Etica nicomachea riassunto completo PDF

Title Etica nicomachea riassunto completo
Author Katia De Luca
Course Pedagogia Generale
Institution Università Cattolica del Sacro Cuore
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L’Etica Nicomachea di Aristotele

Introduzione L’Etica Nicomachea è un’opera in dieci libri scritta da Aristotele, il grande filosofo vissuto in Grecia nel IV secolo a.C. Probabilmente venne così intitolata perché fu suo figlio Nicomaco a raccogliere e divulgare le lezioni tenute dal padre. Il famoso proverbio Una rondine non fa primavera è tratto dal primo libro di quest’opera. Ma, a parte questa curiosità, questi dieci libri sono veramente molto interessanti, perché contengono un concentrato di validi insegnamenti morali. Consiglio a tutti di leggerli e, se qualche concetto non risulterà del tutto chiaro, invito a non scoraggiarsi e a proseguire ciononostante la loro lettura, in quanto i concetti che saranno invece capiti costituiranno comunque un bene prezioso non solo per chi li leggerà, ma per l’intera società, la quale potrà così avvantaggiarsi della crescita morale degli individui che la

compongono. Libro I Ogni azione umana mira a raggiungere un bene. Ciascun bene aspira a un bene di grado superiore, cioè ciascun bene viene scelto in funzione di un bene più elevato. Ciascun bene superiore, a sua volta, punta a un bene di livello ancora più alto. E siccome non si può procedere all’infinito, si giungerà al bene supremo, cui quindi tutte le azioni umane, più o meno direttamente, sono indirizzate. Conoscere questo bene supremo è fondamentale, perché, quando si ha chiaro il bersaglio, questo diventa più facile da centrare. È innegabile che questo bene supremo apparterrà alla scienza più importante, la quale è, manifestamente, la politica. A questa, infatti, sono subordinate le più apprezzate capacità, come la strategia, l’economia, la retorica. Inoltre la politica ha il merito di curare il bene di un intero popolo, e il bene di un intero popolo è evidente che sia più nobile e grande di quello relativo a un singolo individuo. Le persone più adatte a occuparsi di politica sono, a prescindere dall’età, quelle mentalmente mature. Infatti le persone immature mancano della necessaria esperienza e sono troppo inclini alle passioni mondane. Il bene cui tende la politica, ossia il più alto dei beni, dalla gran parte della gente è ritenuto che sia la felicità. Ma non tutti intendono la felicità allo stesso modo. Anzi spesso il medesimo individuo muta il proprio concetto di felicità in base al mutare degli eventi: quando egli è ammalato, la felicità per lui è la salute; quando è povero, la felicità è la ricchezza; e così via. Se qualcuno ha dei dubbi sulla strada migliore da percorrere per la ricerca della felicità, è giusto che chieda consiglio alle persone più sapienti di lui. A tal proposito una massima di Esiodo dice: “L’uomo assolutamente migliore è colui che tutto pensa da sé; buono è pure quello che presta fede a chi ben lo consiglia: ma chi non è in grado di pensare da sé, né ciò che sente da un altro sa accogliere nel suo spirito, è un buon a nulla”. Gli uomini della massa, i più rozzi, identificano la felicità con il piacere, e per questo amano la vita di godimento, la lussuria, il lusso sfrenato, l’eccessiva comodità. Essi sono dei veri e propri schiavi, scegliendosi la vita da bestie. Le persone distinte e predisposte all’azione pongono il bene nell’onore: per questo esse scelgono la vita politica. Ma anche la vita politica non può considerarsi perfetta, in quanto non è esente dalle disgrazie, e nessuno si sognerebbe di chiamare felice chi subisce disgrazie. Vi sono infine persone che seguono una vita contemplativa; su questo tipo di vita svolgeremo la nostra indagine in seguito. La vita dedicata alla ricerca del guadagno, poi, non può considerarsi diretta alla felicità, perché il denaro ha valore solo in quanto “strumento” per raggiungere altre mete. Infatti un bene può definirsi perfetto quando lo si sceglie per sé stesso e mai in vista di un altro. Di tale natura è la felicità. Onore, piacere, intelligenza e le altre virtù li scegliamo invece, sì, per sé stessi, ma anche in vista della felicità. Un bene quindi è perfetto quando è autosufficiente. Ma intendiamo l’autosufficienza non in relazione a un individuo nella sua singolarità, cioè a chi conduce vita solitaria, ma in relazione anche ai

genitori, ai figli, alla moglie e, in generale, agli amici e ai concittadini, dal momento che l’uomo per natura è un essere che vive in comunità. La felicità inoltre deve riferirsi all’intero arco della vita di un uomo, e non a un solo giorno o comunque a poco tempo. Infatti una rondine non fa primavera, e non può considerarsi felice una persona solo perché ha vissuto un breve periodo felice. Bisogna ammettere che sulla felicità dell’anima influiscono inesorabilmente anche circostanze esterne. Ad esempio, una persona non può essere completamente felice se manca di nobiltà di natali, di prospera figliolanza, di bellezza; non può essere del tutto felice chi è molto brutto d’aspetto, chi è di oscuri natali o chi è solo e senza figli; e certo lo è ancora meno chi ha figli o amici irrimediabilmente malvagi, o chi, pur avendoli buoni, li ha visti morire. Tuttavia la persona di animo nobile riesce a sopportare bene la sorte sfavorevole e le disgrazie, anche quelle grandi.

Libro II La virtù può essere di due tipi, dianoetica ed etica. La virtù dianoetica trae in buona parte la propria origine e la propria crescita dall’insegnamento, cosicché necessita di esperienza e di tempo. Invece la virtù etica si acquisisce con l’abitudine. Ad esempio, compiendo azioni giuste si diventa giusti, compiendo azioni temperate si diventa temperanti, compiendo azioni coraggiose si diventa coraggiosi, ecc. Da ciò risulta chiaro che non è per un fatto naturale che nascono le virtù etiche. Infatti ciò che avviene per natura non può essere modificato dalle abitudini. Per esempio, la pietra per natura è portata a cadere verso il basso, e, anche se la lanciassimo in alto infinite volte, non potrebbe mai acquisire l’abitudine di cadere verso l’alto. Tuttavia ognuno di noi ha una propria predisposizione, più o meno accentuata, a ricevere determinate virtù etiche; queste virtù quindi le possediamo solo in “potenza”, e con l’abitudine le sviluppiamo, cioè le traduciamo in “atto”. Infatti per diventare uomini di valore non basta avere dei buoni propositi, ma occorre metterli in pratica; coloro che non li mettono in pratica assomigliano a quei malati che ascoltano, sì, attentamente i medici, ma non fanno nulla di quanto viene loro prescritto. Ma se una certa persona non ha la predisposizione a ricevere una data virtù, l’abitudine potrà fare ben poco per fargliela sviluppare. Compito dei legislatori quindi sarà quello di suscitare abitudini adatte a favorire lo sviluppo delle virtù etiche in quei cittadini che sembrano avere l’attitudine a riceverle, in quanto, come abbiamo detto, solo l’abitudine è in grado di accrescere le virtù etiche che si possiedono in potenza. Per vivere secondo virtù occorre rifuggire sia dagli eccessi sia dai difetti. La via della virtù sta quindi nel giusto mezzo, nella “medietà” tra gli estremi opposti. Ma centrare il bersaglio, vivere cioè nel giusto mezzo, è difficile; mentre è facile mancarlo. Infatti si è buoni in un solo modo, cattivi in molte e svariate maniere. Perciò le persone virtuose sono poche, e quelle non virtuose sono molte. Non tutte le passioni e azioni però ammettono la medietà. Alcune infatti sono di per sé malvagie in qualunque misura vengano messe in atto, come la malevolenza, l’impudenza, l’invidia, l’adulterio, il furto, l’omicidio. Dunque non è mai possibile, riguardo a esse, agire correttamente.

Libro III Bisogna poi considerare i casi in cui non si agisce completamente liberi, bensì si è costretti a comportarsi in un certo modo per motivi di forza maggiore; per esempio, un evento naturale (terremoto, uragano, ecc.) o compiuto da altri (es. un gruppo di uomini che ci trascina contro la nostra volontà). In questi e in casi simili la persona che ha compiuto una determinata azione o passione non può essere né lodata né biasimata, perché non ha agito in piena libertà. Ciò che si compie per ignoranza è considerato involontario. Esempio, quando a qualcuno scappa di bocca una parola sbagliata nell’impeto del discorso, o rivela ad altri qualcosa che non sapeva si dovesse mantenere segreta, oppure quando qualcuno, durante le esercitazioni di tiro al bersaglio, colpisce per errore una persona, oppure quando qualcuno uccide una persona che aveva scambiata per un nemico, oppure ancora quando qualcuno propina ad altri una bevanda che non sapeva essere avvelenata. Ma non si può giustificare chi è causa della propria ignoranza. Per esempio, se qualcuno compie un’azione sbagliata sotto l’effetto dell’alcol, costui è giusto che sia disprezzato, perché il suo stato di ignoranza dipende da lui, che era libero di non ubriacarsi. Allo stesso modo non sono da giustificare coloro che ignorano cose che sarebbero tenuti a sapere, in quanto non difficili. Fatta questa premessa, passiamo

ora ad esaminare, una per una, le diverse virtù. Il coraggio Esistono dei mali degni di essere temuti, come il disonore; altri invece che non bisogna temere, come la povertà e la malattia, giacché non intaccano il valore morale di una persona. La cosa che tutti temono maggiormente è la morte. Ma non tutti coloro che affrontano la morte possono considerarsi coraggiosi. Bisogna vedere infatti il motivo per il quale si è scelto il rischio di morire. Ad esempio, colui che per sua natura è spericolato, è vero che non ha paura della morte, ma il fine non è onorevole. Né può considerarsi coraggioso chi si toglie la vita perché malato o per sfuggire ad altre sofferenze; piuttosto costui è meglio chiamarlo vile. La morte più onorevole è quella che si ha in guerra; perciò il vero coraggioso è colui che affronta senza paura il pericolo di morire in guerra. Chi pecca per eccesso di coraggio è il temerario, il quale spesso è solo un millantatore: prima che i pericoli si presentino, li cerca con ansia; ma quando i pericoli sono attuali, si tira indietro. Coloro che agiscono per impulsività o sotto la spinta delle passioni, pur compiendo azioni audaci, non agiscono per fini onorevoli; per esempio, chi sotto l’effetto dell’ira per un torto subìto non ha paura di vendicarsi; oppure gli adulteri, che per il forte desiderio sessuale affrontano audacemente il rischio di essere scoperti. Chi invece eccede nel temere è chiamato vile. La temperanza Si può godere dei piaceri dell’anima e di quelli del corpo. Tra i primi rientrano l’amore degli onori e l’amore del sapere: in questi casi non è il corpo a godere, ma la mente. Quelli che passano le loro giornate a raccontare favole o i fatti che capitano non li chiamiamo intemperanti, ma chiacchieroni. La temperanza però riguarda i piaceri del corpo, e nemmeno tutti; per esempio, coloro che godono dei piaceri della vista (per esempio, delle opere pittoriche) non vengono chiamati né temperanti né intemperanti. Lo stesso vale nel campo dell’udito: quelli che esagerano nell’ascoltare la musica nessuno li chiama intemperanti. Godere troppo degli odori invece può essere indice di intemperanza, ma solo se riguarda desideri viziosi, come gli unguenti e i cibi raffinati; invece non lo è se riguarda desideri più nobili, come il profumo dei fiori o della frutta. Il tatto e il gusto infine sono i due sensi in cui più si manifesta la temperanza o l’intemperanza. Chi gode in maniera esagerata del gusto e riempie il ventre più del dovuto ha il vizio della gola, che è uno dei più bestiali. Il desiderio del cibo è naturale; e chi è giovane e nel pieno delle forze desidera, giustamente, i piaceri del letto. Ma mangiare o bere tutto quello che capita fino a essere troppo pieni significa superare il necessario, e per questo coloro che lo fanno sono chiamati golosi. L’uomo temperante invece aspira solo a ciò che fa bene alla propria salute e al proprio benessere fisico; inoltre egli non soffre eccessivamente per il fatto di doversi astenere dai piaceri materiali.

Libro IV La liberalità La liberalità è il giusto mezzo che concerne l’atteggiamento che si assume rispetto ai beni materiali. Per beni materiali si intendono le cose il cui valore si misura in denaro. L’eccesso consiste nella prodigalità, mentre il difetto nell’avarizia. La persona liberale dona con piacere alle persone giuste, nella quantità giusta, nel momento giusto e in vista di un fine onorevole; inoltre prende dove è giusto prendere, e non prende dove è ingiusto prendere. La liberalità si misura in proporzione al patrimonio di chi dona. Infatti un uomo povero, anche se dona meno di uno ricco, si può considerare più liberale di costui se il rapporto tra ciò che dona e il proprio patrimonio è maggiore di quello del ricco. Si ritiene comunemente che siano più liberali coloro che non si sono procurati da sé il patrimonio, ma lo hanno ereditato. Questo soprattutto perché per l’uomo liberale è difficile arricchirsi, poiché è portato più a donare che a prendere e accumulare; d’altra parte egli non vede la ricchezza come fine a se stessa, ma come un mezzo per poter beneficare gli altri. Chi dona o spende una parte eccessiva della propria ricchezza è definito prodigo. Il prodigo eccede nel donare o difetta nel prendere, o fa entrambe le cose; al contrario, l’avaro eccede nel prendere o difetta nel donare, o fa entrambe le cose. Tra prodigo e avaro è meglio il primo: l’avaro infatti non arreca beneficio a nessuno, nemmeno a sé stesso; il prodigo invece più che da malvagio si comporta da stupido. Il prodigo, diversamente dal liberale, può sbagliare o la fonte da cui attinge la propria ricchezza o le persone cui fa i propri doni; oppure ancora sbaglia il motivo per cui dona, che non è nobile come quello per cui lo fa il liberale. Il prodigo inoltre a lungo andare sperpera tutto il proprio patrimonio, e ciò lo costringe poi a procurarsi le proprie sostanze in modo indiscriminato. Se però il prodigo corregge i suddetti errori, può

diventare liberale. L’avarizia invece è incorreggibile, perché fa parte della natura dell’uomo (la gente ama più possedere beni materiali che donarli) e perché con l’avanzare dell’età si è constatato che peggiora. La magnificenza Anche la magnificenza, come la liberalità, ha come oggetto beni materiali, ma si distingue da questa per due motivi: 1) non tutti i beni materiali formano l’oggetto della magnificenza, ma solo le spese in denaro; 2) le spese che sono frutto della magnificenza sono di entità nettamente più rilevante di quelle frutto della liberalità. Ne consegue che l’uomo magnifico è sempre liberale, ma l’uomo liberale non necessariamente è magnifico. L’uomo magnifico sostiene spese ingenti in vista di un obiettivo moralmente degno. Esempi di obiettivi moralmente degni sono: finanziare la costruzione di templi, sovvenzionare sacrifici per gli dèi, equipaggiare navi, offrire banchetti pubblici. Un povero non può essere magnifico, perché non può sopportare le spese cospicue che la magnificenza comporta. Un uomo povero quindi può essere liberale ma non magnifico. L’uomo magnifico non spende per apportare piacere o vantaggi a sé stesso, ma lo fa per pubblico interesse. La magnificenza è il giusto mezzo tra meschinità e volgarità. Chi ostenta ricchezza nelle piccole occasioni non è magnifico ma volgare; esempio, quando si eccede nella spesa per una colazione tra amici. L’uomo meschino invece è portato sempre a effettuare le spese con troppa parsimonia. La magnanimità L’uomo magnanimo è colui che si stima degno di grande considerazione e lo è realmente. La magnanimità implica grandezza d’animo. Se un uomo è mediocre e si ritiene tale, non per questa sua sincerità egli è magnanimo; tuttavia è da apprezzare la sua modestia. Volendo fare un paragone riguardo alla bellezza fisica, gli uomini di non eccelsa statura possono sì essere aggraziati e proporzionati, ma non possono definirsi belli. I magnanimi basano la loro grandezza d’animo sull’onore, perché esso è certamente il più nobile dei beni esteriori. Per diventare magnanimi non bastano i meriti acquisiti per fortuna: sono necessarie anche le virtù. Infatti chi ottiene le cose solo grazie alla fortuna diventa arrogante e superbo. L’uomo magnanimo ama solo i grandi rischi e, quando è in pericolo, non risparmia neppure la propria vita, perché pensa che la vita meriti di essere vissuta solo in maniera onorata. Inoltre egli è capace di beneficare, ma si vergogna di essere beneficato, giacché beneficare è proprio della persona superiore, mentre essere beneficato lo è di quella inferiore. Per tale motivo il magnanimo è portato a dare più di quanto riceve. I magnanimi si ricordano coloro che hanno beneficato, ma non coloro da cui hanno ricevuto benefici; questo perché chi riceve un beneficio è inferiore a chi lo fa, e l’uomo magnanimo vuole essere superiore. Il magnanimo inoltre gradisce sentire parlare dei benefici che lui ha concesso agli altri, mentre prova dispiacere nell’ascoltare i benefici che ha ricevuto. Tipico del magnanimo è il non chiedere nulla a nessuno, oppure di farlo controvoglia; di contro, egli si rende utile agli altri prontamente. Con le persone autorevoli il magnanimo dimostra tutto il suo valore; con quelle mediocri invece fa il modesto per non umiliarli. La persona magnanima mostra apertamente i propri sentimenti e le proprie amicizie; chi invece non è magnanimo si preoccupa solo di ciò che pensano gli altri di lui e delle cose che pensa o fa. Il magnanimo non si abbandona facilmente a rivolgere lodi alle altre persone, perché per lui nulla è grande. Né egli cova rancore per un torto subìto: piuttosto preferisce sorvolare. Non è pettegolo: non parla né di sé stesso né degli altri, giacché non gli importa né di essere lodato né di criticare o lodare gli altri. Infine il suo passo è lento, la voce grave, il modo di esprimersi pacato. Colui che si stima degno di grandi cose, ma non lo è, è vanitoso. I vanitosi si comportano da sciocchi perché, pur non essendone degni, si cimentano in imprese onorevoli, per poi essere smentiti dai fatti. Essi curano molto l’aspetto esteriore, si vestono con eccessiva ricercatezza, si preoccupano di esibire a tutti le loro fortune e mostrano di aspettarsi per esse che gli altri tributino loro degli onori. Chi invece si ritiene inferiore a quanto merita è pusillanime. La bonarietà La bonarietà è la medietà che riguarda i sentimenti d’ira. Colui che si adira per le cose giuste, con le persone giuste, nei momenti giusti e per il tempo giusto è da ammirare: questi è l’uomo bonario. Il bonario è più portato al difetto che all’eccesso d’ira; egli infatti non è vendicativo ed è propenso al perdono. Coloro che eccedono nei sentimenti d’ira si distinguono in due categorie: a) gli irascibili, i quali si adirano rapidamente e in modo incontrollato, con le persone con cui non dovrebbero e per motivi sbagliati. Il lato positivo degli irascibili è che la loro ira dura poco tempo, dopo di che passa; b) i rancorosi, i quali covano a lungo e silenziosamente la loro ira, in quanto non la sfogano. Essi si quietano solo dopo essersi vendicati. Poiché la loro ira non è manifesta, nessuno cerca di calmarli, e questo può prolungare il tempo durante il quale l’ira si

annida nel loro animo. Coloro invece che non si adirano quando dovrebbero passano per sciocchi. L’affabilità Chi nei rapporti con gli altri per far loro piacere loda tutto quello che dicono e non li contraddice mai è chiamato compiacente; chi invece ha l’abitudine di contraddire è chiamato scorbutico o litigioso. Anche in questo caso il comportamento giusto da seguire è quello che sta in mezzo tra gli estremi opposti. Chi segue tale giusto mezzo si potrebbe chiamare “buon amico”. Egli approva un discorso altrui quando è giusto approvarlo e lo biasima quando invece merita di essere biasimato, evita le compagnie poco raccomandabili, sa come trattare la gente e sa in quale modo deve comportarsi a seconda delle persone che ha davanti. Tra coloro che esagerano nell’affabilità, coloro che lo sono senza altro scopo sono i compiacenti (di cui abbiamo già detto sopra); coloro invece che sono affabili solo per procurarsi qualche vantaggio sono detti adulatori. La sincerità Coloro che senza una motivazione valida pretendono di avere dei meriti che non competono loro dimostrano di essere persone dappoco (altrimenti non godrebbero del falso), e sono più fatue che cattive. Coloro che invece gonfiano ...


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