Timore E Tremore - S. Kierkegaard PDF

Title Timore E Tremore - S. Kierkegaard
Course Filosofia della storia
Institution Università degli Studi di Genova
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Riassunto completo di TIMORE E TREMORE di S. Kierkegaard, con alcune aggiunte dalle dispense del corso di Filosofia della storia che introducono il testo. ...


Description

TIMORE E TREMORE – Kierkegaard. Premesse dal corso per introdurre il testo. Timore e tremore è una delle principali opere del filosofo danese Søren Kierkegaard, pubblicata nel 1843 con lo pseudonimo di Johannes de Silentio. Il titolo sembra fare riferimento a una frase tratta dalla Seconda lettera ai Corinzi dell'apostolo Paolo, il versetto 7, 15 (capitolo 7, verso 15): «E i suoi teneri affetti sono più abbondanti verso di voi, mentre ricorda l'ubbidienza di tutti voi, come l'abbiate ricevuto con timore e tremore». Timore e tremore mostra supposizioni originali di Kierkegaard sul sacrificio di Isacco fatto da Abramo (Genesi, 22 – capitolo 22) ed utilizza la vicenda come un'occasione per discutere i problemi fondamentali della filosofia morale e della teologia, come la natura di Dio e della fede, le relazioni tra fede, etica e morale, e la difficile impresa di essere veri cristiani. La struttura dell'opera è la seguente. Dopo l'Introduzione, vi è un capitolo intitolato Atmosfera, diviso in quattro bevi sezioni, che ricostruisce il fatto del sacrificio di Isacco; poi un Elogio di Abramo, visto come la perfetta incarnazione del «cavaliere della fede»; seguono tre Problemata, ovvero questioni, introdotte da una Effusione preliminare, e cioè: 1, Esiste una sospensione teleologica della morale?; 2., Esiste un dovere assoluto verso dio?; e 3., Si può giustificare moralmente il silenzio di Abramo con Sara, Eliezer e Isacco? Infine chiude l'opera un breve Epilogo. ***Abramo e Isacco: un giorno, Abramo vide davanti alla sua tenda tre uomini e li invitò a riposarsi. Diede loro dell'acqua per lavarsi i piedi e Sara preparò delle focacce e del vitello da mangiare. Essi si riposarono e mangiarono. Al momento di andare via, assicurarono che Sara, l'anno successivo, avrebbe avuto un figlio. Sara, all'udire queste parole si mise a ridere, perché era troppo vecchia per avere un bambino. Allora i viandanti risposero dicendo che niente è impossibile a Dio. L'anno dopo, a primavera, Sara ebbe un figlio e lo chiamò Isacco, cioè «sorriso di Dio». In seguito a ciò scoppiò una violenta gelosia tra Sara e Agar, schiava egiziana di Sara che da quest’ultima offrì al marito in quanto non capace di dare figli al marito; dall’unione di Abramo e Agar nasce Ismaele. La lite di gelosia tra Sara e Agar arriva al punto che Abramo decise di allontanare nel deserto Agar e suo figlio Ismaele, dando loro un pane e un otre d'acqua. Quando Isacco era già un ragazzo, Dio mise alla prova Abramo: gli disse di andare sul monte Moria e di sacrificare suo figlio Isacco. Abramo accettò, ma mentre legava Isacco per il sacrificio, apparve un angelo che gli disse di fermarsi perché Dio aveva apprezzato la sua ubbidienza, benedicendolo "con ogni benedizione". ** Secondo Kierkegaard esistono 3 modalità esistenziali che si escludono a vicenda (aut aut); le sfere sono quella estetica (indifferenza nei principi e valori morali, ma solo valore del piacere e del piacevole; l’esteta ha l’unico obbiettivo di vivere momento per momento, senza un progetto o un fine, ma consumando una somma infinita di attimi di piacere che però non permangono; tuttavia chi non sceglie e si dedica solo al piacere cade ben presto nella noia, cioè nell'indifferenza nei confronti di tutto, perché, non impegnandosi mai, non vuole profondamente e sentitamente nulla), quella etica (nello stadio etico, l'uomo vive conformemente a ideali morali e cerca di assumersi delle responsabilità. Sceglie fra il bene e il male e accetta i compiti seri della famiglia, del lavoro, dell'impegno nella società, dell'amor di patria e affronta serenamente i sacrifici necessari per restare fedele a tali compiti. Kierkegaard, nell'illustrare questo tipo di vita, ha presente il momento dell'eticità descritto da Hegel, cioè il momento in cui lo spirito oggettivo si incarna nelle istituzioni della famiglia, della società civile e dello Stato. La figura del "marito", cioè dell'uomo che ha scelto una sola donna e ha accettato i doveri del matrimonio, è per Kierkegaard l'emblema dello stadio etico. Anche la vita etica appare, però, limitata. Infatti, l'eticità è spesso caratterizzata dal convenzionalismo e dal conformismo. Nell'adesione a una legge generale, l'uomo che vive eticamente non riesce a valorizzare appieno la sua autentica individualità, rischia di perdersi nell'anonimato, di non trovare davvero in se stesso la più intima e profonda personalità. Chi sceglie la vita etica e si assume delle

responsabilità sociali, chi diventa, per esempio, giudice o militare, o uomo politico, fa solo ciò che fa la gente; fa solo ciò che "si" fa; pensa solo ciò che "si" pensa. L'uomo etico se sceglie se stesso fino in fondo raggiunge la propria origine, Dio, di fronte alla sua infinitezza non può che provare inadeguatezza morale e senso di colpa) e infine quella religiosa (Kierkegaard descrive lo stadio religioso nell'opera Timore e tremore la quale, fin dal titolo, preannuncia l'atteggiamento dell'uomo davanti alla divinità. L'uomo realizza veramente sé stesso come singolarità, come individuo, solo nella sfera religiosa. Innanzi tutto, quando l'uomo si pone di fronte a Dio, deve abbandonare le finzioni, i mascheramenti e le illusioni. Si mostra a Dio e a se stesso nella sua vera individualità, nella sua autenticità di peccatore. L'esperienza religiosa prova l'esistenza di un'interiorità nascosta nell'uomo, cioè di una dimensione interiore profonda e individuale, in cui avviene il rapporto personale con Dio. Inoltre, l'uomo che si pone solo davanti a Dio ha la possibilità di affermarsi come singolo, perché Dio può prescrivergli un comandamento singolare che sfida e offende le leggi dell'etica. Nella vita etica, per Kierkegaard, l'uomo conosce cos'è buono e giusto e cosa non lo è; nella sfera della religione invece non può più appigliarsi a questi valori. Egli è solo, completamente solo davanti a Dio. L'uomo religioso, "il cavaliere della fede" per eccellenza è incarnato da Abramo, le cui vicissitudini vogliono sottolineare come, nel momento in cui entriamo in rapporto con Dio, con il fine supremo e ultimo della nostra vita, tutto il resto, anche la conformità alle regole etiche, deve eclissarsi: nella religione ci dobbiamo abbandonare completamente a Dio ed avere fede in Lui al di sopra di tutto, come fece Abramo, anche contro i dettami dell'etica. Non c'è dunque continuità fra la vita etica e quella religiosa. Tra esse, anzi, c'è un abisso ancora più profondo che tra l'estetica e l'etica. La vita religiosa è esistenza vissuta al di fuori e al di sopra dell'etica, in conformità con la fede). *Lo stadio religioso e il paradosso della fede Abramo esegue il comando divino di sacrificare il figlio Isacco e, affinché questi non perda la fede, presenta se stesso come il vero e unico responsabile di tale orribile proposito. Kierkegaard sceglie questa figura per mostrare il drammatico momento della collisione tra la volontà morale, che rimane circoscritta nell'immanenza, e il comando della fede, il cui paradosso istituisce l'ambito della trascendenza. La drammatica ambiguità della figura di Abramo sta nell'essere sospesa fra l'immoralità più esecrabile, in una prospettiva etica, e 1' "eroicità" dal punto di vista religioso. Con la figura di Abramo siamo dunque già oltre l'etica, intesa sia nella dimensione individuale sia in quella sociale dell'eticità hegeliana. La fede, infatti, istituisce un movimento dialettico per cui il Singolo va oltre la sfera etica nella quale si trova. Il religioso è per Kierkegaard uno stadio della vita più alto dell'etico, al punto che l'etica si presenta qui come «tentazione» di sfuggire al comando divino. L'essenza del cristianesimo, per Kierkegaard, è il suo carattere paradossale, cioè il fatto che non si lascia comprendere razionalmente, mediare attraverso il pensiero (la polemica è rivolta a Hegel). Non vi è un rapporto mediato tra particolare e universale, ma un rapporto assoluto fra Singolo e Dio. Illuminante in proposito è, nella seconda parte del testo, il paragone fra la figura di Abramo e quella dell'eroe tragico: in entrambe, si manifesta il conflitto irredimibile tra volontà e destino, tra particolare e universale. Ma l'eroe tragico è individualità che agisce sempre entro un contesto etico collettivo (che nella tragedia è rappresentato dal coro). In questo aspetto è del tutto diverso da Abramo, il "cavaliere della fede", la cui singolarità è assoluta. Abramo non può neppure spiegare quello che gli accade, non può esprimere il suo conflitto: ciò lo distanzia visibilmente dalle urla e dalle lacrime dell'eroe tragico, cui risponde il coro. Il paradosso della fede non è né comprensibile né comunicabile.

INTRODUZIONE. Nell'introduzione, Kierkegaard esordisce immediatamente e quasi brutalmente con un ironico ma estremamente deciso attacco contro il clima filosofico e, più in generale, spirituale, instaurato dall’hegelismo e dal post-hegelismo, verso la metà dell'Ottocento. Racchiude già pienamente consapevole e compiuta la critica del sistema e dell'hegelismo, criticato principalmente per via della risoluzione della fede come momento che va oltrepassato nel divenire dello Spirito.

È per queste stesse ragioni che Kierkegaard, che rifiuta per sé l'appellativo di filosofo e che si presenta solo come uno «scrittore dilettante», prevede che la sua sorte sarà quella di essere del tutto ignorato, in un mondo di sapienti che già conoscono tante cose più di lui. Ammette, inoltre, di non essere il portatore di un pensiero sistematico, per cui sarà compito sin troppo facile sezionare e demolire il suo libro con una minuziosa acribia professorale. ATMOSFERA. Capitolo breve, che ha l’incipit favolesco di C’era una volta – un uomo che durante la sua infanzia aveva udita la bella storia di Abramo messo alla prova da Dio (…); qui il lettore vi scorge subito una velata allusione autobiografica, poiché ben presto appare chiara che l'autore sta parlando di se stesso e della sua infanzia, quando qualcuno - il padre, probabilmente - gli leggeva brani della Bibbia, e la storia di Abramo e Isacco doveva averlo particolarmente colpito, proprio perché esemplare del " paradosso" della fede. Successivamente si confessa che man mano che quest’uomo invecchiava, il suo pensiero tornava sempre più di frequente a quella storia, con una passione sempre più grande, ma, tuttavia, la comprendeva sempre meno; ed ecco il tema: la meravigliosa apertura dell’infanzia, nella sua disponibilità ad accogliere il mistero e il paradosso della fede, e per contro, la rigidità di una mente adulta razionale, che al contrario offusca le verità della fede, considerate da molti incomprensibili. Kierkegaard, nell’anonima veste di quest’uomo, si interroga sulla figura di Adamo nell’episodio del sacrificio di Isacco, ed espone quattro alternative su come si sarebbe potuta svolgere la scena, 4 possibilità, 4 varianti che raccolgono tutti i dubbi, i tormenti, timori che Kierkegaard vive laddove tenti di comprendere Abramo di immedesimarsi nella sua storia:  La possibilità della finzione di Abramo che si fa credere da Isacco un mostro piuttosto che rischiare che Isacco perda la fede in Dio: Kierkegaard rievoca (con le parole della Bibbia) il comando di Dio ad Abramo di offrirgli in olocausto il figlioletto; rievoca la partenza dei due, di primo mattino, il commiato da Sara, la marcia a dorso di mulo fino al monte Moriah, l'inizio della salita. Isacco, guardando suo padre, capisce quel che lo attende in quanto vede il suo volto mutato, e comincia a scongiurare suo padre di risparmiargli la vita. Allora Abramo, improvvisamente, lo getta a terra e gli grida che non lo sacrificherà per offrire un sacrificio a Dio, poiché lui, Abramo, è un idolatra e fa quel che gli pare. Isacco, sentendosi perduto, prega Dio e lo invoca come il suo unico, vero Padre; a lui chiede misericordia. Abramo, dal canto suo, è sollevato: ha finto di disprezzare Dio perché Isacco, prima di morire, non perdesse la fede in Lui, cosa che sarebbe avvenuta se avesse detto al figlio che si apprestava ad ucciderlo per obbedire a un ordine divino.  La possibilità della perdita della gioia come conseguenza dell’assurdo vissuto: in questo secondo racconto Abramo non parla, prepara in silenzio il sacrificio e in silenzio lega il figlio Isacco. Scorge poi il capro (ariete) inviato da Dio per la salvezza di Isacco e gli permette di tornare a casa col figlioletto, ma la prova affrontata è stata tale da mettere in dubbio la sua certezza nella bontà di Dio (la sua fede), e fargli perdere la gioia. «Da quel giorno, Abramo fu vecchio; non poteva dimenticare ciò che Dio aveva preteso da lui. Isacco continuò a crescere. Ma l'occhio di Abramo si era fatto cupo; non vide mai più la gioia».  Nel terzo capitoletto si indagano i pensieri di Abramo dopo aver compiuto il gesto, l'impossibilità da parte dello stesso Abramo di giustificare i suoi atti, di uscire dal paradosso in cui la richiesta di Dio lo ha gettato: da un lato egli chiede perdono a Dio per non aver rispettato i suoi doveri di padre, accettando di sacrificare il figlio («Ci può essere infatti un peccato più terribile?»); dall'altro non può esser peccato aver rinunciato a quanto di più caro per richiesta di Dio. Questa situazione senza via di uscita lo getta nello sconforto.  Nel quarto racconto si narra della possibilità che questo episodio porti Isacco a perdere la fede, perdita dovuta principalmente alla disperazione vissuta da Abramo per questa vicenda, disperazione che viene letta e riconosciuta dallo stesso Isacco che, come conseguenza, perde la fede, senza rivelare mai nulla al padre. ELOGIO DI ABRAMO.

In questa parte dell’opera Kierkegaard mostra la figura di Abramo quale "eroe della fede". Vi sono diversi modi di essere eroi, di essere grandi: ci furono uomini grandi per la saggezza, la speranza o l’amore; ma chi amò Dio e seppe avere ciecamente fede in Lui fu il più grande di tutti: Abramo. Ha inizio, così, l'elogio di Abramo. Egli, ormai anziano, ebbe un figlio da Sara, anch'ella di età avanzata. Un giorno Dio parlò ad Abramo, ordinandogli di lasciare la sua terra e di dirigersi nella terra che lui gli avrebbe indicato. Tra le promesse che Dio fa ad Abramo c’è quella di una numerosa discendenza. Nonostante il tempo passasse senza che la promessa di Dio di concedere loro una enorme discendenza non si realizzasse, Abramo non dubitò, non si lamentò con Dio, credette all'assurdo e per questo la promessa si poté compiere: la gioia era scesa sulla sua casa, Sara annuncia di essere incinta; Dio aveva compiuto il miracolo. Ma ecco che Abramo viene messo un’altra volta alla prova, la prova più assurda, più dolorosa, una prova limite: Dio stesso che, un attimo prima, lo aveva reso felice, ora chiede in olocausto la cosa a cui Abramo tiene di più, Isacco, il suo unico figlio legittimo. E come reagì Abramo? Egli credette e non dubitò. Credette l’assurdo. Se invece avesse dubitato avrebbe agito altrimenti, avrebbe sacrificato se stesso a Dio, risparmiando Isacco. Se Abramo fosse stato un grande secondo la misura degli uomini, sarebbe salito sul Monte Moriah e avrebbe sacrificato sé stesso, pregando Iddio di accettare quell'estremo sacrificio, e non l' altro, quello dell'unico figlio. Ma la grandezza di Abramo era superiore alla misura umana, ed egli, col cuore serrato nella morsa dell'angoscia, levò il coltello contro Isacco. Egli non dubitò: la richiesta veniva a Dio, dunque bisognava obbedire. E credere. Così, in virtù di quella fede erica, Abramo fu degno di riavere ogni cosa: il figlio gli venne lasciato, e non gli sarebbe stato richiesto mai più. Aveva superato la prova e vinto la battaglia. Abramo, padre della fede, fu il più grande tra gli uomini, e mai andò altre la fede (perché non vi è un oltre, è un’assurda pretesa umana – o hegeliana, nel superamento arte, religione, filosofia). E nel ritratto di Abramo, dell'uomo che sacrifica al comando di Dio il proprio bene più alto, l'ultimo figlio ottenuto quasi per grazia al culmine degli anni, scorgiamo non già un autoritratto fedele dell’uomo Søren Kierkegaard, bensì una proiezione ideale, un ritratto immaginario di quell'homo religiosus che il pensiero kierkegaardiano, in tutte le fasi del suo svolgimento, ha tracciato come valore supremo dell'esistenza.

PROBLEMATA. In questo capitolo Kierkegaard affronta tre specifici problemi filosofici che nascono dalla storia del sacrificio di Isacco. I problemi affrontati sono i seguenti: - PROBLEMA 1: esiste una sospensione teleologica della morale? - PROBLEMA 2: esiste un dovere assoluto verso Dio? - PROBLEMA 3: si può giustificare moralmente il silenzio di Abramo con Sara, Eliezer e Isacco? Effusione preliminare. Prima di affrontare i singoli problemi sono necessarie delle precisazioni; Si dice di Abramo, mediante un’espressione eccessivamente generale, che egli fu grande per aver amato Dio al punto di avergli sacrificato quando aveva di meglio; tuttavia quel “meglio” è assai vago. Ad esempio, se un giovane ricco avesse venduto tutta la sua fortuna e avesse distribuito ai poveri tutto il suo ricavato, noi loderemmo la sua condotta come qualcosa di grande; tuttavia egli non sarebbe equiparabile ad Abramo per il fatto di aver sacrificato quanto aveva di meglio! Quel che si omette, nella storia di Abramo, è l’angoscia. Perché, mentre non sono legato da nessun obbligo morale verso il denaro, il padre è legato dal più nobile e sacro di quegli obblighi verso suo figlio. Inoltre, l’atto compiuto da Abramo è nobile se compiuto da lui, ma se compiuto da un altro allora diventa reato, un rivoltante peccato. Infatti voler imitare Abramo non deve significare ripercorrerne la vicenda: Dio non mette alla prova ogni uomo chiedendogli di sacrificare il proprio figlio. Ogni vicenda umana è diversa, e il rapporto con Dio esalta e realizza pienamente questa diversità: Dio entra in relazione con ogni uomo in modo unico e speciale. La prova di Abramo non è la prova di un altro uomo. Chiunque,

ascoltata la storia di Abramo, decidesse di uccidere i propri figli per offrirli in olocausto a Dio, commetterebbe reato e peccato. A questo si collega la seguente riflessione: il gesto di Abramo può essere giudicato in due modi diversi, a seconda che lo si consideri dal punto di vista della morale o dal punto di vista della fede: «Dal punto di vista morale, la condotta di Abramo si esprime dicendo che volle uccidere Isacco; e dal punto di vista religioso, dicendo che volle sacrificarlo. È questa la contraddizione angosciosa capace di produrre l'insonnia e senza questa angoscia, tuttavia, Abramo non è l'uomo che è». La fede, la vera fede che Abramo dimostra è quanto di più difficile vi sia da raggiungere e da realizzare; ed è qui che Kierkegaard inserisce una irriverente critica al sistema filosofico di matrice hegeliana: K. Si convince che è sicuramente molto difficile comprendere Hegel, mentre al contrario comprendere la storia di Abramo è quasi uno scherzo; e per conto suo, K. Ha impiegato molto tempo nello studio di Hegel, ma, dopo sforzo e dedizione, crede di averlo abbastanza capito; ma quando si ferma a riflettere su Adamo, sulla sua storia e la sua vita, allora è come annientato, paralizzato. Il suo pensiero si fa incapace di penetrare il paradosso che è la sostanza della vita di Adamo, che sempre ha riposto fede e speranza nell’assurdo che, alla fine, si è realizzato. Qui è evidente la critica a un tipo di filosofia che si vuole onnicomprensiva e onniesplicativa, come quella hegeliana. Pretendere con la ragione di cogliere il problema della fede e di risolverlo è presunzione. A stupire Kierkegaard è, infatti, la disinvoltura con la quale i credenti dicono di poter comprendere la storia di Abramo; perché in essa vi è, al contrario, qualche cosa di umanamente incomprensibile e perfino di repulsivo. Né manca una frecciata, incidentale, contro Hegel e la sua dialettica; la frecciata principale, però, è contro la faciloneria di quei filosofi, magari "cristiani", che dicono di trovare più semplice la storia di Abramo che il sistema hegeliano: «Dev'essere difficile comprendere Hegel; ma Abramo! Uno scherzo. Superare Hegel, è un prodigio; ma superare Abramo, nulla di più facile!». Dopo aver condiviso tutte queste riflessioni sulla storia di Abramo, Kierkegaard confessa di conoscere i pericoli della vita, e di non temerli, anzi, di affrontarli coraggiosamente; tuttavia è consapevole...


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