Dante 3 - Riassunto e analisi canto V PDF

Title Dante 3 - Riassunto e analisi canto V
Author Morry Lee
Course Letteratura Italiana
Institution Università degli Studi di Palermo
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Riassunto e analisi canto V, prof. Carta...


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V Canto – Inferno Il canto ambientato nel II cerchio – condanna eterna dei lussuriosi – e luogo d'incontro di Paolo e Francesca, nonché canto fortemente metaletterario. I lussuriosi sono coloro i quali hanno “ sottomesso la ragione al talento ”: il talento è la voluptas, il desiderio sfrenato. L'allontanamento dalla ragione è alla base della concezione di peccato aristotelica, a cui si rifà l'intera filosofia medievale. Stavvi1 Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l’intrata; giudica e manda secondo ch’avvinghia. Dico che quando l’anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor de le peccata vede qual loco d’inferno è da essa; cignesi con la coda tante volte quantunque gradi vuol che giù sia messa.

Minosse, come nell'Eneide, è un giudice infernale. Avvolge la propria coda attorno all'anima da condannare. In base al numero degli attorcigliamenti, i peccatori vengono spediti nel cerchio e girone d'appartenenza. Per far chiarezza sull'organizzazione logistica dell'inferno propriamente detto, esistono 4 classi principali di peccatori – per gravità crescente: gli incontinenti, i violenti, i fraudolenti delle malebolge (che hanno tradito chi di loro non si fidava) e i traditori del cocito (che invece hanno tradito chi si fidava di loro). Nel cuore del cocito sta conficcato Lucifero, essere peloso e mostruoso dai tre volti sull'unica testa, che divora eternamente Bruto, Cassio (traditori di Cesare – simbolo dell'imperatore) e Giuda (traditore del figlio di Dio) Il V canto dell'Inferno mette la critica nella posizione di interpretare psicologicamente la figura di Francesca come alter-ego di Dante, considerazione peraltro sostenuta da Contini. È grazie a Francesca che Dante si trova faccia a faccia con una delle questioni che lo riguardano personalmente: la legittimità della poesia d'amore. Egli lo chiede a Francesca (o si chiede, dunque) e Francesca non è altro che il mezzo per innescare un discorso metaletterario sulla poesia d'amore. Professando tale tipo di poesia, infatti, 1 La presenza dell'enclitico in “stavvi” ricorda quasi l'essere “avvitato”, strettamente legato al suolo infernale con un compito ben preciso per tutta l'eternità.

Francesca finisce all'inferno. Nel raccontare la cronaca di un bacio, c'è una riflessione accurata sulla poesia d'amore che – prima della stesura della Commedia – ha sempre professato. Dante è ancora ancorato all'esperienza stilnovistica, non si è ancora staccato dalla poesia d'amore: nel V canto egli muta il proprio orientamento poetico. Infatti, Francesca – alla domanda sul perché sia finita all'inferno – essa risponde citando i principi stilnovisti, ed è qui che Dante sviene. Dante non sviene necessariamente per la compassione per Paolo e Francesca – o almeno non il Dante agens – sviene per il trauma nello scoprire che la poesia che ha sempre professato potrebbe portarlo all'inferno. Il personaggio di Francesca usa le locuzioni dell' ars dictandi. Questo – afferma Contini – è una spia che tradisce l'utilizzo di Dante del “mezzo-Francesca” per esprimere se stesso. È importante sottolineare come quello di Francesca sia un linguaggio appartenente allo stilnovismo: il V canto tutto, di fatto, è una parentesi tragica nel comico – grottesco. Il contrasto è ancor più evidente perché Dante sceglie due anime dannate eppure candide, e pertanto dal linguaggio alto. Dante in questo modo sovverte tutto il canone infernale. È anche in questo modo che il poeta fa metaletteratura: anche questo mette in discussione la liceità dell’amore. Non è inusuale che le donne di Dante prendano la parola, così come la prenderanno le donne di Boccaccio. Il misoginismo era imperante nel medioevo, ma nelle grandi opere trovavano ampio spazio. Francesca – mentre Paolo tace e trema – è l'unica a parlare. Quella di Francesca è un’oratoria di difesa: è fondamentale che lei parli in propria vece. Nel mondo medievale, la donna colta – di corte - ha molto spazio di azione, ha pieni diritti. Ovviamente questo non vale per le donne villane. Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto là dove molto pianto mi percuote. Io venni in loco d'ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto. La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta.

Prima di incontrare le anime, Dante ne sente le urla ed i sospiri. Inoltre, il muggito infernale della tempesta è assordante, e sta a simboleggiare la violenza delle passioni di cui in vita sono stati servitori. La pena quindi è per contrappasso uguale e contrario: la funzione attiva dell’agitarsi nelle passioni in vita diventa passiva nella morte: ora infatti ne subiscono i colpi. E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di sé lunga riga, così vid'io venir, traendo guai, ombre portate da la detta briga; per ch'i' dissi: "Maestro, chi son quelle genti che l'aura nera sì gastiga?".

I lussuriosi vengono paragonati ad uno stormo di gru che rapidamente cambia traiettoria disegnando fulminee scie nel cielo. Tutte le metafore della commedia sono il risultato della sua mentalità e sensibilità (nel senso di capacità di poter sentire coi sensi) di uomo empirico, ancora vivo e legato al ricordo della vita terrena.

Quali colombe dal disio chiamate con l'ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l'aere, dal voler portate; cotali uscir de la schiera ov'è Dido, a noi venendo per l'aere maligno, sì forte fu l'affettüoso grido.

La violenza dell’immagine dei lussuriosi battuti dal vento si contrappone alla leggerezza di Paolo e Francesca, paragonate a due colombe, tra l’altro simbolo di pace cristiana. Si piegano gentilmente al volere di Dante che li chiama. Qui Dante mostra il vero spirito cortese: riprendendo i dettami del De Amore di Andrea Cappellani, all’amore bisogna sempre rispondere, prevede la corresponsione, la reciprocità degli affetti. Paolo e Francesca, quindi, sono anime cortesi (non gentili e cortesi nel senso di graziosi, ma appartenenti alla corte. La cortesia si contrappone alla villania, che designa non solo l’appartenenza alla villa, ma l’estradizione dalla corte e dai suoi affari). "O animal grazïoso e benigno che visitando vai per l'aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re de l'universo, noi pregheremmo lui de la tua pace, poi c' hai pietà del nostro mal perverso.

Francesca si riferisce a Dante come grazioso animal, ovvero creatura piena di grazia e dotata di anima, quindi ancora vivo. Francesca dice: se noi e Dio potessimo essere amici e non da lui banditi, lo pregheremmo affinché ti donasse la grazia per essere tanto pietoso verso il nostro peccato perverso. Perverso è inteso alla latina, come sovvertimento. Conferisce l’idea di sovvertimento da bene a male: seguendo infatti i dettami dello stilnovo, dell’amore cortese, sono stati condannati all’inferno. Per “tinto il mondo di sanguigno”, Francesca si riferisce all’aver ecceduto tanto nella lussuria da aver tinto di rosso – di sangue – il mondo. Il rosso è per antonomasia il colore della passione, ma Francesca si riferisce anche al sangue vero e proprio: gli amanti vennero infatti uccisi dal fratello di Paolo. Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona. Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense". Queste parole da lor ci fuor porte.

L’anafora di amor stabilisce il nodo cruciale del canto: Francesca sta recitando i tre pilastri del De Amore di Cappellani. L’amore che “ assedia” e si attacca solo il cuore gentile, perché è lì che l’amore deve avere dimora, a cui appartiene. La paronomasia s’apprende/prese – quindi il riprendere, nella strofa successiva, lo stesso verbo flesso in altro modo – è un forte collegamento semantico che si ripete anche nei due versi successivi. Si vuol quindi sottolineare che Paolo e Francesca furono presi dalla bella persona, quindi il loro era un amore esclusivamente carnale, non spirituale. “Amor, ch'a nullo amato amar perdona” è un verso densissimo, in cui è declinato l’amore per quello che per Cappellani è: l’amore a nessun amante perdona l’aver amato, proprio perché non si può ignorarlo, deve essere ricambiato.

Quand'io intesi quell'anime offense, china' il viso, e tanto il tenni basso, fin che 'l poeta mi disse: "Che pense?"

Dante, ascoltata “l’arringa difensoria” di Francesca non sa cos’altro dire, e con vergogna abbassa il capo. Infatti, dopo aver fatto un’altra domanda, tace, e lascia parlare solo Francesca, fino alla fine del canto. Poi mi rivolsi a loro e parla' io, e cominciai: "Francesca, i tuoi martìri a lagrimar mi fanno tristo e pio. Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri, a che e come concedette amore che conosceste i dubbiosi disiri?"

I versi 116 – 118 – 120 sono cruciali: martìri, sospiri, disiri è la rima stigma dello Stilnovismo, ripresa poi anche in Petrarca. Il martirio, il sospiro d’amore e il desiderio sono gli elementi attorno ai quali si sviluppa lo stilnovismo. Per più fïate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante". Mentre che l'uno spirto questo disse, l'altro piangëa; sì che di pietade io venni men così com'io morisse.

Galeotto era l’aiutante di re Artù, che tuttavia agevolò Lancillotto nell’incontrare Ginevra. Con una metonìmia, Francesca attribuisce al libro stesso e al suo autore l’attributo del personaggio nei loro confronti. A questo segue il silenzio eloquente di “quel giorno più non vi leggemo avante”. Mentre Francesca ricorda tutto questo, Paolo piange di dolore rinnovato, e il pianto è talmente lungo e pietoso da essere sottolineato da Dante con la dieresi su piangea. Il diacritico non può che avere questa funzione, in quanto ea è già di per sé iato....


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