Dottrina trascendentale del metodo PDF

Title Dottrina trascendentale del metodo
Author Valentina Davi
Course Filosofia teoretica A (i)
Institution Università degli Studi di Verona
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Summary

DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODOCon dottrina trascendentale del metodo si intende la determinazione delle condizioni formali di un sistema completo della ragion pura; ovvero la determinazione di una disciplina, un canone, un’architettonica e una storia della ragion pura.CAPITOLO PRIMO: LA DISCIPLI...


Description

DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODO Con dottrina trascendentale del metodo si intende la determinazione delle condizioni formali di un sistema completo della ragion pura; ovvero la determinazione di una disciplina, un canone, un’architettonica e una storia della ragion pura. CAPITOLO PRIMO: LA DISCIPLINA DELLA RAGION PURA Kant introduce questo capitolo valutando i giudizi negativi in maniera positiva, poiché essi hanno il compito di impedire gli errori. La disciplina infatti va a distinguersi dalla cultura per il fatto che essa non fornisce un contributo positivo, ma negativo; ovvero non procura semplicemente un’abilità senza eliminare quella già presente, ma corregge invece gli errori. Sembra strano che proprio la ragione, che detta disciplina a tutto, necessiti a sua volta di disciplina; tuttavia quando essa non si serve ne dell’esperienza (uso empirico), dove i suoi principi vengono già messi sotto esame, ne della matematica, dove i concetti devono essere esposti ‘in concreto’ nell’intuizione pura e quindi ogni cosa infondata viene individuata, e quindi nel suo uso trascendentale (secondo semplici concetti) essa necessita di una disciplina che ne delimiti i confini all’esperienza possibile. In questo capitolo la disciplina si rivolge al metodo della conoscenza della ragion pura. Sezione prima – La disciplina della ragion pura nell’uso dogmatico Metodo matematico e filosofico – Bisogna stabilire se il metodo usato dalla matematica per giungere ad una certezza apodittica sia identico al metodo usato dalla filosofia per raggiungere certezze. Innanzitutto la conoscenza filosofica è basata su concetti, mentre quella matematica sulla costruzione di concetti, dove costruire un concetto significa presentare a priori l’intuizione ad esso corrispondente; quest’intuizione dev’essere non empirica ed esprimere validità universale per tutte le intuizioni che

rientrano sotto lo stesso concetto. La conoscenza filosofica considera quindi il particolare solo nell’universale, mentre quella matematica considera l’universale nel particolare. La differenza tra le due conoscenze sta quindi non nella loro materia come si pensa, ma nella loro forma, quindi nel loro metodo. Proposizioni analitiche e sintetiche – La matematica riesce a costruire non solo delle singole quantità (quanta), ma anche la quantità in sé (quantitas), servendosi di una notazione specifica per costruire quantità in generale, come ad esempio l’addizione (nel concetto di addizione infatti non ci sta solamente l’addizione 3+3, ma tutte le possibili somme di una quantità con un’altra quantità). La matematica riesce a fare tutto ciò poiché in essa utilizza proposizioni analitiche, che possono essere dedotte tramite la scomposizione di concetti, ma proposizioni sintetiche, che devono essere conosciute a priori (non devo considerare ciò che penso realmente del mio concetto di triangolo, ma devo andare al di là di esso, per giungere a proprietà che non si trovano in quel concetto, ma che gli appartengono. Due usi della ragione – Vi sono due usi della ragione poiché il fenomeno è composto da una forma dell’intuizione (spazio e tempo) che può essere determinata del tutto a priori, e da una materia (ciò che è fisico), che indica ciò che si incontra nello spazio e nel tempo, che viene data solo empiricamente. Con il primo uso della ragione, tramite costruzione di concetti, questi, poiché diretti ad un’intuizione a priori, possono essere dati a priori, senza esperienza; con il secondo uso, secondo concetti, possiamo solo portare i fenomeni sotto concetti, che possono essere determinati solo con l’esperienza.

Diversità dimostrata – Kant non si limita a mostrare la diversità dei due tipi di conoscenza, ma vuole anche dimostrarlo, e si propone di farlo tramite gli elementi fondanti della matematica; definizioni, assiomi e dimostrazioni. Egli vuole dimostrare che questi elementi, così come sono usati dalla matematica, non possono essere utilizzati dalla filosofia. Definizioni – Definire significa esporre in modo originario il concetto esaustivo di una cosa entro i suoi confini. Un concetto empirico non può essere definito ma solamente spiegato poiché per far si che una definizione venga presa allo stesso modo da tutti bisognerebbe che ognuno avesse fatto esperienza di tutte le caratteristiche dell’oggetto definito. Neppure un concetto dato a priori (es. sostanza) può essere definito, poiché non sarò mai sicuro che la rappresentazione di un concetto è chiara fino a quando non sono sicuro che quella rappresentazione è adeguata all’oggetto, e questi concetti così come sono dati presentano molte rappresentazioni oscure. Infine, neanche i concetti pensati arbitrariamente possono essere oggetto di dimostrazione; posso infatti pensare un concetto e definirlo in quanto so cosa ho pensato, e poiché esso non viene né dall’esperienza né dalla natura dell’intelletto, ma non posso dire di aver definito un vero e proprio oggetto in quanto non è detto che il mio concetto abbia un oggetto, e che la mia rappresentazione non sia solamente una dichiarazione del mio progetto, piuttosto che la definizione di un oggetto. Rimangono quindi da definire solo i concetti che contengono una sintesi arbitraria che può essere data solo a priori, e tali definizioni possono essere fornite solo dalla matematica, poiché l’oggetto che essa pensa lo presenta anche a priori nell’intuizione. Le definizioni filosofiche vale quindi solo come esposizione di concetti dati (realizzate analiticamente), mentre quelle matematiche come costruzioni di concetti costituiti originariamente (realizzate sinteticamente). Assiomi – Gli assiomi sono principi sintetici a priori, nella misura in cui sono immediatamente certi. E’ chiaro che un concetto non può

connettersi immediatamente ad un altro senza la mediazione di un terzo elemento; la matematica può essere capace di assiomi perché connette i predicati dell’oggetto immediatamente e a priori, mediante la costruzione dei concetti nell’intuizione dell’oggetto stesso; ad esempio la proposizione ‘tre punti giacciono sempre su un piano’. La filosofia invece non ha assiomi, perché un principio sintetico ricavato da concetti non può essere immediatamente certo; ad esempio nella proposizione ‘tutto ciò che accade ha la sua causa’ non posso connettere i due concetti a priori, ma ho bisogno dell’esperienza (es. la determinazione temporale). Dimostrazioni - Una dimostrazione è una prova apodittica, ovvero che mostra con evidenza la propria necessità. Le dimostrazioni non possono essere ricavate dall’esperienza, poiché essa ci insegna che cosa esiste, ma non che potrebbe essere diversamente. Neanche dai concetti a priori presi a fondamento dalla conoscenza filosofica non può sorgere una certezza intuitiva, ovvero un’evidenza. Dunque solo la matematica può fornire delle dimostrazioni, poiché deriva la sua conoscenza non da concetti ma dalla loro costruzione, ossia dall’intuizione a priori degli oggetti; ne caso delle equazioni algebriche, ad esempio, la matematica ricava insieme alla verità anche la prova. Dogmata e mathemata – Nella proposizioni apodittiche si possono distinguere quelle sintetiche ricavate dai concetti, dette dogmata, e quelle sintetiche ricavate dalla costruzione dei concetti, dette mathemata. Nell’uso speculativo della ragion pura non ci possono essere dogmata, perché ogni metodo dogmatico in essa risulta inadeguato perché la conduce in errore.

Sezione seconda – La disciplina della ragion pura rispetto al suo uso polemico

I contrasti della ragion pura – Con uso polemico della ragion pura si intende la difesa delle sue proposizioni contro le negazioni dogmatiche di essa. Possono nascere infatti dei conflitti interni alla ragion pura. Uno di questi può essere il fatto di considerare che esista un’antitetica della ragion pura; ma questa convinzione si poggia su un malinteso: ovvero considerare i fenomeni come cose in sé stesse e pretendere perciò da essi una compiutezza assoluta, che non li può appartenere, in quanto il fenomeno non è niente in sé stesso, cioè senza la cosa in sé. Nel caso contrario poi non si possono fare affermazioni positive o negative riguardo ad esempio l’esistenza di Dio o l’immortalità dell’anima, in quanto si avrebbe a che fare solo con le cose in sé stesse e non con i fenomeni e dunque l’oggetto in questione sarebbe libero da ogni elemento esterno che contraddicesse la sua natura; si potrebbe perciò credere sia ad una persona che affermi l’esistenza di Dio sia ad una che la neghi, in quanto non si potrebbero ricavare delle conoscenze per affermare/negare qualcosa che va al di là dell’esperienza possibile. Il tribunale – La critica della ragion pura va considerata come un tribunale che serve a risolvere tutte queste controversie della ragion pura; senza questo tribunale la ragione resterebbe nello stato di natura, ovvero in uno stato in cui può far valere le sue pretese solo attraverso il conflitto. La critica invece ci garantisce la pace di uno stato legale in cui le controversie vengono condotte solo attraverso un processo. Chiaro è qui il perché del riferimento fatto da Kant ad Hobbes, filosofo che affermava che gli uomini per giungere ad una pace collettiva devono abbandonare lo stato di natura (dove tutti hanno la pretesa di avere tutto), per sottostare ad una legge. Impossibilità di un soddisfacimento scettico – Kant rifiuta la posizione scettica davanti alle controversie della ragione con sé stessa; ammettere la propria ignoranza davanti a tali conflitti porterebbe solamente ad un risveglio della ragione, ma non basterebbe a risolvere questo nodo. Porta poi l’esempio del filosofo Hume, che risolse tali questioni confinandole

solamente al di fuori dell’orizzonte della ragione; egli si soffermò sul principio di causalità, derivandone il fatto che la verità di tale principio non è fondata su una conoscenza a priori, ma soltanto sull’abitudine. Egli ha quindi escluso, a questo punto, ogni possibilità della ragione di andare oltre la sfera empirica. Questo però, afferma Kant, è solo il secondo passo per determinare i confini della ragione: il primo passo è sempre quello dogmatico, il secondo quello scettico, con il quale si nota che oltre l’esperienza non si può andare, ma il terzo non può che essere la critica della ragione stessa, considerata nella sua capacità di conoscere a priori, così da delimitarne i confini (di qui l’immagine della ragione non come un piano esteso infinitamente di cui si conoscano solo i confini in generale, ma come una sfera di cui si possa determinare la delimitazione). L’errore di Hume – Kant vuole spiegare in maniera esauriente l’errore del filosofo scettico per eccellenza. Hume non ritenne possibile l’accrescimento dei concetti a partire da sé stessi, senza quindi l’esperienza. Per la relazione causa/effetto egli riteneva che avendo, ad esempio, della cera sciolta dal calore del sole, nessun intelletto potrebbe indovinare tale fenomeno, e quindi collegare i concetti che già aveva di quelle cose, ma solo l’esperienza potrebbe insegnarci una tal legge. Invece si sbagliava; noi infatti, pur non potendo subito oltrepassare il contenuto del concetto che ci è dato, possiamo tuttavia conoscere a priori la legge di connessione con altre cose, anche se in rapporto ad una terza cosa ovvero l’esperienza, ma quindi pur sempre a priori. Quindi se la cera si scioglie posso risalire a priori ad una causa, anche se non conosco a priori né la causa a partire dall’effetto, ne l’effetto a partire dalla causa, senza l’insegnamento dell’esperienza.

Sezione terza – La disciplina della ragion pura rispetto alle ipotesi Sezione quarta – La disciplina della ragion pura rispetto alle sue dimostrazioni

Queste ultime due sezioni del capitolo non aggiungono nulla di nuovo a quanto si era già chiarito nelle parti precedenti. Si raccomanda una massima prudenza nell’uso delle ipotesi e delle dimostrazioni usate dalla ragion pura. A riguardo di queste ultime Kant fornisce tre regole relative al loro uso: - Non tentare una dimostrazione trascendentale senza prima aver esaminato e giustificato da dove si voglia prendere i principi su cui fondarla e perché si possa attendere un buon risultato; - Per ogni proposizione trascendentale si può dare solo una dimostrazione; - Le dimostrazioni della ragion pura non devono essere mai apagogiche, ma sempre ostensive. Kant, dopo aver enunciato il terzo principio, chiarisce che le dimostrazioni ostensive sono quelle che legano la convinzione della loro verità insieme alla conoscenza delle sorgenti della verità, quelle apagogiche invece sebbene producano certezza, non rendono però comprensibile la verità in connessione con i fondamenti della sua possibilità. CAPITOLO SECONDO: IL CANONE DELLA RAGION PURA Con canone si intende l’insieme dei principi a priori dell’uso corretto di certe facoltà conoscitive in generale. Dove però è impossibile un uso corretto di una capacità conoscitiva, ovviamente, è impossibile anche un canone. Non esiste quindi alcun canone dell’uso speculativo della ragione; se mai si dovrà dare un canone della ragion pura sarà concerne solamente il suo uso pratico. Sezione prima – Del fine ultimo dell’uso puro della nostra ragione Tendenza di oltrepassare l’uso empirico – Secondo Kant è necessari capire perché la ragione, per sua natura, tende ad avventurarsi oltre l’esperienza, spingendosi principalmente verso tre oggetti: la libertà del volere, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. Prendendo il primo oggetto, la volontà può anche essere libera, ma tuttavia nelle sue

manifestazioni viene studiata come tutti i fenomeni, ovvero secondo delle leggi. Per il secondo oggetto invece potremmo ammettere pure di arrivare a comprendere la natura spirituale e immortale dell’anima, ma su questo non si potrà fare affidamento nè come principio di spiegazione rispetto ai fenomeni di questa vita, né come chiarimento di uno stato futuro, in quanto quando si dice che una cosa non è materiale si potrebbe dire di essa ogni cosa. Infine potremo pure dimostrare l’esistenza di Dio ma non potremo prenderla come causa di nessun particolare ordine di natura, poiché tendiamo sempre, come regola della ragion speculativa, a fare affidamento sulle leggi di natura e sull’esperienza, piuttosto che su proposizioni trascendenti. Tendenza ad un fine ultimo – Se i tre oggetti a cui tende la ragione non risultano necessari per il sapere ciò significa che la loro importanza dovrà riguardare un fine ultimo, che è per forza quello pratico. Il fine ultimo quindi sarà quello di sapere ‘cosa si debba fare’ se veramente la volontà sia libera, l’anima sia immortale o esista un Dio. Gli interessi della ragione quindi si unificano in un fine ben preciso, che può essere riassunto con le tre domande: ‘cosa posso sapere?’ (teoretica), ‘cosa posso fare?’ (pratica) e ‘cosa mi è lecito sperare?’ (teoretica e pratica).

CAPITOLO TERZO: L’ARCHITETTONICA DELLA RAGION PURA Con architettonica si intende l’arte dei sistemi, dove un sistema è l’unità di molteplici conoscenze sotto un’idea. L’unità sistematica è ciò che solo fa di un semplice aggregato di conoscenze una scienza; esso infatti fa si, riconducendo tutte le parti ad un unico riferimento che è l’idea di base, che si possa cogliere la mancanza di una parte del sistema se si conoscono le altre. Il sistema è quindi articolato e non ammucchiato: può quindi

crescere internamente (come un seme) ma non esternamente (con aggiunte). CAPITOLO QUARTO: LA STORIA DELLA RAGION PURA Non storia ma rivoluzioni – Secondo Kant il termine ‘storia’ riferito alla ragion pura rappresenta un vuoto nel sistema, che andrà riempito in avvenire. Egli perciò espone semplicemente le diverse idee che hanno dato vita alle principali rivoluzioni della ragione. I più importanti scontri tra posizioni opposte sono stati principalmente tre. Riguardo all’oggetto delle conoscenze razionali – Per definire quello che dev’essere l’oggetto delle conoscenze razionali i filosofi sono stati principalmente di due pensieri: sensisti e intellettualisti. I sensisti negavano realtà ai concetti dell’intelletto, che pur ammettevano, per conferire verità invece alle sensazioni e quindi all’esperienza. Gli intellettualisti invece pretendevano che gli oggetti veri fossero solamente intelligibili. Riguardi l’origine delle conoscenze razionali pure – Per definire da dove vengano le conoscenze razionali pure si schierarono invece empiristi e noologisti; i primi credevano che tali conoscenze derivassero dall’esperienza (Aristotele e Locke), mentre i secondi credevano che tali conoscenze avessero sede nella ragione (Platone e Leibniz). Riguardo al metodo – Riguardo al metodo della ragion pura si oppongono due posizioni: quella naturalista e quella scientifica. Il naturalista assume come principio il fatto che mediante la ragione comune (ovvero non corrotta dalla natura e dalla società) si possano raggiungere rispetto alle questioni più sublimi dei risultati maggiori di quanti se ne raggiungano mediante la speculazione. Nel metodo scientifico invece si può scegliere di procedere dogmaticamente o scetticamente, ma comunque sempre sistematicamente. Rimane però aperta una terza via, che è quella della della critica....


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