilari dell’esistenza umana quali la vita e la morte, il piacere ed il dolore. Sono poi fortemente disomogenee, con molte contraddizioni e incongruenze e sempre reciprocamente influenzate e, per questo, muta nel corso del tempo adattandosi agli sviluppi e cambiamenti dei contesti in cui è situata e dei membri che vi appartengono. A testimonianza di questo, riporto il fatto descritto da Giovanni Pizza (Antropologia Medica, saperi pratiche e politiche del corpo, Carocci editore, 2016, pag 209) riguardo una pratica tradizionale dei Cuna, osservata dall’antropologo Carlo

Severi, il kirkin-ina, un rito di rafforzamento dell’intelligenza. Un giovane appartenente a questa popolazione, dopo essersi recato a Panama a studiare, si chiude nella tristezza e nel silenzio poiché non riesce a vivere in quel mondo. I genitori si rivolgono così ad uno “sciamano” affinché compia il rito per liberare il ragazzo da quel malessere. Tutti si aspettano che lo “sciamano” lo compia seguendo quelli che sono i gesti tradizionali ma l’uomo compie qualcosa di nuovo: prima di iniziare il rituale brucia il denaro che gli era stato dato come compenso. Per comprendere a pieno la novità, quindi, lo stesso etnografo deve andare oltre quelli che sono gli schemi semplicistici del suo vocabolario che identificano nella figura dello “sciamano” l’esecutore di un ruolo sociale volto a rafforzare, tramandare e conservare un sapere tradizionale. Infatti l’azione di cambiamento del rito intende svalorizzarne la versione tradizionalmente corretta per modificarlo in qualcosa di nuovo. Assume in questo caso un nuovo valore e significato politico invitando a riflettere sui problemi e sulle minacce che potrebbero derivare, non tanto dal fallimento del rito, quanto dal fallimento dell’incontro con il mondo dei “Bianchi”. È questo un esempio di come una pratica tradizionalmente accettata viene messa in discussione e modificata al fine di adattarla ad un nuovo contesto in cui si hanno diverse dinamiche nelle relazioni interpersonali e nuovi protagonisti, a cui, il rito tradizionale, non sarebbe stato in grado di rispondere in maniera efficace. La cultura, se, come detto in precedenza, si tratta di un’ininterrotta costruzione sociale, è stata modifica e influenzata anche dai processi di colonizzazione. Con l’avvio, alla fine del periodo coloniale, della formulazione del principio di autodeterminazione dei popoli, che ha dato la prima spinta al processo di decolonizzazione, e il dilagare dei nazionalismi, si è iniziato ad identificare una cultura come qualcosa di incatenato e dipendente allo stato-nazione in cui si attua. Questa identificazione è del tutto arbitraria soprattutto se riflettiamo, ad esempio, sul fatto che parliamo di una “cultura italiana” identificandola in una popolazione e nazione che fino a nemmeno duecento anni fa nemmeno esisteva come stato-nazione indipendente ed era composta, in parte, dagli stessi che oggi identifichiamo come stranieri. L’appartenenza ad una identità culturale oggi invece, nel pensiero comune, si fonde quasi con l’appartenenza geografica ad un territorio e le identità nazionali ed etniche portando ad una loro strumentalizzazione da dei nazionalismi, molto spesso per rivendicare quelli che erano e sono esclusivamente gli interessi di elite al potere. Anche nel caso del riconoscimento della cittadinanza il processo di costruzione sociale e istituzionale sia del cittadino che dello straniero è dato dalla delimitazione di confini e frontiere che non sono naturali ma territoriali e radicati nella consuetudine e nella cultura. (appunti lezione) Si innescano così nel pensiero e nelle pratiche, sia a livello popolare che politico, processi di discriminazione ed esclusione degli immigrati. Quelli che consideriamo immigrati, però, paradossalmente sono quegli stranieri provenienti da paesi che noi classifichiamo come poveri e lontani dal nostro stile di vita.

Ad esempio il termine extracomunitario, che a livello giuridico indica persone che non appartengono all’Unione Europea, molto spesso ancora viene utilizzato per indicare i rumeni invece degli americani. (S.d.M Maurizio Ambrosini, il Mulino, 2005 p.17). Oggigiorno quindi il razzismo enfatizza non più le differenze basate sul razzismo biologico delle teorie sulle razze, bensì le differenze sociali, culturali e religiose, che creano in ugual modo scarti di potere fra i diversi gruppi sociali. Le identità culturali e comunitarie si fondano e rafforzano grazie anche all’ostilità e l’opposizione di un noi maggioritario agli altri. Questo processo vale ugualmente per le discriminazioni di genere. Il sessismo implica la subordinazione del genere femminile a quello maschile che le considera allo strenuo di una proprietà degli uomini per la riproduzione. Una proprietà prettamente biologica, quale il sesso, è legata a comportamenti, qualità e obblighi creati ed imposti dalle società. Tra sessismo e razzismo si ha quindi un parallelismo, sia per quanto riguarda i processi di differenziazione che fanno perno sull’essenzializzazione, la naturalizzazione e la reificazione, che per il rapporti di dominio e l’idea che il noi maggioritario, oltre ad essere la razza o cultura dominante, sia anche il noi maschile. Inoltre, come nel razzismo l’appartenenza a un gruppo culturale o etnico diverso è ciò che determina l’essenza delle persone che diventano dei tipi rappresentati di una categoria, così nel sessismo il carattere sessuale è distintivo. Il sesso è ciò che determina l’identità delle persone. Così, come detto inizialmente, le donne provenienti da gruppi culturalmente minoritari sono sottoposte ad un doppio dominio. Dopo queste precisazioni ribadisco il fatto che mi trovo d’accordo con i termini generali e le argomenta...


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