Thomas Hobbes e il De Cive, spiegazione antropologico-filosofica PDF

Title Thomas Hobbes e il De Cive, spiegazione antropologico-filosofica
Course Storia moderna
Institution Università degli Studi di Napoli L'Orientale
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Spiegazione inerente a Thomas Hobbes, al contesto politico dell'epoca e al suo De Cive, cui si spiega l'evoluzione delle società e come esse nascano....


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T. Hobbes 1642: esce la prima edizione del De Cive. Hobbes aveva lasciato l'Inghilterra da più di un anno. Sentendosi poco sicuro in patria, aveva raggiunto Parigi: il nuovo Parlamento aveva cominciato a perseguitare i partigiani del re. E in effetti, la pubblicazione di quell'opera era stata anche una risposta alla necessità di combattere le teorie che sostenevano l'azione eversiva delle forze parlamentari nel conflitto aperto con il re Carlo I. Nel De cive, Hobbes consolida la sua antropologia individualistica che farà da sfondo alla teoria contrattualistica dello stato. Non è verò, secondo Hobbes, che l'uomo sia quell'animale politico incline per natura alla società con i suoi simili, così come aveva detto Aristotele. Per rendersene conto, basta osservare il comportamento degli uomini e le loro motivazioni quando si riuniscono insieme: il loro movente determinante è l'utilità, come nel caso delle amicizie dettate da interessi comuni, o l'esibizione e l'autoconferma della propria superiorità o potere, come avviene nelle relazioni mondane e cortigiane. Non si può negare che l'ispirazione principale per le sue prese di posizione, così come la “documentazione” per le sue osservazioni circa i moti dell'animo, provenissero in gran parte dal mondo signorile col quale egli si trovava quotidianamente in contatto. La nota espressione “bellum omnium contra omnes” che sintetizza la concezione hobbesiana dello stato di natura incalzato dal plautino “homo homini lupus” non riflette tanto il fondamento di una generica cultura umanistica quanto l'esperienza – personale e storica – di una società nobiliare individualistica e sfrenata, in continua lotta per la preminenza – ma anche per la sopravvivenza – quale ci viene tramandata dalle Storie inglesi di Shakespeare e che dai tempi della guerra delle Due Rose o anche di Elisabetta, era mutata ben poco nel comportamento (come documenteranno anche certe fasi della guerra civile) se non per qualche concessione esteriore alla vita cortigiana. Hobbes trae quindi la sua conclusione generale, secondo cui l'unico legame che tiene uniti gli uomini è l'utile individuale, cioè il perseguimento di quell'autoconservazione che è il fine di ogni organismo

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meccanicisticamente inteso: da qui il corollario secondo cui “l'origine delle grandi e durevoli società deve essere stata non già la mutua simpatia degli uomini ma il reciproco timore”. Lo “stato di natura” immaginato da Hobbes è riconducibile sia al contesto che precede la fase statuale sia alla condizione naturale dell'uomo quando non vi sono vincoli artificiali a determinarne altrimenti il comportamento. In tal senso tale stato di natura perdura anche dopo la costituzione dello stato e si manifesta in tutti i campi riguardo ai quali lo stato non ha legiferato, come appunto le relazioni commerciali o mondane, o più in generale nell'ambito di quella che si potrebbe chiamare società civile; o anche quando le leggi non hanno sufficiente coercitività, come nel caso di molti conflitti tra potenti, o nella guerra civile. La natura umana, la tendenza all'autoconservazione individuale ai danni dell'altro, preme quindi in tutti gli spazi lasciati liberi dalla coercizione: evidente quindi che, in caso di mancata coercizione, cioè prima che si costituisse una salda autorità statale, questa generale aggressività dovesse essere molto più sfrenata. Tale convinzione è sostenuta, secondo Hobbes, anche dalla documentazione circa gli usi e i costumi delle popolazioni d'America, offerta dalla letteratura di viaggio che incominciava a prosperare. Non è un caso che il frontespizio della prima edizione del De Cive riporti come simbolo dello stato di natura la figura di un selvaggio americano sullo sfondo di una pianura dove tra capanne di paglia e alberi esotici si combattono a colpi di freccia e di clava altri selvaggi. Lo stato di natura è una situazione di uguaglianza. E in tale situazione il più forte non può mai interamente essere sicuro di non venir ucciso dal più debole. Le occasioni di contrasto tra gli uomini – e quindi di morte – sono moltissime poiché, a parte la naturale aggressività di ogni individuo, vi sono ragioni obbiettive di sopravvivenza che inducono gli uomini a contendersi i beni che garantiscono la loro conservazione senza che vi sia alcun criterio restrittivo o distributivo. Dunque, la scarsità delle risorse. Una lotta indiscriminata per l'autoconservazione porterebbe così a una rapida e sicura distruzione. Di fronte a questa difficoltà, la ragione (rappresentata in termini di capacità di calcolo delle probabilità di sopravvivenza) si raffina esprimendosi in una serie di massime prudenziali

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che, vista la fondamentale uguaglianza naturale di tutti gli uomini, hanno una validità generale, nel senso che possono garantire, entro un certo margine, la sopravvivenza di tutti gli individui. Così, ad esempio, risulta più consono alla conservazione cercare la pace che non far guerra, ma se guerra dev'essere, meglio essere in molti, cioè allearsi con altri individui. Per ciò che riguarda le inclinazioni degli uomini dettate dalla legge naturale (ragione), sono riscontrabili sia la massima che consiglia di cercare la pace finché è possibile sia il rispetto dei patti. Le due leggi più importanti ai fini dello sviluppo del discorso hobbesiano sono quella relativa all'associazione degli uomini, a scopo di pace o difesa, e quella relativa all'osservanza dei patti. Peraltro, Hobbes sottolinea come il principio in base al quale pacta sunt servanda (cioè i patti vanno rispettati) è naturale poiché razionale, visto che sarebbe irragionevole stringere un patto per poi non mantenerlo. Hobbes chiama “torto” (iniuria) la violazione di un patto e lo paragona a un : ...v'è una certa somiglianza tra quello che comunemente si suol chiamare “torto” e quello che in filosofia si chiama “assurdo”; difatti, chi è costretto dal ragionamento a negare quel che prima aveva affermato, si dice che è ridotto all'assurdo; e in questo stesso modo chi per debolezza d'animo fa o tralascia di fare quel che prima aveva promesso per patto di non fare, o di non tralasciare, commette un torto; né cade in contraddizione minore di chi, in una discussione filosofica, vien costretto all'assurdo. Queste parole di Hobbes danno la misura del suo formalismo giuridico, che rinvia a una concezione spregiudicatamente laica e materialistica della morale: la violazione di un patto, cioè l'ingiustizia, non è “male” in senso religioso o metafisico, ma è un'incoerenza; e d'altro canto, la motivazione che induce al patto non è un “bene” metafisico, bensì un utile. Detto ciò, l'unica ragione di sottomettersi alla potestà altrui, secondo Hobbes, risiede nel timore di essere uccisi. Al contempo, il concetto di patto, e le considerazioni ad esso legate, consentono a Hobbes di realizzare

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il passaggio dallo stato di natura al Commonwealth, cioè alla repubblica o Stato. Tuttavia, perché tutti gli uomini appartenenti a un certo gruppo rispettino i patti occorre qualcosa di più. Tale qualcosa non è altro che il potere coercitivo. Esso può essere costituito in seguito al trasferimento volontario da parte di tutti del loro diritto su tutto in favore di chi deterrà il potere. Il trasferimento, ovviamente, è solo simbolico perché in realtà quando tutti meno uno rinuncino ai loro diritti si impegnano con ciò a non resistere a quell'uno, e quindi gli consentono di esercitare da solo il proprio diritto su tutto. Il sovrano, in altri termini, è l'unica persona a permanere nello stato di natura: l'unico, quindi, sottomesso alle leggi di natura ma non alle leggi civili da lui stesso promulgate. La rinuncia ai diritti individuali avviene sì attraverso un patto ma questo patto viene stretto tra gli individui rinuncianti e non impegna in alcun modo il sovrano designato. Scrive Hobbes: Questa forma di sottomissione di tutti alla volontà di un solo individuo o di una sola assemblea ha luogo allorquando ciascuno si obbliga mediante un patto verso tutti gli altri a non fare resistenza alla volontà di quell'individuo o di quella assemblea a cui si sarà sottomesso, cioè a non rifiutargli l'uso delle proprie forze o dei propri averi contro chiunque altro; ma si intende bene che egli (il suddito) tratterrà pur sempre il diritto di difendersi dalla violenza. Quest'ultima frase si riferisce ai casi in cui il sovrano attenti alla vita del suddito: nessuno, infatti, si può impegnare a lasciarsi uccidere o ferire, visto che l'autoconservazione è l'unico fine in vista del quale l'individuo si sottomette. Il sovrano, dunque, è al di sopra della legge che egli stesso istituisce, e deve essere obbedito senza discussione. E può farlo perché e in quanto ne ha la forza. Ciascun suddito non solo si impegna a non resistere al sovrano, ma pone anche la sua forza al servizio di lui. Il sovrano riunisce così in sé le prerogative dello stato: la sua volontà è la volontà dello stato, e non

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esiste potere legittimo al di fuori dello stato. Egli (il Leviatano) regge sia la spada della giustizia sia quella della guerra. Esercita la funzione legislativa, nomina i magistrati e ministri e gode di una assoluta impunità, visto che non è vincolato da alcuna legge umana, né da alcun patto con chicchessia. È una concezione assolutistica della sovranità, poiché non tollera condizionamenti, limitazioni o suddivisioni del potere. Inoltre, Hobbes insiste sull'aleatorietà del diritto di proprietà, che può essere sempre revocato, e sull'impossibilità da parte dei sudditi di deporre il sovrano, sia perché è inconcepibile che i tutti i sudditi siano in grado di sciogliersi vicendevolmente dal patto originario sia perché la primitiva rinuncia ai diritti naturali costituisce una “donazione” irrevocabile, visto che il sovrano non ha dato né promesso nulla in cambio. In merito al diritto di proprietà Hobbes ritiene che la proprietà non sia legittimata dal diritto naturale ma solo da quello positivo. L'autonomia del sovrano viene tuttavia temperata dal fatto che egli, oltre a dover tener conto dell'aspirazione dei sudditi alla sopravvivenza, è pur sempre sottoposto alla legge naturale, vale a dire ai dettami della propria retta ragione. La legge suprema del sovrano è la (il benessere del popolo). Ma anche nel caso in cui il sovrano non dovesse aver cura del suo popolo e anche qualora dovesse finire per calpestare le leggi naturali, i suoi sudditi sono ugualmente tenuti ad obbedirlo; ma conservano la loro libertà di rendere omaggio alla propria “libertà di coscienza”. Il potere assoluto immaginato da Hobbes, infatti, non è interessato a un dominio sulle coscienze. Piuttosto è interessato a un dominio sui corpi. Non si preoccupa di controllare le anime, ma si preoccupa invece di instaurare un sistema politico capace di garantire la conservazione fisica dei sudditi. Hobbes trascorre in Francia un lungo periodo, dal 1640 al 1652. Egli perfeziona la sua concezione meccanicistico-materialistica dell'uomo. Se l'uomo va considerato come un meccanismo, che si volge necessariamente

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verso ciò che asseconda il suo ritmo vitale, e che quindi verso ciò che per lui è un bene, viene esclusa a priori ogni capacità di determinazione autonoma da parte della volontà, che invece risulta il semplice risultato finale di un contrasto di movimenti interni che si chiamano appetito e avversione, stimolati da altri movimenti, che si chiamano piacere e dolore. Lo stato di natura immaginato da Hobbes deriva, evidentemente, dal suo modo di concepire gli uomini e la natura degli uomini. Il problema dello stato di natura è la grande incertezza riguardo agli scopi e alle intenzioni degli altri. Quindi, nella misura in cui la brama di dominio e la vanagloria sono psicologicamente possibili, tali passioni costituiscono un elemento di complicazione nello stato di natura. Uno stato generale di incertezza riguardo agli scopi e alle intenzioni degli altri caratterizza lo stato di natura, così che l'interesse alla nostra autoconservazione ci costringe a considerare le eventualità peggiori (Rawls). La forza della tesi di Hobbes, e la ragione per cui è un risultato così significativo, è che le premesse riposano esclusivamente su tratti per così dire normali e più o meno permanenti della vita umana così come potrebbero presentarsi del tutto plausibilmente nello stato di natura. Il punto è: non è necessario che siamo dei mostri per trovarci nei guai seri (Rawls). In altri termini, ciò che Hobbes sta cercando di farci capire è che, anche se tutti fossero mossi da aspirazioni normalmente moderate e se fossimo tutti persone perfettamente razionali, saremmo comunque esposti al rischio di uno stato di guerra se non esistesse un sovrano effettivo dotato di tutti i poteri che Hobbes sostiene che il sovrano debba avere per essere effettivo. Per quanto cattivi possano essere alcuni sovrani, lo stato di guerra è ancora peggiore. La rapacità, la brama di dominio, l'orgoglio e la vanagloria possono essere gravi elementi di complicazione; ma di fatto, non sono necessari per arrivare alla conclusione che lo stato di natura si trasformerà in uno stato di guerra. La semplice possibilità che alcuni siano motivati in questo senso è sufficiente (Rawls). Rawls aveva sotto gli occhi il suo paese dilaniato dalla guerra civile. Ma non si trattava di un caso eccezionale, unico. Bastava considerare le guerre di religione che avevano devastato le società europee del secolo

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precedente. Si poteva supporre che tutti fossero devoti e fedeli alle loro concezioni dell'obbligo religioso, ma ciò non sisgnifica che per questo motivo non potevano essere gettati o finire naturalmente in uno stato di guerra. Nel 1651 Hobbes decide di far pubblicare il suo Leviathan in Inghilterra e poco dopo decide di rientrare in patria. In quel momento Cromwell mostrava di poter garantire quell'ordine e quella stabilità dello stato che tanto stavano a cuore a Hobbes. È evidente come la guerra civile abbia fornito a Hobbes oggetto di meditazione. Ed egli si trova ad affinare molti degli argomenti già trattati nel De Cive. Due sono, principalmente, i nuovi temi di maggior rilievo: il rapporto tra legge naturale e legge civile; e quello tra legge scritta e legge consuetudinaria. Nel Leviatano Hobbes prende la distanze in modo assai critico dai principali sostenitori della tradizione consuetudinaria inglese. La legge del sovrano, infatti, era superiore rispetto al common law. Secondo Hobbes, la legge civile non è altro che la legge naturale munita dell'elemento della coercitività. Questo, però, tende a ridurre di molto l'iniziativa del sovrano, che nella sua attività di legislatore assoluto finisce per essere molto più vincolato al rispetto della legge naturale di quanto non apparisse nelle precedenti opere politiche hobbesiane. In altri termini, nel Leviatano la “ragione” sovrana può esercitare la propria autonomia e il proprio potere solo in quanto le è consentito di “restringere” il campo della legge naturale, cosicché il carattere arbitrario della legislazione civile viene quasi del tutto a cadere. Hobbes, non a caso, riconosce l'esistenza di una sfera del privato, all'interno del quale è concessa al suddito una larga autonomia, che tuttavia può esplicarsi solo grazie al silenzio della legge in proposito. Scrive Hobbes: La libertà dei sudditi risiede quindi solo in quelle cose che il sovrano, nel regolamentare le loro azioni, ha trascurato: come la libertà di comprare, di vendere, e comunque di contrattare gli uni con gli altri; di scegliere il

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proprio domicilio, il proprio tipo di alimentazione, il proprio modo di vivere, e di istruire i propri figli come ritengono conveniente, e simili. Ciò significa che se il sovrano decidesse di legiferare anche in questi campi, la sua azione sarebbe pienamente legittima: dunque questo tipo di libertà dipende ancora una volta dalla volontà del sovrano. Non così per i casi di rifiuto legittimo di obbedienza che Hobbes individua attraverso l'analisi di una serie di diritti all'autodifesa e di circostanze che sciolgono dall'obbligo di obbedienza. In primo luogo, il suddito non è tenuto, neppure se giustamente condannato, “ad uccidersi, ferirsi o mutilarsi” o ad astenersi “da cibo, aria o medicine”. In secondo luogo, se un uomo viene interrogato dal sovrano o da suoi delegati, riguardo a un delitto da lui commesso, non è tenuto (senza l'assicurazione del perdono) a confessarlo; perché nessuno (…) può essere obbligato mediante un patto ad accusare se stesso. Altro aspetto interessante trattato da Hobbes, e nuovo, riguarda il rifiuto di combattere: benché il sovrano abbia sempre il diritto di punire tale rifiuto con la morte, vi sono dei casi nei quali non è illegittimo per il suddito sottrarsi al combattimento: se fugge non per tradimento, ma per paura, “non si deve stimare che lo faccia con ingiustizia, bensì con disonore”. Colui che invece si è arruolato per denaro non può appellarsi alla propria natura timorosa, ed è quindi obbligato ad eseguire qualsiasi ordine del sovrano; l'unica circostanza in cui tutti i cittadini, indistintamente, sono tenuti a combattere, è quella in cui lo stato si trovi in grave pericolo. Hobbes era convinto che i recenti disordini politici inglesi avessero una matrice religiosa e che fossero la conseguenza del frazionamento della religione di stato in sette indipendenti. Queste sette avevano finito per disconoscere l'autorità del potere sovrano in ogni campo, fomentando la ribellione civile. Così, la terza parte del Leviatano è dedicata alla tesi della necessaria subordinazione dei sudditi alla religione imposta dal sovrano, al quale spetta l'esclusivo compito di interpretare le Sacre Scritture, contro ogni pretesa al libero esame e alla libertà di coscienza avanzata dai puritani. In questo modo, il sovrano, che da un lato è tenuto ad obbedire alla legge

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naturale, o divina, con la quale la legge positiva, o civile, non può mai trovarsi in contrasto, viene anche costituito come l'unico giudice dell'autenticità di quella legge divina, che dovrebbe indirizzare il suo operato. Hobbes non pone in dubbio che si debba obbedire a Dio, in caso di contrasto tra legge divina e umana, ma sottolinea che la questione riguarda piuttosto “quando e che cosa Dio abbia detto”. Tale decisione, per l'appunto, viene demandata esclusivamente al sovrano. Ora, grazie all'identificazione dei due poteri – civile e religioso – nella persona del sovrano (il che implica l'identificazione tra Stato e Chiesa), il sovrano risulta nei suoi domini il capo indiscusso della Chiesa e l'unico interprete dell'autenticità e del significato della parola divina, espressa nelle scritture: il suddito, pertanto, non può rifiutargli obbedienza in questo campo, fatta salva comunque l'indifferenza del potere politico per il controllo e governo delle coscienze....


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