Aspetti dello stile comico-realistico PDF

Title Aspetti dello stile comico-realistico
Course Letteratura italiana
Institution Università degli Studi di Milano
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Appunti sugli aspetti dello stile comico realistico, Cecco Angiolieri e Dante...


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Aspetti dello stile comico-realistico. Tra le rime di Dante, prima dell’esilio, si colloca anche la tenzone con Forese Donati della cui paternità dantesca molto si è discusso. Si svolge in tre coppie di sonetti in cui si alternano l’uno e l’altro contendente a colpi di battute ingiuriose, insinuazioni e insulti secondo le modalità della vituperatio, cioè del rimprovero gravemente infamante di ascendenza medio-latina, vituperatio tutta letteraria secondo i modi espressivi comico-realistici, dove comico è da intendersi innanzitutto, nell’ambito della tripartizione degli stili, come l’opposto dello stile alto, lo stile tragico. In relazione al Dante della Commedia che si valse in modo magistrale dello stile comico-realistico, soprattutto ma non soltanto nell’Inferno. Il primo rimatore che si dedicò, presumibilmente, alla maniera comico-realistica, detta anche giocosa, come genere speciale e non occasionale, fu il fiorentino Rustico Filippi che si situa come nascita nel decennio 1230-1240 e la data della morte fra il 1291 e il 1300. Rustico si dedicò sia alla scrittura di componimenti di questo genere sia di rime amorose nell’ambito della poesia cortese. Il canzoniere vaticano è l’unico a trasmetterci le sue poesia, 30 sonetti cortesi (Rustico fu in rapporto coi guittoniani di firenze) e altrettanti di genere comico-realistico, burleschi e grotteschi. lo stile comico-realistico è carattere dalla scelta di un lessico colloquiale, basso, parlato, irridente. In Rustico e in altri, anche apertamente osceno ed è connotato dai modi del improperium, cioè dai modi dell’invettiva, della vituperatio ma anche della satira di costume ovvero della rappresentazione degli elementi della vita e della realtà quotidiana. Proprio la produzione bifronte di rustico, cortese e comico-realistico, ci fa ben intendere il carattere di scelta lett che presiede a questo mod di scrittura che non è affatto facile, diretto o improvvisato ma non è meno elaborato di quello dell’opposto genere della poesia lirica. è stato osservato che la scrittura comico-realistico continua l’antica tradizione della poesia goliardica, espertissima anche nelle artes dictandi e che costituisce un contraltare anche stilistico della poesia aulica ma appunto con una analoga dotazione dottrinale e teorica e un corredo topico retorico, per molti aspetti affine a quello dello stile tragico. Si tratta dunque di un’operazione letteraria colta in cui la distanza tra modo aulico e comico-realistico è segnata in primo luogo da scarti di stile e di selezione lessicale. Nel caso di Rustico, nei sonetti comico-realistico c’è un’aspra dialettalità del tutto assente nelle sue rime cortesi. Una maggiore fortuna e diffusione nella tradizione manoscritta rispetto a Rustico, la ebbero i componimenti di Cecco Angiolieri, senese, che fu il primo a dedicarsi quasi esclusivamente a questo modo di scrittura e portarla a un grado di maggiore coerenza e compattezza, sia formale sia tematica. Tra il centinaio di sonetti che ci sono stati tramandati, c’è un solo ristrettissimo manipolo di componimenti lirici, tutti gli altri testimoniano una precisa scelta di campo, di un codice espressivo peculiare e di scelte tematiche che intendono rappresentare un modo di porsi tutt'altro rispetto alla lett alta, nei confronti di se stesso, della tradizione culturale, della realtà, dell’amore, della famiglia ecc. Anche Cecco si avvale di una sorvegliata strumentazione letteraria e teorica, e non è un naif. Va tenuto che nelle esibizioni autobiografiche di cecco la dimensione letteraria è determinante e che non devono certo essere prese alla lettera come una volta si riteneva. Una delle novità di cecco è l’abilità di usare un registro comico-popolaresco mimetico della lingua quotidiana mescolando però locuzioni ed espressioni colte. Cecco era nato a Siena verso il 1260 da Angioliero degli Angiolieri. Il padre, tanto da lui avversato nei suoi componimenti, fu un potente banchiere di Papa Gregorio 9, fu anche

priore della città di Siena, ed entrò nell’ordine dei Frati Godenti, lo stesso di Guittone. Anche la madre era nobile. Di Cecco si sa che partecipò in diverse occasioni a campagne militare del comune di siena, che fu multato più di una volta per essersi assentato arbitrariamente dal campo militare o per altro, che subì un processo per il ferimento di un altro cittadino, da cui venne assolti, che dovette abbandonare Siena probabilmente per ragioni politiche e che quando morì, nel 1313 doveva trovarsi in cattive acque dal punto di vista economico, dato che ci risulta, in un documento del febbraio di quell’anno, che i figlio rifiutarono la sua eredità poiché eccessivamente ipotecata. Nei suoi componimenti ritornano in modo costante alcuni tempi: la storia dell’amore per Becchina, che fin dal nome rappresenta l’antitesi della donna stilnovistica, e che costituiscono un nucleo coerente, l’avversione contro i genitori, la malinconia che lo pervade, il proprio ritratto autoderisorio e caricaturale, l’autocommiserazione per la lamentate indigenza e il suo esibito contro l’ideale di vita nella triade “La donna, la taverna e il dado”. Sono per la maggior parte temi presenti nella tradizione goliardica e medio-latina. Mario Marti che oltre a studiare a lungo l’opera ne è stato uno degli editori, sottolinea come Cecco sappia elaborare il portato tradizionale con aria scanzonata e beffarda e sappia farla vivere con interesse attuale, anti-letteraria e aulica e in genere e antistilnovistica in particolare, e sa anche calare quei temi nel vivo della vita cittadina “tumultuosa e pettegola”, come Marti la definisce, con una efficace rappresentazione mimetica e caricaturale. Il sonetto “Becchin’amor! - Che vuo’, falso tradito?” è uno dei sonetti più famosi, un sonetto dialogato a botta e risposta con Becchina, una popolana figlia di un cuoiaio, donna di linguaggio plebeo e vivace. Il sonetto è di tono e gusto popolare e riflette il genere tradizionale del contrasto di origine giullaresco (riferimento anche al contrasto di Cielo D’Alcamo). Qui però il contrasto è ricondotto alla misura del sonetto interamente giocato sulle due voci del poeta e di Becchina. Nel primo emistichio è sempre la voce del poeta, sono tutti endecasillabi minori. - Becchin’amor! - Che vuo’, falso tradito?1 1 Che vuo’, falso tradito? = introduce il tema della gelosia e del tradimento che Becchina rinfaccia al poeta. Il falso tradito è il falso tradito - Che mi perdoni. - Tu non ne se’ degno. - Merzé, per Deo! - Tu vien’ molto gecchito. - E verrò sempre. - Che sarammi pegno? In questa prima quartina si vede come si alternino delle espressioni di carattere popolare a espressioni ascendenza colta come “gecchito” che è un diffuso gallicismo (=umile) ed è proprio della lirica. - La buona fé. - Tu ne se’ mal fornito. - No inver’ di te. - Non calmar, ch’i’ ne vegno1. 1Non calmar, ch’i’ ne vegno = può voler dire “non cercare di calmarmi” perchè io torni da te oppure “perchè io l’ho già sperimentato”. - In che fallai? - Tu sa’ ch’i’ l’abbo udito. Abbo = forma toscana. - Dimmel’, amor. - Va’, che ti vegn’un segno! (che ti venga un accidente) - Vuo’ pur ch’i’ muoia? - Anzi mi par mill’anni. (le par che l’attesa duri mille anni)

- Tu non di’ bene. - Tu m’insegnerai. - Ed i’ morrò. - Omè che tu m’inganni! - Die tel perdoni. - E che, non te ne vai? - Or potess’io! - Tègnoti per li panni? - Tu tieni ’l cuore. - E terrò co’ tuoi’ guai. Tu tieni ’l cuore = secondo modalità tradotta in modalità anti-lirici ma riprende un’immagina lirica Questo sonetto si inserisce in una serie di sonetti che delineano una sorta di storia che è del tutto antitetica sia nella rapp della figura femminile sia per quello che riguarda il comportamento del poeta. L’obiettivo della parodia è lo stilnovo che innesta cecco con i suoi versi. C’è anche un sonetto dove ironizza su oltre la spera che più larga gira. Abbiamo 3 sonetti di Cecco a dante ma non abbiamo i sonetti di Dante, nel primo che riguarda becchina non vi è una modalità di discorso da parte di Cecco che possa essere non amichevole, quello che riguarda di “oltre la spera” fa dell’ironia e vuole pungere Dante, il terzo sonetto invece è un sonetto che risponde a dei rimproveri che Dante gli aveva fatto ed è un sonetto che compone una vera e propria tenzone. La risposta di Cecco vuole sottolineare come i difetti e i vizi di cui Dante l’aveva accusato sono altrettanto presenti in Dante stesso o anzi ne ha “una misura maggiore”.

Dante Alighier, s’i’ so bon begolardo, se io sono un buon fanfarone tu mi tien’ bene la lancia a le reni, tu mi tieni bene la lancia ai fianchi (tu vieni subito dopo di me) s’eo desno con altrui, e tu vi ceni; se io desino con altri, tu vi ceni s’eo mordo 'l grasso, e tu ne sugi 'l lardo; se io mordo il grasso, tu succhi il lardo Molte metafore sono di tipo popolare. La metafora del verso 5 fa riferimento all’arte della tessitura della lana. s’eo cimo 'l panno, e tu vi freghi 'l cardo: se io taglio il pelo del panno, tu mi freghi il cardo (tu fai venire fuori il pettine dal tessuto) [se io sono maldicente, tu lo sei più di me] s’eo so discorso, e tu poco raffreni; se io ho ecceduto, tu ti trattieni poco s’eo gentileggio, e tu misser t’avveni; se io mi atteggio a nobile, tu ti atteggi a messere (uomo sapiente) s’eo so fatto romano, e tu lombardo. se io sono fatto romano, tu lombardo. (Qui il riferimento è una allusione a quella che è una condizione di allontanamento della propria patria che doveva essere particolarmente pungente per Dante data la sua condizione di esule. Cecco alluderebbe a un periodo trascorso a Roma. “Tu lombardo” può riferirsi ad un periodo in cui Dante si trovava a Verona) Sì che, laudato Deo, rimproverare cosicché lodato dio rimproverare poco pò l’uno l’altro di noi due: poco può l’uno all’altro sventura o poco senno cel fa fare. sventura o poco giudizio ce lo fa fare E se di questo vòi dicere piùe, E se tu vuoi continuare questa tenzone Dante Alighier, i’ t’averò a stancare; Dante Alighieri io ti farò stancare ch’eo so lo pungiglion, e tu se’ 'l bue. perché io sono il tafano e tu il bue.

C’è una variante interessante perché invece di pungiglione c’è una forma, documentata a Siena, “pugnerone” ovvero il pungolo che continuamente ti sta dietro. A questo sonetto rispose, anche se non in termini comico realistici, un giudice, amico di Cino da Pistoia, Guelfo Taviani, che aveva avuto un incarico a Siena e probabilmente aveva avuto una conoscenza più diretta con l'ambiente senese e con Cecco stesso. Da un punto di vista stilistico, a parte alcune forme fiorentine ed espressioni popolaresche senesi, si può vedere come sia attentamente costruito questo sonetto. Nel primo verso, l’io del poeta è nel secondo emistichio mentre tutto ciò che riguarda dante nel verso successivo: a partire dal verso 4 possiamo vedere come si ripeta la stessa struttura. C’è una ripetizione anaforica continua “s’eo”, la congiunzione condizionale “se” con elisione nel primo emistichio, mentre nel secondo si ripete anaforicamente “e” con funzione paraipotattica. si usa questa espressione quando dà un punto di vista sintattico vengono combinate fra loro la paratassi e ipotassi; dovrebbe essere ipotattica il rapp tra la prima (che è condizionale e quindi il collegamento viene fatto per ipotassi) e seconda proposizione (che è la principale), in realtà si interpone la congiunzione e che costruisce l'andamento sintattico come se non si trattasse di una sintassi subordinata ma di coordinare la principale che invece è la dipendente. Questa forma paraipotattica è frequente nei componimenti comico realistici, ma anche in altri, e riflette proprio certi aspetti del parlato. C’è anche una disposizione studiata delle metafore secondo la tecnica del rifaccio anche nella disposizione nel ritmo stesso dei versi, assieme alle metafore di stampo quotidiano. L’aspetto più mordace è la condizione dolorosa di Dante della sua condizione di esilio. Il sonetto “Quando Ner Piccino” è una caricatura, Questo personaggio personaggio, arricchito in terra di Francia, che guarda tutti dall'alto in basso. Il gioco nell’ambito stilistico del sonetto è dato da due elementi: il gioco sul nome “Ner picciolin” che quindi torna negli aggettivi “picciol” e negli alterati -ino, e nell’uso del parlato di francesismi. Sembra che questo personaggio possa forse essere identificato con un “Neri Piccolino” che nel 1286 era stato consigliere del comune di Siena per uno dei quartieri più famosi di Siena, il quartiere di Camoglia. È un sonetto a rime incrociato e si può notare che le rime sono assonate.

Quando Ner Picciolin tornò di Francia, era sì caldo de’ molti fiorini, (modo di dire poiché si sentiva grande rispetto a tutti gli altri) che li uomin li parean topolini, e di ciascun si facea beff’e ciancia. (dittologia sinonimica per ciancia) Ed usava di dir: - Mala mescianza E usava dire - Un accidenti (mescianza = francesismo da meschance) possa venir a tutti mie’ vicini, quand’e’ son appo me sì picciolini, quando sono rispetto me così piccolini che mi fuora disnor la lor usanza! - che frequentarli sarebbe un disonore. Or è per lo su’ senn’a’ tal condotto, Ora per la sua mancanza di senno (antifrastico) che non ha neùn sì picciol vicino, non c’è nessun vicino così piccolo che non si disdegnasse farli motto. che si disdegnasse di parlargli. (viene quindi allontanato)

Ond’io mettere’ 'l cuor per un fiorino Metterebbe il cuore per un fiorino (darebbe tutto se stesso) che, anzi che passati sien mesi otto, che prima che passino otto mesi s’egli avrà pur del pan, dirà: - Bonino! (risposta colloquiale, i francesismi tutti scomparsi!) Se avrà anche solo del pane dirà “Bonino!” (quindi ridotto anche a fare la fame)

Canto trentesimo dell’inferno e lo stile comico-realistico. Siamo nelle malebolge, ultima bolgia, lo stile comico-realistico è molto presente anche in generale nelle malebolge, e in questo passo è interessante vedere come Dante se ne avvalga e ci mostri una altercatio e ci sono dei tratti dove si vede bene che Dante aveva tenuto a mente la lezione di Cecco da un punto di vista stilistico in un certo verso, proprio da quel sonetto a lui diretto. Ci troviamo nell’ultima bolgia dove ci sono i “falsatori” e qui ci sono due delle quattro categorie di falsatori ovvero il falsatore di moneta e vi è un Mastro Adamo, probabilmente di origine inglese, al servizio dei Romena, nel casentino. Questo personaggio era stato arso vivo come falsario perché aveva falsato il fiorino d’oro per conto di questi conti di Romena. Questo personaggio è rappresentato nel contrappasso della malattia ne deforma e devasta il corpo: il contrappasso riguardo a tutti i falsari è quello di essere malati di una malattia che ne deforma il fisico. Dante difatti si trova in un lazzaretto dove domina la bruttura della malattia e anche il puzzo della malattia. La condizione di Mastro Adamo è quella di un idropico e quindi ha il corpo pieno di acqua marcia, ovvero di questi umori che ne rendono il corpo simile a un liuto tanto è gonfio. Tra l’altro in questo canto Dante dimostra una conoscenza abb precisa delle condizioni della malattia. La carattere di Mastro Adamo è di non potersi muovere perché i falsari che soffrono di idropisia sono talmente pesanti che non hanno la possibilità di spostarsi. Oltre a questa condizione è tormentato dalla sete. C’è anche un personaggio che appartiene al mondo letterario greco che per Dante è ripreso e filtrato attraverso il racconto dell’Eneide dell’episodio del cavallo di Troia. Come falsatore di parola, Sinone, il suo contrappasso è quello della febbre putrida. Anche la febbre putrida impedisce di muoversi e di poter parlare se non difficoltà e su queste malattie reciproche si giunge a uno scambio di invettive fra i due personaggi. (Dai versi riportati nel file, Dante aveva già avuto uno scambio con Mastro Adamo). C’è all’interno dei versi un uso di rime aspre. Dante si sa valere anche nell’ambito dell stile comico-realistico di rime aspre e difficili che mette a servizio dell’espressività relativo allo stile comico-realistico. Dei due personaggi di cui dante chiede l’identità, Mastro Admo dice di averli trovati là quando “piovve” in questo avvallamento scosceso e da lì più non si mossero. Una di questa è la falsa che accusò Giuseppe, putifarre, che la accusò di averle recato violenze, ed è un riferimento alla genesa. L’altro è sinone definito “greco di troia” con sarcasmo perchè Sinone, greco, era stato accolto a Troia. Questa definizione è insultante e sarcastica nei confronti di Sinone poiché egli usò l’inganno facendo credere di essere scappato dal campo greco poiché i greci che dopo tanto tempo che non erano riusciti a conquistare Troia avevano deciso di partire ma i venti erano loro sfavorevoli. Allora era stato loro detto loro dall’oracolo Calcante che avrebbero dovuto sacrificare qualcuno per poter avere venti favorevoli. Alla fine dato che Ulisse gli era ostile, secondo il racconto di Sinone, aveva fatto in modo che la scelta

cadesse su di lui e che era fuggito e si era nascosto Dice che poi era stato ritrovato da pastori e intanto Priamo e altri soldati troiani erano usciti per vedere cosa fosse quel grande cavallo che spiega, Sinone, era stato fatto come voto a Pallade perché favorisse la loro partenza. Priamo gli aveva detto, dopo questo racconto, che chiunque egli fosse, Eneide libro II vv. 147-148, “da oggi dimentica i greci che hai lasciato, sarai uno di noi”. Spiega quindi il “greco da troia”. Il sarcasmo di Mastro suscita subito la reazione di Sinone. vv. 102: “epa” vuol dire pancia. “Croia” deriva da un termine provenzale che vuol dire “gonfia”. Un altro aspetto che connota questo passo è la collocazione in posizione di rima di espressioni fortemente concrete. Dunque lo scambio che viene fatto dai due è un attacco di carattere fisico. vv. 107: qui comincia l’altercatio a parole, altercatio che viene presentata da Dante disponendo dell’uno e dell’altro attribuendo a ciascuno una terzina. Quando si conclude questa altercatio, Mastro Adamo ha due terzine nella risposta alla fine. Egli inizia e conclude l’altercatio. Mostra anche in quello che dice una superiorità dialettica rispetto a Sinone: il fatto stesso che sia il personaggio che inizia e conclude e che gli venga dato uno spazio maggiore rispetto a Sinone mostra con chiarezza che nell’altercatio il vincente è lui. vv. 106: altro elemento retorico nella costruzione di questo passo riguarda la collocazione delle parole in relaziona a quello che riguarda i verbi del dire: versi 106, 109, 112 (con variatio “idropico”, ellissi) vv. 115: verso che corrisponde alla costruzione paraipotattica, modulazione propria di Cecco A quanto dice nel primo intervento, quando inizia l’altercatio Mastro Adamo, che dice appunto in collegamento che aveva compiuto in risposta a quello che aveva fatto Sinone (versi 106, 107, 108). Nella terzina del vv. 112 Mastro Adamo rinfaccia a Sinone la sua colpa una maggiore capacità dialettica perché viene ad essere potenziato da parte sua rispetto a quello che aveva affermato contro di lui. Ribatte Sinone sempre sullo stesso tema, non riuscendo a cambiare argomento, Sinone ribatte sullo stesso tema: terzina 115. Mastro Adamo poi rincara la dose poiché lo accusa non solo di aver detto il falso ma anche di aver spergiurato mettendo in evidenza la condizione di falsatore di parole, per lo stesso giuramento di Sinone di dire la verità. Anche qui viene ripreso un passo dell’Eneide, alcuni versi dopo al passo citato prima. Lo accusa anche per il fatto che il Cavallo di Troia sia conosciuto in tutto il mondo: vv. 120 “e che tu sia colpevole che tutto il mondo lo sappia”. Il verso 119 è una variazione rispetto all’introduzione della didascalia del verbo “dicendi” e ancora c’è una perifrasi che fa riferimento alla condizione di malattia del contrappasso. L’epa qui, a differenza del verso 102, è messo in evidenza e in una posizione di concretezza poiché in posizione di rima. Risponde poi Sinone riprendendo quanto aveva detto Mastro Adamo nel verso 121; Sinone però non ha altro argomento che prendere come motivo di rinfaccio la condizione di tormento di Mastro Adamo e quindi l’inferiorità dialettica di Sinone è più evidente. Mastro Adamo rinfaccia ancora la condizione di malattia di Sinone che ha una maggior sofferenza per la febbre putrida. Nell’espressione succ...


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