Cataldi Il tempo in Montale, Ungaretti e Saba PDF

Title Cataldi Il tempo in Montale, Ungaretti e Saba
Author Mariangela Mastrapasqua
Course Letteratura italiana 
Institution Università degli Studi di Bari Aldo Moro
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Summary

Appunti della conferenza del professor Cataldi sul tema del tempo nella lirica italiana del '900. ...


Description

Prof. Cataldi: il tema del tempo nella lirica italiana del ‘900. [introduzione] L’Allegria - Il porto sepolto, costituisce l’esordio di Ungaretti; è già sentita come rivoluzionaria, d’avanguardia rispetto a Palazzeschi, Apollinaire, che lui conobbe a Parigi e di cui fu amico. Il porto sepolto rompeva le strutture formali: non abbiamo più la metrica tradizionale, i versi sono brevissimi e discontinui, viene meno la punteggiatura e troviamo strofette intervallate dallo spazio bianco, scardina i nessi logici per via di un “corto circuito analogico”, cioè per la compresenza di emozioni e sentimenti. Questa scelta di contrasto delle strutture tradizionali formali e metriche è un rifiuto delle convenzioni perché sentite come inautentiche, perché la finalità di Ungaretti è la ricerca della parola pura, primigenia, che tuttavia non rientra nelle scelte dell’avanguardia, ma un recupero della tradizione romantico-simbolista europea, nordica in particolare, dove la poesia è luogo di ricerca dell’assoluto; accanto a questa tradizione innovata a livello formale, c’è anche una innovazione tematica, sempre derivante della tradizione romanticosimbolista, ovvero la scelta di dare valore all’interiorità, e per farlo si doveva applicare alla realtà le leggi dell’interiorità e questo è soprattutto vero nella dimensione del tempo, tema caro ad Ungaretti che aveva assistito alle lezioni di Bergson a Parigi, il filosofo del tempo oggettivo e soggettivo, e che aveva anche come modello Proust, che descrive il tempo soggettivo della coscienza nel suo romanzo La ricerca del tempo perduto; la raccolta successiva di Ungaretti, infatti, si chiamerà proprio Sentimento del tempo, dove il ricordo, la memoria non sono più intesi in senso tradizionale in quanto il passato vive accanto al presente, perché il passato e il presente convivono nella coscienza. Anche Montale si ritrova dinanzi allo sconvolgimento di tutti i paradigmi. La sua prima opera, Ossi di Seppia, doveva inizialmente intitolarsi Rottami, così come Sbarbaro aveva scritto i Trucioli: c’è l’idea dello scarto perché il poeta ha perso l’aureola, e la perdita del prestigio sociale equivale alla perdita del prestigio conoscitivo (“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato il nostro animo informe”); dalla disgregazione dell’io si ha poi la disgregazione del tempo: anche Montale distingue il tempo soggettivo dell’io dal tempo della realtà, e proustianamente e bergsonianamente pone in rilievo la memoria nella duplice vicenda di latenza e di risveglio. § Nella nostra vita ordinaria il tempo è ciò che ci porta alle cose, che ce le avvicina, che scandisce le nostre azioni ancora prima di compierle. E tuttavia quello stesso tempo poi ce le toglie: se il tempo smettesse di scorrere, le nostre azioni, i momenti che viviamo sarebbero sospesi nell’eternità, che è ciò a cui aspiriamo: l’espressione “per sempre” è quella di cui abbiamo bisogno nei momenti di intensità dell’amore, dell’amicizia o di altre esperienze che ricorderemo per sempre. Abbiamo bisogno di credere che quel tempo che ci ha portato una emozione, una felicità, non ce la porterà via; invece l’esperienza, il “sentimento” del tempo, ci mostra che esso ci porta le cose e poi ce le toglie. Contro questa banalissima e tragica condizione dell’esperienza umana la civiltà si è sempre dovuta misurare, ha sempre combattuto: anche perché in realtà noi facciamo esperienza di due modi di essere della realtà rispetto al tempo tra loro compresenti ma anche contraddittori: facciamo esperienza del fatto che qualcosa della realtà ritorna: l’estate dopo l’autunno, il sole dopo il tramonto, una generazione dopo un’altra; persino la concezione copernicana del sistema solare è un ritorno del movimento dei pianeti intorno al sole al punto di partenza. Gran parte delle nostre esperienze, del modo in cui il tempo muove la realtà sono fondate sull’idea della ciclicità e del ritorno, sull’immagine di circolarità, che è molto rassicurante e che le civiltà antiche hanno valorizzato fino ad arrivare ad intuire la possibilità che anche per la condizione individuale si

potesse attingere questo ritorno e questa circolarità (basti pensare al mito dell’araba fenice che rinasce dalle proprie ceneri, o a quelle culture e religioni che credono nella metempsicosi, cioè nella rinascita dopo la morte). Tuttavia accanto a queste esperienze “rassicuranti” di circolarità si colloca un altro aspetto della nostra esperienza del tempo, che è un’esperienza lineare ed irrevocabile, quella del computo dei calendari, che dice che la vita di ciascuno inizia un certo giorno e finisce in un altro dopo un certo lasso di tempo, che la nostra vita è un segmento di retta che non ha nulla a che fare con la circolarità delle stagioni e del ciclo giorno-notte, è una retta che viaggia accanto a tante cose che ritornano, ma che si esaurisce nella sua unidirezionalità irrevocabile, irreparabile. In questo senso, ogni momento importante della nostra vita non tornerà più, ed è per questo che va “pensato”: se le cose non finissero, come diceva Schopenhauer, non avremmo bisogno di pensarle, cioè se potessimo conservarle per sempre: il pensiero è un processo simbolico o simbolizzato di tutto ciò che si perde. La domanda però è se davvero il tempo proceda in una direzione sola: molti segni ci dicono che non è così. Per esempio quando ci capita di riascoltare dopo molto tempo una musica che ci riporta esattamente nel luogo e nel momento, passato, perduto, cui associamo quella melodia, come la madeleine inzuppata nell’infuso di tè offerto dalla nonna nel romanzo di Proust, che fa rinascere il passato. Questa esperienza di ripetibilità del passato in noi ha a che fare con la più grande elaborazione, in Occidente, del rapporto col tempo che ci viene dalla tradizione ebraicocristiana, secondo la quale il tempo, in quanto attributo di Dio, non è per sempre perduto o passato, ma può ogni volta essere re-interpretato, o, per usare un termine teologico, “redento”: il significato del passato lo deciderà il tempo che viene dopo; è la nascita di Cristo, nella prospettiva cristiana, che redime il peccato originale narrato nella genesi: quei fatti di molto tempo prima di colpo cambiano; il passato cambia, è una prospettiva messianica, e la nostra civiltà è stata per molti secoli profondamente imbevuta e attraversata da questo sentimento al tempo stesso glorioso e tragico, perché vuol dire che il passato non è sicuro, per avere il suo significato deve essere redento, il passato può essere cambiato. San Tommaso, il grande filosofo sistematizzatore del pensiero cattolico si pose il problema decisivo se Dio abbia il potere di cambiare il passato: se così non fosse, il suo potere sarebbe limitato, il tempo avrebbe potere su Dio; e invece, come dice Sant’Agostino, per Dio non esiste il passato, ma solo il presente (il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro): ai suoi occhi il tempo è uno spazio che ha più direzioni; questa è una delle parti più complesse del pensiero di San Tommaso, ma ci mostra come, quando si parla del tempo, sia il nostro vissuto individuale siano le grandi arcate della civiltà antica, le radici della nostra cultura, si tocca qualcosa che non è astratta, esterna alla nostra vita, ma costantemente ci riguarda, ci coinvolge, ci chiama in causa. La modernità ha la caratteristica specifica di aver organizzato una gestione oggettiva, collettiva e artificiale del tempo; mentre il mondo antico, fino alle soglie dell’industrializzazione, viveva con i cicli delle stagioni, le ore del giorno e della notte (con tutti i miti…) da un certo momento in poi entra in scena e diventa determinante la funzione dell’orologio, cioè il tempo oggettivo, che non ha nulla a che fare con la natura ma è una misurazione oggettiva, collettiva, uniforme ed astratta, slegata dalla realtà, che diventa una immensa minaccia della possibilità che l’interiorità di ciascuno ha di conformarsi al tempo in modo da renderselo tollerabile (il contadino si alza all’alba e va a dormire al tramonto; semina d’inverno e coglie d’estate, va nel campo con il sole e non con la pioggia, segue nei ritmi della sua vita una ciclicità positiva e rassicurante: per lui con la pioggia il tempo è buono perché nutre le piantagioni, mentre per chi vive in città sarebbe “cattivo”). La civiltà antica da questo punto di vista elabora un rapporto col tempo che trasmette l’illusione, per dirla leopardianamente, che quel segmento di retta che è la vita di ciascuno di noi appartenga, in realtà, a una ciclicità, e che il rapporto tra le generazioni simuli, nel

suo trascorrere, nel suo ripetersi, i grandi movimenti circolari e quindi nasconda la perdita. Ai nostri occhi invece l’orologio, la precisione dei calendari, gli orari prestabiliti per ogni azione ci dicono che esiste un tempo oggettivo che è uguale per tutti (una concezione del tempo più fluttuante è tipica di culture diverse dalla nostra, con dimensioni antropologiche sfasate). Per la civiltà industrializzata l’orologio diventa uno strumento determinante, quello che Baudelaire in un sonetto famoso chiama “l’iddio spaventoso che ci minaccia”, che ci ricorda soltanto che dobbiamo morire: è questo l’unico messaggio che l’orologio ci trasmette; il tempo ridotto a misurazione oggettiva, che si stacca dalla possibilità interiore di illudersi della ciclicità, ci mette in balia di uno spossessamento completo, è qualcun altro che decide quando è ora di fare una determinata cosa, e il tempo diventa dunque qualcosa che gestisce la mia vita, la quale si separa così dal tempo. L’interiorità reagisce a tutto questo in molti modi: modi distruttivi, alla base delle rivoluzioni moderne che spesso inneggiano alla distruzione degli orologi, perché l’orologio è l’emblema dell’oppressione subita dall’individuo (come ad esempio nelle fabbriche). Ma ci sono modi anche in quelle attività formalizzate come la poesia. Questi due piccoli esempi testuali, una poesia di Ungaretti, intensa ma semplice, e una di Montale, altrettanto intensa ma una delle più difficili della raccolta, ci mostrano dei modi con cui i moderni, anche attraverso una forma di finzione, reagiscono a questa oppressione. Ungaretti, “Nostalgia” da L’Allegria 28 settembre 1916: Ungaretti ha continuato a correggere questa poesia, scritta da giovane, fino alla vecchiaia. L’ultimo di questi interventi fu quello di sostituire “fanciulla” con “ragazza”, che ha reso la poesia molto più moderna. Questa ragazza era Anne …. aveva diciassette anni e se ne erano innamorati tanto Ungaretti quanto Apollinaire (ma questo “amore” non andò oltre le passeggiate serali a Parigi). Ungaretti lascia quella data perché per lui non è importante quanto tempo ci sia voluto a rendere il più perfetta possibile la rappresentazione di un certo elemento, ma l’intensità specifica di un certo momento, l’illuminazione emotiva, l’emozione intensa di un certo attimo che è banalmente un attimo in cui lui e Anne erano su un ponte che taglia la Senna a Parigi, alla fine della notte, e si guardano in silenzio e succede tra i due un’intesa “miracolosa” che sembra revocare il tempo come perdita; sembra riconsegnare a ciascuno dei due ciò che ha perso, che sente come perduto. Il concetto sembra quasi banale, proprio dell’esperienza d’amore: l’idea che il tempo non ci sia più, che le cose non si perdono più e sono al sicuro nella condivisione, nell’empatia, nella fusione. Il problema è come raccontarlo, come parlare di questo scacco dato al tempo: Ungaretti lo fa iniziando con una strofe che costituisce una subordinata, una temporale prolettica, che anticipa la principale da cui dipende e che però è conclusa in se stessa, è una temporale sospesa perché comprende tutta la strofe ‘quando…..e di rado qualcuno passa’: il discorso finisce, si ferma e il “quando” che resta sospeso: tutto questo è già un espediente, un trucco formale per fermare il tempo, per compiere il piccolo miracolo che la forma permette di compiere, di rappresentare quei momenti emotivi in cui si ha la sensazione che il tempo non scorra più. Il quando sospeso è carico di un fascino particolare, trasmette l’idea che tutto sia possibile: qui Ungaretti riprende il più famoso “quando sospeso” della nostra letteratura che è quello di Dante nel canto di Ulisse all’inizio del discorso dell’eroe, rievoca quindi un enjambement, un inarcamento, che Dante usa per far iniziare a parlare Ulisse, l’eroe che dopo dieci anni della guerra di Troia non riesce a tornare a Itaca ed è costretto a peregrinare per altri dieci anni, è l’eroe prigioniero del tempo; il quando bloccato è il modo in cui Dante sta rievocando con un colpo solo la prigionia di Ulisse nel tempo, perché il

quando non si adempie; inoltre ad attenderlo a Itaca c’era Penelope che tutte le notti disfa la tela affinché il tempo che passa non passi (la tela è metafora del tempo che passa), se lei disfa la tela, il tempo che Ulisse passa lontano da lei non passa, e quando lui finalmente torna, nonostante siano passati vent’anni lui, i due saranno quelli che erano quando si sono separati, il tempo non è trascorso, nonostante non avevano potuto darsi segnali per tutto quel tempo, qualcosa li tiene comunque legati al di là del tempo (e quel qualcosa è lei che disfa la tela); Dante non aveva letto l’Odissea ma ne conosceva dei versi tramite Orazio e questo gli bastò per rappresentare questo tema. Ungaretti, studioso e docente di letteratura, ha nella mente questi versi (infatti non è l’unica poesia ad iniziare così, ce n’è un’altra nell’Allegria). ‘la notte è a svanire’: è l’alba, ma ne parla nominando la notte; c’è “più luce” se nomino l’alba, ma in realtà subito prima dell’alba è notte e quando la notte è appena finita è giorno; la parola notte fa buio; però contemporaneamente quando la notte è a svanire vuol dire l’alba: quindi questo verso parla contemporaneamente di due tempi tacendone uno; non è notte e non è giorno; ci parla della notte per parlarci del giorno, è di nuovo uno scacco al tempo. ‘poco prima di primavera’: è l’inverno, ma ne parla nominando la primavera: è un altro esempio di espediente di “artigianato” fatto con le parole (della poesia); non fa pensare all’inverno perché nomina la primavera; appena finito l’inverno farebbe pensare all’inverno, e però significherebbe la primavera, è lo scherzo prospettico del tempo. Questi elementi costituiscono un continuo, ossessivo, sistematico costruire un tempo doppio, multiplo, in cui sembra sospeso come in un incantesimo l’elemento irreparabile della unidirezionalità del tempo, perché sembra che all’alba si possa ancora dire che è notte, in inverno parlare della primavera, che ci si possa “stendere” sul tempo, concentrarlo tutto in un unico punto, che è poi il sogno (alle soglie della modernità industrializzata) del Faust di Goethe, che chiede, nella scommessa con Mefistofele, che si fermi quell’attimo che ha in sé la pienezza che raccoglie tutte le cose. ‘ e di rado qualcuno passa’: le strade sono semideserte. II strofe, che contiene la frase reggente, ma che non può essere considerata in continuità sintattica con la subordinata della I strofe, perché Ungaretti le ha spezzate, sospendendole e rendendo così per sempre “sacro” quel momento così indefinibile, indecifrabile, enigmatico, che è il modo con cui entra in scena il carattere “emozionato” dell’esperienza, dove non esistono orologi né calendari. ‘su Parigi s’addensa un oscuro colore di pianto ’, il velo di lacrime che fa guardare tutte le cose in una emozione dolorosa. Questa poesia presenta una straordinaria tramatura fonica: insiste sul suono p, e tutto converge verso la parola centrale della poesia, “ponte”, che riprende in consonanza “canto” e poi ripresa da “contemplo”; poi non troviamo più immagini foniche, come se si fosse risolto, si fosse raggiunto il culmine con la parola ponte. ‘in un canto di ponte contemplo (verbo più intenso rispetto a guardo) l’illimitato silenzio di una ragazza tenue: c’è qui una metonimia, perché guarda una cosa astratta, il silenzio, che è attributo di una cosa concreta, cioè la ragazza che tace; inoltre c’è un sospetto di sinestesia perché il silenzio si ascolta (ma si può dire che si vede, perché le labbra sono chiuse). L’aggettivo illimitato riferito al silenzio introduce di nuovo una prospettiva temporale: non vuol dire che la ragazza ha taciuto per tutto il tempo o che non parlerà mai più; “illimitato” comunica l’intensità del suo silenzio, che in quel momento assume il valore di una cosa che distrugge tutti i limiti, che fa sentire che la vita non ha limiti, che l’esperienza non è confinata nel tempo. Uno dei grandi modelli di questa rappresentazione del limite è l’ Infinito di Leopardi, infinito come esperienza dell’illimitato, un sogno, l’eternità. La ragazza non parla più perché in quel momento non c’è bisogno; quel silenzio dice tutto, è accogliente e ricambiato, perché Ungaretti a sua volta non parla, si limita a contemplarla, ad ammirarla tacendo. Questo momento descritto, costituito da

pochi elementi (un uomo e una donna su un ponte alla fine di una lunga notte di passeggiate che si guardano in silenzio) ha una intensità estrema, e sembra dire che la vita non ha limiti. Anche l’aggettivo tenue è particolarmente felice: inizialmente per descrivere la ragazza aveva usato improbabili similitudini per poi approdare a questo aggettivo essenziale, tenue, profondamente evocativo, che vuol dire leggera, ma anche delicata, gentile. Ma il valore di tenue va considerato in funzione del valore di illimitato: in questo forte contrasto si esprime la forza della leggerezza di questa ragazza, che ha la dote di essere al tempo stesso illimitata e leggera; ognuno dei due aggettivi fa diventare l’altro importante. Due micro-strofe conclusive: ‘le nostre malattie si fondono’ : di cosa sono malati? È la parte più misteriosa; non si tratta di una malattia del corpo, ma dell’anima, vale a dire la nostalgia che dà il titolo alla poesia (d’altra parte se così non fosse il titolo non avrebbe ragion d’essere). La nostalgia ha in sé una radice che parla proprio del dolore, della sofferenza, della malattia: letteralmente è il desiderio doloroso di tornare indietro, il dolore del ritorno, nello spazio e nel tempo; è l’idea di una perdita che non si può redimere, qualcosa che si è perduto e non si può ritrovare, come per esempio la nostalgia di un luogo lontano. Ognuno dei due in quel momento vive il turbamento della vita come perdita, come dispersione, vive l’esperienza intensissima della nostalgia; ma questa reciprocità emotiva produce un incontro, una comprensione profonda, empatica: non si incontrano semplicemente, ma si fondono. I versi finali comunicano una violazione frontale della logica aristotelica (una cosa o è non è, tertium non datur): ‘e come portati via/ si rimane’ : i due rimangono lì, ma questo rimanere equivale ad essere portati via, nonostante ciò sia in contraddizione con lo stare fermi; vengono portati via da quella esperienza, cioè ritrovano ciò che hanno perduto, hanno la sensazione che il tempo non porti via; c’è una percezione di armonia, termine molto ungarettiano; per essere in armonia bisogna avere la sensazione che si fa parte del tempo, che non se ne è trascinati, violati. Si noti poi l’effetto di accelerazione e rallentamento che questa metrica così intensa produce nei due versi finali: di colpo passa una ventata emotiva che li coinvolge e per un attimo colma la nostalgia, che è ciò che la poesia intende fare sin dall’inizio: fermare il tempo. L’emozione è stata questa, la perfetta coscienza che loro erano un uomo e una donna a Parigi su un ponte alla fine dell’inverno quando mancava poco al sorgere del sole, ma anche l’emozione di non essere solo questo, di essere capaci di andare al di là di questa esperienza come perdita o come destino di perdita, di vivere un momento illimitato, in cui si ritrova tutto ciò che si è perduto, che è poi una delle caratteristiche dell’amore, la sensazione di avere lì tutto ciò che si è perduto, il venir meno della percezione della perdita. Da questo punto di vista si può dire che Nostalgia è una grande poesia d’amore, benché la parola amore non sia nemmeno nominata, perché racconta l’emozione che accompagna l’amore, cioè l’idea che il tempo non esista più, che non esista come perdita: questo è il modo novecentesco di intendere il tempo, cioè intendere la possibilità di revocare la lineari...


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