Educarsi in un mondo operoso - Mirca Montanari PDF

Title Educarsi in un mondo operoso - Mirca Montanari
Author Gio Gio
Course Pedagogia della diversità e delle differenze
Institution Università degli Studi di Perugia
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Summary

Riassunto del libro Educarsi in un mondo operoso. Contiene tutti i concetti più importanti e rilevanti da sapere....


Description

Educarsi in un mondo operoso – Mirca Montanari CAPITOLO 1 Operosità: un orizzonte vasto come il mondo Uno studioso relegato in una stereotipia. E in questo modo liquidato Rogers ha distinto tre tipi di conoscenze: 1. La conoscenza soggettiva: vive e si alimenta basandosi sull’incontro con la realtà che ogni soggetto può fare come agente diretto o come spettatore presente ed è una conoscenza molto dispendiosa. Rogers sottolinea il rischio che il passaggio alla conoscenza oggettiva significhi conformismo suggestionabile: parlare alla pancia, escludendo la testa. 2. La conoscenza oggettiva: il passaggio dalla conoscenza soggettiva a quella oggettiva è evidente nella comunicazione. Passa dalla competenza in comunicazione detta “strategica” a quella più propriamente “linguistica”. Nella prima vengono usati oggetti o mimiche o tutto quello che può raggiungere l’altro nella sua specificità, in un tempo e in uno spazio altrettanto specifici, per un obiettivo che esaurisce la comunicazione: il pianto di un neonato smette appena gli viene dato da mangiare. La competenza comunicativa linguistica aggiunge a quella strategica una competenza comunicativa basta su un codice condiviso che permette la sua eventuale sopravvivenza al fine contingente per cui è nata. Si può chiamare “comunicazione oggettiva”: però non è così perché gli esseri umani utilizzano i codici condivisi con intenzionalità individuali e originali. 3. La conoscenza interpersonale o fenomenologica: è una conoscenza che si sviluppa socialmente e sviluppa un’intelligenza sociale. Vygotskij parla di individuo sociale; Sloman e Fernbach parlano di intelligenza dell’alveare, sostenendo che l’intelligenza individuale sia sopravalutata. L’immagine dell’alveare è particolarmente suggestiva e azzeccata. Le api sono operose, ciascuna, da sola, non riuscirebbe a fare niente, non sarebbe in grado di sopravvivere, ognuna mette la propria operosità originale nell’intreccio delle operosità delle altre. Il risultato non è soltanto il miele, ma è anche la cera, l’impollinazione, ecc. la loro operosità complessiva è multifunzionale. Rogers era interessato particolarmente ai passaggi fra i tre tipi, in particolar modo tra i primi due. I tre tipi di conoscenza si integrano e nessuno dei tre scompare definitivamente, ci permettono di delineare un percorso inclusivo delle operosità. Ciascuna operosità è una mansione in un processo, non è fine a se stessa, poiché nessuna operosità può vantare una conoscenza completa, e neppure superiore alle altre. Operosi. In armonia con il tempo… L’armonia ha bisogno di tempo. Gli esseri umani possono comporre armoniosamente le operosità con il tempo. La fretta rischia di non produrre né operosità né armonia: l’assemblaggio delle operosità non può realizzarsi in tempi fissati a priori. Per un buon assemblaggio delle operosità, e che sia produttivo, ci vuole tempo. Un essere umano in età avanzata dovrebbe tener presente che con gli acanzi, anche della propria cucina, si può fare alta cucina. Ogni avanzo può combinare la sua operosità, il suo gusto, con quello degli altri. Ci vuole pazienza, curiosità, e ogni tanto è bene assaggiare. Il risultato può essere appetitoso. Il risultato non è un ringiovanimento, non è la scomparsa di limiti derivati da una condizione irreversibile. È la scoperta dell’orizzonte inclusivo delle operosità.

Le operosità delle quotidianità. E quelle dei reduci, mutilati e invalidi di guerra C’è stato un periodo in cui certi esseri umani erano esclusi dalle operosità delle quotidianità e dai loro rituali. Per parlare di educazione occorre prima di tutto cambiare qualcosa nella quotidianità. Praticare l’educazione è avere il coraggio di sperimentare la liberazione e la ricerca di dignità. Una parte degli esseri umani vive tutti i giorni alcuni rituali ricorsivi: l’igiene, i vestiti, l’alimentazione, ecc. la loro ricorsività favorisce la partecipazione di operosità diverse fra di loro per qualità e quantità: chi cresce dà il suo contributo per quel che può e sa, giorno dopo giorno, può perfezionarsi. Queste sono pratiche non discorsive, perché le pratiche della quotidianità tendono a non essere rappresentate da discorsi ma devono essere anche apprese e poi sviluppate, attraverso un rapporto con gli oggetti, con la vita materiale e con il tempo della giornata o della notte, quindi non possono essere indicate a priori né riprese a posteriori unicamente con il discorso, vi è qualcosa di più. Escludere dalla ricorsività delle quotidianità ha come risultato sia la perdita dell’appartenenza che la perdita delle possibilità di intreccio di operosità varie, comprese quelle di chi, per una sua disabilità, ha un’operosità ridotta. Possono esserci sorprese. Da questo ne ricaviamo quattro riflessioni: 1. I rituali discorsivi delle quotidianità non sono esercizi che seguono una logica up-down, misurabile a ogni passo e correggibile continuamente dall’esterno perché il soggetto è esecutore e deve solo obbedire, ma seguono una logica bottom-up, correggibile dal soggetto stesso che prende iniziative ed è “premiato” da chi, venendo da fuori, percepisce l’operosità attiva ed evolutiva. 2. I rituali discorsivi delle quotidianità vivono in una struttura o un gruppo aperti. È fondamentale per l’evoluzione, che è un misto di logiche bottom-up e up-down. 3. Il misto di logiche bottom-up e up-down comporta un rischio proprio di ogni dinamica evolutiva. Affidarsi ad una sola logica, up-down, seguendo un metodo, possa farci credere che ogni rischio venga escluso. Invece c’è il rischio che non si produca una dinamica evolutiva, ma un addestramento passivo e limitato. 4. Il misto di logiche bottom-up e up-down permette di creare un legame di appartenenza. L’appartenenza non può essere né esclusiva né escludente, deve essere aperta. Il bisogno di appartenenza può esprimersi con il desiderio di avere sicurezza, innescandosi molto precocemente. Questa appartenenza acquisisce sempre più senso, anche come struttura simbolica espressa dai rituali delle quotidianità: il modo di appartenere è anche il modo di rispondere all’esigenza di esser parte. Proviamo a collegare le quotidianità ai reduci di guerra. A. Paré è uno dei padri della chirurgia e della riabilitazione protesica, e i reduci mutilati e invalidi gli dovettero la possibilità di essere operosi. I reduci, pur invalidi e mutilati, sembra mantengano un’identità operosa; chiedono un risarcimento che sopra ogni altra cosa permetta loro di essere operosi. L’art. 102 del Regio Decreto n. 653 del 1925 tratta proprio dei mutilati o invalidi di guerra. Permette ai mutilati o invalidi di guerra, a cui si aggiungono coloro che dalla nascita o per causa sopravvenuta non abbiano la piena capacità funzionale degli organi, di essere attivi e operosi nella società. Per i ciechi la possibilità è circoscritta: i diplomi servono unicamente negli istituti dei ciechi, secondo le disposizioni speciali in vigore per tali istituti. La differenza è notevole. È quella fra la comunità sociale aperta e la comunità chiusa. La guerra è sempre la perdita della verità e il trionfo della menzogna. In esempi come in Nazismo che ha portato alla realizzazione del genocidio, si è avviato un processo di disumanizzazione delle

vittime. La vittima era messa nelle condizioni per cui era incapace, sporca, ridotta a comportarsi in maniera miserevole, a perdere ogni tratto di dignità. Dove ogni rito, anche e soprattutto quello delle quotidianità, erano proibiti e le trasgressioni erano punibili con la morte. È il processo di disumanizzazione umiliante, fatto di perdita degli effetti personali, impossibilità di conservare spazi di pudore, fame, sete, lavori inutili, stanchezza per rituali insensati che impediscono un minimo di riposo. Resistere alla disumanizzazione significa riprendere il contatto con un’appartenenza che consente di andare oltre il campo di concentramento e di morte, aprendo il tempo e lo spazio. Ciò permette di trasformare l’esperienza delle quotidianità in conoscenza. Neghiamo la responsabilità ai nostri atti quando attribuiamo la loro causa ai seguenti fattori: - Forze impersonali e vaghe: “ho pulito la mia camera perché era un obbligo”; - Stato di salute, o diagnostico, oppure antecedenti individuali o psicologici: “bevo perché sono alcolizzato”; - Atti degli altri: “ho picchiato mio figlio perché correva sulla strada”; - Diktat di un’autorità: “ho mentito al cliente perché il capo me lo ha chiesto”; - Pressione sociale: “ho cominciato a fumare perché nel gruppo gli amici fumavano”; - Politica istituzionale, regolamenti, leggi: “devo sospenderti per quello che hai fatto perché è la politica della scuola”; - Funzione attribuita a un sesso, a un gruppo sociale o all’età: “deterso questo lavoro, ma lo faccio perché sono padre di famiglia”; - Pulsioni incontrollabili: “ho mangiato un dolce perché era più forte di me”. Le operosità per essere tali devono avere una prospettiva di senso. L’inclusione: lo stesso gesto può collegarsi ad altre azioni in una filiera che dà prospettiva. L’esclusione: quel gesto che può restare confinato nello spazio di un’attività proposta per tenere occupato qualcuno. Un’attività occupazionale. L’affiancamento operoso. E la contaminazione L’essere umano apprende affiancando chi è operoso e inserendosi, integrando quell’operosità con la propria. Apprende il linguaggio, apprende i gesti finalizzati, apprende le variabili del tempo, e apprende facendo anche errori e scoprendo che ci sono errori da evitare perché pericolosi ed errori fecondi perché aprono nuove possibilità. Nascono le passioni operose, dotate di una forza educativa che può essere ostacolata perché non capita e ritenuta scomoda. Ma la visibilità delle piccole operosità non è sempre facile. Può capitare che un certo condizionamento diagnostico ci faccia trascurare piccoli segni di un’operosità che tenta di spuntare e crescere. Possiamo scambiarli per disordine e intervenire per rimettere ordine. Non proponiamo gli educatori come insegnanti o psicoterapeuti o istruttori ma proponiamo gli operatori e gli educatori come lavoratori, che lavorano accanto ad altri lavoratori, che sono vestiti da lavoro e che affiancano gli ospiti, che sono degli apprendisti. La coevoluzione è contaminazione. Operosità significa evolvere con gli altri, e con la propria diagnosi. Operosità non è sinonimo di riabilitazione o terapia. La coevoluzione può spaventare e creare resistenze legate a immaginari identitari e al timore di scomparire. Vi può essere al difficoltà di vivere le tappe di transizione verso un risultato che è in gran parte sconosciuto. Ogni mansione, ogni operosità, va collocata e percepita, da chi la compie, come elemento di un processo, di una filiera.

Capacità: non sono capacità innate ma sono frutto di cure attente, personalizzate e partecipate dallo stesso soggetto, che non le riceve unicamente ma contribuisce a sua volta attivamente, e come può, a farle crescere. L’orizzonte inclusivo delle operosità In molte situazioni l’orizzonte è ostacolato, non lo vediamo. Possiamo immaginarlo, a volte facilitati da chi lo vede od a qualche strumento, come un periscopio. La parola orizzonte deriva dal greco horìzon (cerchio): che delimita. Sembrerebbe tutto semplice. L’essere umano complica tutto. L’orizzonte è anche, qualche volta, immaginazione, attribuzione di significati trascendenti. C’è il rischio di mettersi su una strada senza sbocco. È una situazione illustrata da Sayad a proposito dei migranti, che sono emigranti con un sogno, e immigrato che hanno incontrato sfruttamento, razzismo, labirinti burocratici, sottomissioni alle prepotenze dell’illegalità organizzata e quando tornano al loro Paese forse raccontano quello che avevano sognato, rinforzando l’illusione del sogno. Devono ancora trovare, danti a loro e nella loro mente, un orizzonte inclusivo delle operosità. Chi è prigioniero dell’assistenzialismo, se ha un sogno, può trovare qualcuno che annota su una scheda il suo non aderire alla realtà, il suo delirio. Aprire un orizzonte inclusivo delle operosità significa passare da una visione costituita da un prima e un dopo a una visione evolutiva. Nel primo caso disponiamo in un certo ordine i segmenti “vita familiare”, “vita scolastica ed eventualmente università”, “vita lavorativa” oppure “vita in un centro socio-educativo”. Nella visione evolutiva, la vita non viene frammentata i segmenti. È una continua evoluzione di operosità. Ciascun essere umano si incammina avendo davanti e, in parte, nella mente un orizzonte inclusivo delle operosità. In questo percorso che è la sua vita, fa degli incontri. Gli incontri sono fondamentali, possono intrecciare le operosità. L’intreccio delle operosità può evolvere sia perché quell’essere umano evolve come soggetto originale, sia perché lo stesso essere umano fa parte di un intreccio di operosità che produce un’opera. Merita un’attenzione particolare il tema del contributo degli esperti. Uscendo da uno specialismo autoreferenziale, gli esperti possono assumere la funziona preziosa delle guide indiane tra gli americani. Una guida indiana non indica la strada perché la sa, ma la percorre insieme all’altro perché la conosce, conosce i punti pericolosi, e segue, lasciando che l’altro preceda e proceda, e affianca, quando valuta che sia necessario, o percorrere sentieri più lunghi come tragitto ma più adatti alla condizione dell’altro. Chi è guidato in questo modo vive una valutazione in progress: non viene confermato nei suoi limiti, ma incoraggiato nell’affrontarli e superarli, anche aggirandoli. Si organizza e la sua autostima cresce. Proporre e organizzare un orizzonte inclusivo delle operosità è un’azione politica e quindi etica. Politica significa saper stare nei conflitti con l’attenzione all’eventuale dinamica evolutiva. Avendo a cuore la realizzazione di una società capace di dare senso a tutte e a tutti. Una società ingiusta dà senso escludendo a priori categorie di esseri umani. In passato gli elettori erano unicamente i maschi con un certo reddito, per esempio. Politica è proseguire nella ricerca di senso per tutte e tutti. L’assistenzialismo è un sistema politico: un sistema chiuso, difensivo e protettivo proporre e realizzare un orizzonte inclusivo delle operosità significa creare un sistema aperto, accogliente ed esigente. Scoprire le operosità

1. È fondamentale soffermarsi sulla differenza fra inventare e scoprire. Le operosità vanno scoperte e non inventate. Inventarle è presunzione. Può mettere l’altro in difficoltà. Invece di incrementare la sua autostima, rischia di demolirla. 2. Per scoprire bisogna osservare, accorgersi. Le micro osservazioni – al plurale – fanno scoprire una sua operosità. 3. L’empowerment è alimentare la propria capacità collaborativa e propositiva. È incremento e nutrimento delle aspirazioni di quell’essere umano. Non è seguire un metodo, ma eventualmente può essere attingere a un metodo per adattarne le indicazioni alle aspirazioni di quella persona. 4. Scoperta, e non inventata, una operosità, bisogna girarla e rigirarla per trovarle in verso giusto per l’intreccio delle operosità che permetta di realizzare l0opera. È il bricolage. Il bricolage esige fantasia e curiosità. La nostra curiosità può crescere e non va intesa come spontaneismo. Vale la pena aggiungere che nel dire autonomia si intende l’esercizio di un diritto a una vita autodeterminata, intrecciata con lo stesso diritto di tutte e di tutti. È l’intreccio delle operosità.  La politica significa andare avanti nella ricerca di senso per tutte e tutti. Una rivoluzione culturale! CAPITOLO 2 A sostegno dell’idea di operosità Premessa Operosità è evolvere con gli altri, e con la propria diagnosi. Operosità non è riabilitazione o terapia. Essa può essere un orizzonte verso cui tendere o può attivare una tensione positiva che occupa le menti degli operatori. L’affrancamento operoso Si costruisce solo a partire da ciò che c’è già, per poco che ci sia, l’educatore, deve avere qualcosa su cui appoggiare il piede e fare forza. Quindi c’è bisogno di persone che leggano una diagnosi “in avanti”. C’è bisogno di diagnosi mobili, non certe. Una diagnosi certa è un destino, mentre una diagnosi di tipo concertato offre margini di manovra, di azione. Una corretta diagnosi può e deve costituire un indispensabile punto di partenza per l’impostazione di un corretto programma terapeutico o riabilitativo personalizzato. Allo stesso tempo la ricerca delle caratteristiche e delle potenzialità di una persona può e deve essere realizzata in funzione di un progetto abilitativo per superare la concezione antica che una persona con disabilità è oggetto solo di cure. Guardare non è vedere e non è nemmeno osservare. L’educatore deve saper cogliere anche i piccoli dettagli di un’azione perché è proprio nei particolari che si cela una possibile, utile informazione. Attraverso complesse azioni percettive e una rilevazione di elementi provenienti dalla comunicazione verbale e no, l’educatore va alla ricerca di indizi che non si dovranno definire “dati” ma “cercati”, perché sono caratteristiche, qualità, facoltà che esistono nella relazione con l’osservatore, che saprò sottolineare le particolarità, le differenze o le analogie per metterle a confronto, per memorizzarle, per condividerle. Si tratta di mettere in atto una strategia di osservazione diffusa e permanente, che deve coinvolgere tutte le persone, perché ogni persona che partecipa alla vita di un contesto è capace di compiere delle osservazioni che magari risultano molto interessanti proprio perché provengono da sguardi non “compromessi” dalla relazione diretta.

Questo significa assumere un atteggiamento possibilista e aperto, valorizzando quel poco, o tanto, che la persona con disabilità può essere e può saper fare, attribuendogli lo statuto di essere vivente non solo espressivo, ma anche dotato di intenzione. È importante precisare che il termine intenzione non va confuso con scopo. Da un punto di vista dell’operatore esterno l’intenzione risponde alla domanda “Che cosa fa?”, ossia identifica e dà un nome all’azione. Lo scopo risponde alla domanda “Perché lo fa?”. È bene essere coscienti che non sempre a un’intenzione corrisponde uno scopo a cui si vuole pervenire, che una stessa azione può avere scopi diversi, che lo scopo di un’azione può variare nel proseguo dell’azione stessa. Sottolineare la differenza fra intenzione e scopo ci permette di pensare che ogni comportamento è potenzialmente dotato di significato, così che tendiamo a leggerlo come azione. L’intenzionalità non è solo uno stato mentale dell’agente, ma può anche essere un’attribuzione di uno stato mentale da parte dell’interlocutore o dell’osservatore. L’educatore deve tener presenti i modi dell’azione che quasi sempre sono determinanti per capire il senso dell’azione stessa. Il senso di un’azione non è mai dato, ma è definito da continui aggiustamenti interpretativi. È lecito e doveroso agire d’imperio, e stabilire una volta per tutte che quel comportamento-segnale ha quel significato; come dire “stabiliamo un codice comune per capirci”. In questa continua contrattazione entra a pieno titolo il contesto in cui avviene l’azione. Per contesto si intende la complessa rete di segni che contribuiscono a rendere particolare quell’azione realizzata in quel luogo, in quel momento, con quelle persone. Nell’ottica dell’operosità condivisa è utile considerare che ci sono operazioni con difficoltà diverse, perché permettono di proporre coinvolgimenti diversificati e personalizzati. Esistono lavori a zero gradi di libertà per quanto riguarda gli obiettivi, i tempi, la sequenza delle azioni e i mezzi: è il caso della catena di montaggio o di un lavoro fortemente parcellizzato in cui al lavoratore è affidata un’unica operazione, che dipende strettamente da un’operazione precedente. In questi casi il ruolo della macchina nella scansione dei tempi e delle sequenze operative è determinante. Lavori con gradi di libertà che riguardano la velocità dell’azione: ciò è possibile in lavori meno parcellizzati nei quali un’operazione è relativamente indipendente, per la realizzazione, dai tempi delle altre. Lavori con gradi di libertà riguardanti la sequenza delle operazioni: è determinante l’azione che si fa prima rispetto a quella che si fa dopo. Lavori con gradi di libertà concernenti i mezzi e le procedure; lavori con gradi di libertà concernenti l...


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