3. Il Quattrocento fiammingo PDF

Title 3. Il Quattrocento fiammingo
Author Noemi Paduano
Course Storia dell’arte moderna
Institution Università degli Studi di Macerata
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Quattrocento fiammingo, contesto storico e opere...


Description

IL QUATTROCENTO FIAMMINGO La scoperta del reale attuata a Firenze da Masaccio, ha un parallelo in quella compiuta negli stessi anni, sia pur con modi diversi, nelle Fiandre da Jan van Eyck e da altri maestri, che fanno del Quattrocento fiammingo l'altro grande punto di riferimento culturale per l'Europa del tempo. I paesi fiamminghi (che comprendevano, oltre alla Fiandra propriamente detta, Artois, Brabante, Hainau, Limbourg e, più a nord, Olanda e Zelanda) godono, all'inizio del XV secolo, di una rinnovata prosperità. Le attività manifatturiere e commerciali acquistano particolare vigore in seguito all'annessione al potente ducato di Borgogna (1384). Filippo II l'Ardito prima e più tardi Filippo il Buono riescono, infatti, a mantenere un sapiente equilibrio tra le esigenze di un potere centralizzato e le tradizionali autonomie locali, in modo da non soffocare la vitalità dei commerci. Data anche la posizione geograficamente favorevole delle città maggiori (Gand, Bruges, Ypres), si tratta in prevalenza di commerci di transito, che stimolano una vivace attività finanziaria, sovente promossa da banche straniere (non ultime quelle italiane), che vi impiantano le loro filiali. Ciò contribuisce alla formazione di una società cosmopolita, agiata e culturalmente aperta, attivamente interessata alla produzione figurativa. Forse per la prima volta la committenza borghese eguaglia, se non supera, quella aristocratica.

Il polo di maggiore importanza della vita culturale resta però la corte, soprattutto dopo la decisione di Filippo il Buono di trasportare la sede ducale da Digione a Bruxelles (1419). Per coglierne il peso culturale si pensi alla ricchezza della sua biblioteca o all'importanza che, nell'evoluzione della musica rinascimentale, ebbe la cappella ducale. La fondazione, nel 1426, dell'Università di Lovanio, costituisce poi un logico sbocco di tale fervore culturale. È all'interno di questa varia fioritura che deve essere collocata la nuova pittura di Jan van Eyck. Gli elementi di somiglianza tra la società fiamminga e quella fiorentina non devono tuttavia far dimenticare le differenze profonde che esistono tra le due culture: basti pensare alla diversa sensibilità religiosa, fondamentale in un’epoca in cui il pensiero e le forme religiose incidevano sui più vari aspetti della vita. Già a partire dalla fine del Trecento, anche in relazione alle vicende dello Scisma d'Occidente (1378), si era diffusa nei paesi nordici la necessità di un più stretto e personale rapporto tra l'uomo e Dio, che comportava l’intima partecipazione del fedele nei confronti di alcuni temi come la passione di Cristo e la figura di Maria. Alla religiosità privata si legano sia la diffusione dei libri di preghiere per laici, sia la proliferazione di immagini devozionali, destinate a fornire spunti emotivi che favorissero l'identificazione dello spettatore con il fatto sacro; per questo l'immagine doveva essere concreta, ricca di dettagli minuti e precisi. In una situazione mentale e spirituale influenzata da tale atteggiamento affonda le sue radici il “realismo fiammingo”.

JAN VAN EYCK Indiscusso artefice del rinnovamento fu JAN VAN EYCK (Maaseik c. 1390 - Bruges 1441), la cui opera è cronologicamente parallela a quella di Masaccio, con la quale presenta anche esteriori punti di contatto. Come a Firenze, anche in area fiamminga la Mostra attualmente in svolgimento a Gand e che terminerà il 30 aprile cultura figurativa tardogotica era vivace e godeva di prestigio presso le più varie classi di committenti. Scultura e, soprattutto, architettura, si manterranno ancora a lungo nel solco della tradizione internazionale, come dimostra, ad esempio, la chiesa di Saint Pierre a Lovanio, costruita tra il 1425 e il 1475 (figura 1). Al tradizionale tema costruttivo della pianta basilicale con deambulatorio e coro circondato da cappelle radiali, si unisce qui un'animazione di superficie ottenuta con una ricca decorazione e con l'utilizzo di numerose e grandi finestre, che mira a integrare l'edificio con lo spazio atmosferico, mentre lo spazio interno intende essere rappresentazione dello spazio infinito. La pittura invece si porrà all'avanguardia del rinnovamento, pur Figura 1: Veduta absidale della cattedrale di Saint Pierre a Lovanio

senza superare e rifiutare decisamente, come avviene in Masaccio, il mondo gotico. Jan van Eyck opera sottilmente all'interno della tradizione, conducendo da solo una

"riforma" straordinaria, anche se non sostenuta da un'adeguata consapevolezza critica da parte degli intellettuali: l'ambiente artistico fiammingo non conosceva la feconda dialettica e la riflessione critica che rendevano tanto stimolante il mondo fiorentino. Le prime opere Il forte legame che unisce Van Eyck al mondo gotico emerge già dal fatto che le sue prime opere a noi note siano miniature. Si tratta di alcuni fogli delle cosiddette Ore di Torino, eseguite all'Aja per Giovanni di Baviera tra il 1422 e il 1424, prima di entrare al servizio di Filippo di Borgogna (1425). In essi l'attenzione alla natura, già viva nelle opere di Broederlam o dei Limbourg, viene approfondita e maturata in un senso che si può cogliere agevolmente confrontando la carta con la Nascita del Battista (figura 2) con il Mese di Giugno (figura 3) nelle Très Riches Heures du duc de Berry dei Limbourg, presso la cui bottega Jan si era probabilmente formato. In quest'ultima miniatura gli spazi sono appena accennati, le figure appaiono estranee allo sfondo, semplicemente giustapposte ad esso; la luce onni presente non ha un ruolo costruttivo e unificante, tanto che, malgrado la minuzia naturalistica di certi particolari (l'erba tagliata che muta colore, le vesti dei falciatori, gli alberelli che orlano il corso d'acqua), l'impressione complessiva è quella di una raffigurazione di favola, in cui i personaggi si muovono con ritmi da balletto. Le immagini da lui create sono invece caratterizzate dalla

Figura 2: Jan Van Eyck, La nascita del Battista e il battesimo di Cristo, 1417-24, cm 13x10, miniatura dal libro d'ore Torino-Milano, Torino, Musei civici

completa integrazione di figure e paesaggio, grazie alla luce che unifica lo spazio, vi fissa i personaggi (si vedano Cristo e il Battista) e, nello stesso tempo, con il suo vario percorso, delinea i singoli oggetti che arredano la stanza di santa Elisabetta, ferma il gesto naturalissimo della donna che trattiene il bambino, coglie il riflesso di un raggio di sole sulla cima degli alberi. Jan Van Eyck è ritenuto l’inventore (considerato oggi piuttosto il perfezionatore, soprattutto per quanto riguarda l’asciugatura) della pittura ad olio; la tecnica permise ai pittori fiamminghi di rappresentare la realtà materiale in tutti i più minuziosi dettagli. La realtà e la tecnica Anche Van Eyck dunque si pone il problema della realtà, ma adotta soluzioni diverse. Masaccio opera una sintesi, coglie la struttura, Figura 3: Pol de Limbourg, Il mese di Giugno, 1415 l'essenza delle cose, in una visione prospettica unitaria, governata dalla razionalità. Jan van Eyck invece procede per analisi, partendo dai singoli, innumerevoli oggetti che si presentano ai nostri sensi. Tale

metodo potrebbe anche rapportarsi alla filosofia nominalistica, assai diffusa nei paesi nordici, la quale sostiene che la sostanza della realtà proviene a noi attraverso i singoli oggetti percepiti. Tutto ciò trova un preciso corrispettivo nelle differenti tecniche usate dai due pittori: Masaccio modella potentemente col chiaroscuro, servendosi di una stesura quasi compendiaria (figura 4); Van Eyck, valendosi prevalentemente della tecnica a olio, opera invece attraverso successive velature di colore- Figura 4: Masaccio, Il battesimo dei neofiti, 1424-27 luce, traslucide e trasparenti, definendo la varietà delle superfici e i più minuti particolari (figure 5 e 6). Figura 5: Jan van Eyck, Adamo, 1426-32

Figura 6: Masaccio, Adamo, 1424-27

Lo spazio È questo l'elemento che permette di misurare in tutta la sua ampiezza il divario tra le due "scuole", italiana e fiamminga, come chiarisce il paragone tra un'opera celeberrima quale il Ritratto dei coniugi Arnolfini (figura 7) e lo scomparto della predella della Pala di San Marco di Beato Angelico con la Guarigione del diacono Giustiniano (figura 8). Anche se l'Angelico è uno degli artisti più sensibili ai problemi della luce tanto da essere ritenuto un parallelo italiano di Van Eyck, un autentico abisso separa i due dipinti. Il vano dipinto dall'Angelico è costruito servendosi di un unico punto di fuga, mentre nell'opera di Van Eyck ne compaiono quattro; l'italiano si serve della prospettiva per creare un piccolo mondo perfettamente ordinato, dove una precisa fonte luminosa – con le relative ombre portate Figura 7: Jan van Eyck, I coniugi Arnolfini, 1434 definisce singole forme e reciproci rapporti nello spazio e dove l'azione si svolge sotto gli occhi di uno spettatore che resta comunque esterno al quadro. La stanza nella quale sono ritratti gli Arnolfini è invece tagliata in modo da dare l'illusione di uno spazio che include anche lo spettatore. L'uso, tanto comune tra i fiamminghi, dell'orizzonte alto, risponde alla stessa esigenza di comprendere anche chi guarda dentro la scena che, Figura 8: Beato Angelico, La guarigione del diacono Giustiniano, 1438-40

in tal modo, diventa presenza concreta, ambiente

che avvolge. Lo spazio si apre all'esterno verso il paesaggio che si intravede dalla finestra e, all'interno, viene raddoppiato dallo specchio che riflette le spalle dei protagonisti (figura 9). Nell'ambiente fiammingo la luce è inoltre un medium fluido che unifica, individuando con la stessa attenzione non selettiva l'infinitamente piccolo e l'infinitamente grande, il lontano e il vicino. L'uso di fonti luminose diverse moltiplica ombre e riflessi; differenzia le superfici: con la sua varia intensità dà vita al panno, alla pelliccia, al legno e al metallo. Ne rende il "lustro", cioè lo specifico reagire ai raggi luminosi. Il quadro fu commissionato da Giovanni Arnolfini, lucchese, uno dei più facoltosi commercianti di Bruges, che è ritratto insieme alla moglie Giovanna Cenami, nell’atto di pronunciare il solenne giuramento di fedeltà matrimoniale. Perciò la cura con cui è reso l’interno borghese non ha soltanto funzione di caratterizzazione sociale, ma ogni particolare viene caricato di significati simbolici legati al matrimonio (la candela, l’amore o la vita, e il cane, simbolo della fedeltà coniugale: simbolismo nascosto). Allo stesso modo si spiegano l’inconsueta ambientazione nella stanza da letto e la solennità del gruppo, accentuata dall’impianto simmetrico. La pregnanza simbolica è tale che il ritratto diviene quasi un sostituto della realtà, un documento ufficiale che garantisce dell’avvenuto giuramento tra i coniugi alla presenza di due testimoni. In tale senso va interpretata la firma del pittore: “Johannes de eyck fuit hic” posta sopra lo specchio che lo ritrae mentre entra nella stanza con l’altro testimone. L'uomo In una simile visione l'uomo non è certo l'unico protagonista; è solo una delle parti di un universo ricchissimo, non riducibile all’unico principio ordinatore della ragione. In tale visione i gesti e le azioni dell’uomo non hanno una funzione culturale, non fanno "la storia". Se tutta la realtà ha una valenza fortemente simbolica, ogni oggetto vale per sé, per la sua bellezza, ma rimanda anche a un significato che lo trascende. Nasce così la straordinaria ricchezza di significati e di piani di lettura dei quadri fiamminghi, favorita dagli stessi artisti, che si divertono a giocare con le ambiguità dell'apparenza, introducendo specchi e riflessi che raddoppiano le immagini (figura 9: in questo caso il compito di riflettere le immagini spetta all’armatura di san Giorgio e, soprattutto, all’elmo, nel cui lobi compaiono, moltiplicate in diverse misure, le figure della Vergine e del Bambino); trasformando le statue in persone vive e pietrificando gli esseri viventi (figure 10 e 11).

Figura 9: Jan van Eyck, Madonna del canonico van der Paele, 1434

Figura 10: Jan van Eyck, Annunciazione, c. 1440

Figura 11: Hugo van der Goes, Annunciazione, 1475-77

IL “MAESTRO DI FLÉMALLE" E ROGIER VAN DER WEYDEN Alla stessa generazione di Jan appartiene il cosiddetto “Maestro di Flémalle" (1375-1444), da identificarsi con Robert Campin. Senza affrontare il complesso problema filologico che lo riguarda, ci limiteremo a esaminare L’Annunciazione del Trittico di Mérode rilevando le peculiarità che lo distinguono da Van Eyck e ne fanno l'altro punto di riferimento per il primo Quattrocento fiammingo (figura 12).

Figura 12: Maestro di Flémalle, Trittico ( a sportelli richiudibili) dell'Annunciazione di Mérode, c. 1430, olio su tavola, New York, Metropolitan Museum of Art

L'episodio sacro è interpretato come avvenimento quotidiano e ambientato in un interno borghese che sovente si apre su di una veduta urbana. Gli atteggiamenti dei personaggi (al centro Maria seduta a terra davanti al camino mentre sta leggendo un libro, forse proprio la Bibbia e nello specifico il passo dell’Annunciazione, e l’Angelo Gabriele, con la mano alzata, ad indicare che sta per parlare; a sinistra i due committenti, raffigurati in ginocchio e a mani giunte, girati a ¾ verso la porta aperta; a destra San Giuseppe nella sua bottega) sono più accostanti e familiari, assorti ma lontani dall’immobilità propria

di Van Eyck. Monumentalità e plasticismo caratterizzano le sue figure definite da una linea incisa e valorizzate da una luce forte e tagliente, non mobile e sfumata. Il preciso chiaroscuro che ne risulta, le ombre che si stampano nette contro le pareti (quella dei candelieri, dell'asciugatoio, quella raddoppiata del paiolo ma anche quelle del tavolo e della panca) isolano le figure l'una dall'altra. Lo spazio, compresso e saturato dai volumi che si allargano in superficie, non è sottoposto ad alcuna unificazione luminosa e gli sfondi paiono quasi giustapposti ai personaggi che agiscono sul proscenio; usa una prospettiva matematica, ma empirica. Un poco più giovane e debitore nei confronti di entrambi i maestri più anziani è Rogier van der Weyden (1400-64). Con ogni probabilità la sua formazione si compie presso Campin da cui coglie, accentuandole, l'umanità e l'emotività dei personaggi: i protagonisti delle sue opere sono legati da catene di gesti e di sguardi, percorsi da correnti di sentimento che vitalizzano anche lo spazio. Da Van Eyck, Rogier mutua la qualità luminosa degli ambienti e dei particolari, subordinati peraltro al predominio delle figure umane. Escludendo gli sfondi paesistici, egli concentra l'attenzione soprattutto sull'uomo e sui suoi sentimenti, sugli episodi drammatici o patetici, contenuti però sempre nei limiti di una dignitosa compostezza. A tale preferenza si accordano le tinte fredde, intonate in accostamenti insoliti e raffinatissimi: i gialli e i violetti, le più varie tonalità di bianchi e di grigi. Si esamini la Deposizione (figura 13) del Prado, dove il gruppo delle figure, quasi un bassorilievo costretto in uno spazio esiguo, è legato da gesti contratti e da linee spezzate che si rispondono con ritmiche simmetrie. Il perno è costituito dal corpo esangue di Cristo, la cui posizione obliqua è ripresa dalla Vergine svenuta, con un preciso riferimento contenutistico. La semplicità del fondo oro della "scatoletta" spaziale, ispirata forse alle architetture dei Misteri, la mancanza di determinazioni di tempo e di luogo danno risalto al dramma, indagato in tutte le sue Figura 13: Figura 13: Rogier van der Weyden, Deposizione, 1435, tavola, pieghe. Si consideri infine la magistrale abilità – di 220x264 cm, Madrid, Museo del Prado ascendenza eychiana – nella resa materica, per esempio nella cappa di tessuto operato di Giuseppe d'Arimatea. Il dipinto fu eseguito per la cappella della Confraternita degli Arcieri nella chiesa di Notre Dame hors les murs di Lovanio. Questi dati contribuiscono a spiegare almeno in parte la novità iconografica del dipinto, costituita dalla preminenza data alla figura di Maria che, assumendo una posizione identica a quella del Figlio, viene presentata come sua emula, sofferente anch’essa fisicamente e partecipe della passione a un livello più profondo rispetto a tutti gli altri astanti. In un’epoca in cui si diffondono testi come L’imitazione di Cristo e si propone una religione rivissuta anche emotivamente, dipinti come

questo chiariscono con immediatezza, coinvolgendo emozionalmente il fedele, il modello proposto dai mistici a un pubblico più selezionato. ITALIANI E FIAMMINGHI Nel 1449, in occasione del Giubileo, Van der Weyden compì un viaggio in Italia: egli poté vedere a Roma, nella Basilica Lateranense, gli affreschi di Pisanello e di Gentile, che lo colpirono intensamente. Anche la sua opera del resto venne accolta con entusiasmo dalle corti presso cui soggiornò: Napoli, Ferrara, Mantova e Milano. In Italia l'interesse verso la nuova pittura fiamminga si era esplicato già intorno al 1440 a diversi livelli. Il primo, e più immediato, è quello della committenza. Il caso degli Arnolfini non è isolato: banchieri e commercianti italiani residenti nel Nord (come i Portinari) commissionavano pale d'altare e ritratti, talvolta destinandoli alla madrepatria e facendosi così intermediari del nuovo linguaggio in terra italiana (figura 14). Un altro livello di interesse è quello della riflessione critica. Se la teorizzazione sull'arte era assente nelle Fiandre, in Italia invece la cultura classica fornì schemi e termini per una valutazione non generica delle qualità di un'opera. Bartolomeo Facio, umanista al Figura 14: Hans Memling, Trittico del Giudizio Universale, 1466-73 servizio di Alfonso d'Aragona a Napoli, è il primo a formulare acuti giudizi su Jan e Rogier, a suo avviso i più grandi tra i fiamminghi, affiancandoli a Gentile e Pisanello, loro pari tra gli italiani. Con sottile acume egli coglie i caratteri peculiari della loro pittura, infatti di Jan egli celebra la tecnica prodigiosa, in grado di rendere i più vari effetti luminosi, e la nitidezza senza pari conferita a oggetti anche lontanissimi; per quanto riguarda Rogier, evidenzia la resa dei sentimenti che non scuote la dignità profonda di volti e gesti. A parte questa eccezionale lucidità critica, in Italia anche i più generici giudizi correnti sui fiamminghi sono estremamente favorevoli; si spiana così la strada sia a una maggiore diffusione di opere sia a una crescente assimilazione del linguaggio fiammingo da parte di alcuni tra i maggiori artisti italiani (Piero della Francesca, Antonello da Messina, Giovanni Bellini). FIAMMINGHI E ITALIANI La presenza di artisti fiamminghi in Italia pone a costoro anche il problema di come, e in quale misura, assimilare le novità rinascimentali. La soluzione non è semplice perché, mentre per gli artisti italiani non era difficile accogliere elementi fiamminghi senza intaccare il nocciolo della loro visione, la nuova concezione prospettica dello spazio non poteva essere assunta senza scompaginare fin nel profondo l"ambiente" fiammingo. È pertanto comprensibile la prudenza con cui Rogier filtra, nella sua

Deposizione (figura 15) eseguita per Ferrara (1450), la Deposizione eseguita dall'Angelico per la predella della Pala di San Marco (1438-43, figura 16). Di fatto il legame si risolve in un semplice ricordo iconografico (l'apertura rettangolare del sepolcro è citazione quasi letterale). La composizione pausata e solenne dell'Angelico, ordinata rigorosamente in piani successivi, diviene nell'opera del fiammingo più affollata e complessa. Il gruppo è posto a semicerchio intorno a Figura 15: Rogier van der Weyden, Deposizione, c. 1450 Cristo, ma sbilanciato dall'asse diagonale che va dalla Maddalena a Giovanni. I ritmi spezzati - sottolineati dalla veduta dall'alto - l'angoscia degli sguardi, la pietra tombale in scorcio aggressivo, Figura 16: Beato Angelico, Deposizione, 1438-40 mirano a rendere lo spettatore emotivamente partecipe. Alla sintesi angelichiana si oppone ancora una volta la perspicuità con cui Rogier riproduce i singoli particolari. Ancor meno resta dell'esperienza italiana nei dipinti eseguiti da Rogier dopo il suo ritor...


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