Aristotele Etica Nicomachea PDF

Title Aristotele Etica Nicomachea
Course Filosofia Dell'Educazione
Institution Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale
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Etica nicomachea, scienze della formazione e dell’educazione...


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Aristotele: Etica Nicomachea Filosofia morale Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale 17 pag.

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Libro I Ogni azione umana mira a raggiungere un bene. Ciascun bene aspira a un bene di grado superiore, cioè ciascun bene viene scelto in funzione di un bene più elevato. Ciascun bene superiore, a sua volta, punta a un bene di livello ancora più alto. E siccome non si può procedere all’infinito, si giungerà al bene supremo, cui quindi tutte le azioni umane, più o meno direttamente, sono indirizzate. Conoscere questo bene supremo è fondamentale, perché, quando si ha chiaro il bersaglio, questo diventa più facile da centrare. È innegabile che questo bene supremo apparterrà alla scienza più importante, la quale è, manifestamente, la politica. A questa, infatti, sono subordinate le più apprezzate capacità, come la strategia, l’economia, la retorica. Inoltre la politica ha il merito di curare il bene di un intero popolo, e il bene di un intero popolo è evidente che sia più nobile e grande di quello relativo a un singolo individuo. Le persone più adatte a occuparsi di politica sono, a prescindere dall’età, quelle mentalmente mature. Infatti le persone immature mancano della necessaria esperienza e sono troppo inclini alle passioni mondane. Il bene cui tende la politica, ossia il più alto dei beni, dalla gran parte della gente è ritenuto che sia la felicità. Ma non tutti intendono la felicità allo stesso modo. Anzi spesso il medesimo individuo muta il proprio concetto di felicità in base al mutare degli eventi: quando egli è ammalato, la felicità per lui è la salute; quando è povero, la felicità è la ricchezza; e così via. Se qualcuno ha dei dubbi sulla strada migliore da percorrere per la ricerca della felicità, è giusto che chieda consiglio alle persone più sapienti di lui. A tal proposito una massima di Esiodo dice: “L’uomo assolutamente migliore è colui che tutto pensa da sé; buono è pure quello che presta fede a chi ben lo consiglia: ma chi non è in grado di pensare da sé, né ciò che sente da un altro sa accogliere nel suo spirito, è un buon a nulla”. Gli uomini della massa, i più rozzi, identificano la felicità con il piacere, e per questo amano la vita di godimento, la lussuria, il lusso sfrenato, l’eccessiva comodità. Essi sono dei veri e propri schiavi, scegliendosi la vita da bestie. Le persone distinte e predisposte all’azione pongono il bene nell’onore: per questo esse scelgono la vita politica. Ma anche la vita politica non può considerarsi perfetta, in quanto non è esente dalle disgrazie, e nessuno si sognerebbe di chiamare felice chi subisce disgrazie. Vi sono infine persone che seguono una vita contemplativa; su questo tipo di vita svolgeremo la nostra indagine in seguito. La vita dedicata alla ricerca del guadagno, poi, non può considerarsi diretta alla felicità, perché il denaro ha valore solo in quanto “strumento” per raggiungere altre mete. Infatti un bene può definirsi perfetto quando lo si sceglie per sé stesso e mai in vista di un altro. Di tale natura è la felicità. Onore, piacere, intelligenza e le altre virtù li scegliamo invece, sì, per sé stessi, ma anche in vista della felicità. Un bene quindi è perfetto quando è autosufficiente. Ma intendiamo l’autosufficienza non in relazione a un individuo nella sua singolarità, cioè a chi conduce vita solitaria, ma in relazione anche ai genitori, ai figli, alla moglie e, in generale, agli amici e ai concittadini, dal momento che l’uomo per natura è un essere che vive in comunità.

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La felicità inoltre deve riferirsi all’intero arco della vita di un uomo, e non a un solo giorno o comunque a poco tempo. Infatti una rondine non fa primavera, e non può considerarsi felice una persona solo perché ha vissuto un breve periodo felice. Bisogna ammettere che sulla felicità dell’anima influiscono inesorabilmente anche circostanze esterne. Ad esempio, una persona non può essere completamente felice se manca di nobiltà di natali, di prospera figliolanza, di bellezza; non può essere del tutto felice chi è molto brutto d’aspetto, chi è di oscuri natali o chi è solo e senza figli; e certo lo è ancora meno chi ha figli o amici irrimediabilmente malvagi, o chi, pur avendoli buoni, li ha visti morire. Tuttavia la persona di animo nobile riesce a sopportare bene la sorte sfavorevole e le disgrazie, anche quelle grandi. Libro II La virtù può essere di due tipi, dianoetica ed etica. La virtù dianoetica trae in buona parte la propria origine e la propria crescita dall’insegnamento, cosicché necessita di esperienza e di tempo. Invece la virtù etica si acquisisce con l’abitudine. Ad esempio, compiendo azioni giuste si diventa giusti, compiendo azioni temperate si diventa temperanti, compiendo azioni coraggiose si diventa coraggiosi, ecc. Da ciò risulta chiaro che non è per un fatto naturale che nascono le virtù etiche. Infatti ciò che avviene per natura non può essere modificato dalle abitudini. Per esempio, la pietra per natura è portata a cadere verso il basso, e, anche se la lanciassimo in alto infinite volte, non potrebbe mai acquisire l’abitudine di cadere verso l’alto. Tuttavia ognuno di noi ha una propria predisposizione, più o meno accentuata, a ricevere determinate virtù etiche; queste virtù quindi le possediamo solo in “potenza”, e con l’abitudine le sviluppiamo, cioè le traduciamo in “atto”. Infatti per diventare uomini di valore non basta avere dei buoni propositi, ma occorre metterli in pratica; coloro che non li mettono in pratica assomigliano a quei malati che ascoltano, sì, attentamente i medici, ma non fanno nulla di quanto viene loro prescritto. Ma se una certa persona non ha la predisposizione a ricevere una data virtù, l’abitudine potrà fare ben poco per fargliela sviluppare. Compito dei legislatori quindi sarà quello di suscitare abitudini adatte a favorire lo sviluppo delle virtù etiche in quei cittadini che sembrano avere l’attitudine a riceverle, in quanto, come abbiamo detto, solo l’abitudine è in grado di accrescere le virtù etiche che si possiedono in potenza. Per vivere secondo virtù occorre rifuggire sia dagli eccessi sia dai difetti. La via della virtù sta quindi nel giusto mezzo, nella “medietà” tra gli estremi opposti. Ma centrare il bersaglio, vivere cioè nel giusto mezzo, è difficile; mentre è facile mancarlo. Infatti si è buoni in un solo modo, cattivi in molte e svariate maniere. Perciò le persone virtuose sono poche, e quelle non virtuose sono molte. Non tutte le passioni e azioni però ammettono la medietà. Alcune infatti sono di per sé malvagie in qualunque misura vengano messe in atto, come la malevolenza, l’impudenza, l’invidia, l’adulterio, il furto, l’omicidio. Dunque non è mai possibile, riguardo a esse, agire correttamente. Libro III Bisogna poi considerare i casi in cui non si agisce completamente liberi, bensì si è costretti a comportarsi in un certo modo per motivi di forza maggiore; per esempio, un evento naturale (terremoto, uragano, ecc.) o compiuto da altri (es. un gruppo di uomini che ci trascina contro la nostra volontà). In questi e

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in casi simili la persona che ha compiuto una determinata azione o passione non può essere né lodata né biasimata, perché non ha agito in piena libertà. Ciò che si compie per ignoranza è considerato involontario. Esempio, quando a qualcuno scappa di bocca una parola sbagliata nell’impeto del discorso, o rivela ad altri qualcosa che non sapeva si dovesse mantenere segreta, oppure quando qualcuno, durante le esercitazioni di tiro al bersaglio, colpisce per errore una persona, oppure quando qualcuno uccide una persona che aveva scambiata per un nemico, oppure ancora quando qualcuno propina ad altri una bevanda che non sapeva essere avvelenata. Ma non si può giustificare chi è causa della propria ignoranza. Per esempio, se qualcuno compie un’azione sbagliata sotto l’effetto dell’alcol, costui è giusto che sia disprezzato, perché il suo stato di ignoranza dipende da lui, che era libero di non ubriacarsi. Allo stesso modo non sono da giustificare coloro che ignorano cose che sarebbero tenuti a sapere, in quanto non difficili. Fatta questa premessa, passiamo ora ad esaminare, una per una, le diverse virtù. Il coraggio. Esistono dei mali degni di essere temuti, come il disonore; altri invece che non bisogna temere, come la povertà e la malattia, giacché non intaccano il valore morale di una persona. La cosa che tutti temono maggiormente è la morte. Ma non tutti coloro che affrontano la morte possono considerarsi coraggiosi. Bisogna vedere infatti il motivo per il quale si è scelto il rischio di morire. Ad esempio, colui che per sua natura è spericolato, è vero che non ha paura della morte, ma il fine non è onorevole. Né può considerarsi coraggioso chi si toglie la vita perché malato o per sfuggire ad altre sofferenze; piuttosto costui è meglio chiamarlo vile. La morte più onorevole è quella che si ha in guerra; perciò il vero coraggioso è colui che affronta senza paura il pericolo di morire in guerra. Chi pecca per eccesso di coraggio è il temerario, il quale spesso è solo un millantatore: prima che i pericoli si presentino, li cerca con ansia; ma quando i pericoli sono attuali, si tira indietro. Coloro che agiscono per impulsività o sotto la spinta delle passioni, pur compiendo azioni audaci, non agiscono per fini onorevoli; per esempio, chi sotto l’effetto dell’ira per un torto subìto non ha paura di vendicarsi; oppure gli adulteri, che per il forte desiderio sessuale affrontano audacemente il rischio di essere scoperti. Chi invece eccede nel temere è chiamato vile. La temperanza Si può godere dei piaceri dell’anima e di quelli del corpo. Tra i primi rientrano l’amore degli onori e l’amore del sapere: in questi casi non è il corpo a godere, ma la mente. Quelli che passano le loro giornate a raccontare favole o i fatti che capitano non li chiamiamo intemperanti, ma chiacchieroni. La temperanza però riguarda i piaceri del corpo, e nemmeno tutti; per esempio, coloro che godono dei piaceri della vista (per esempio, delle opere pittoriche) non vengono chiamati né temperanti né intemperanti. Lo stesso vale nel campo dell’udito: quelli che esagerano nell’ascoltare la musica nessuno li chiama intemperanti. Godere troppo degli odori invece può essere indice di intemperanza, ma solo se riguarda desideri viziosi, come gli unguenti e i cibi raffinati; invece non lo è se riguarda desideri più nobili, come il profumo dei fiori o della frutta. Il

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tatto e il gusto infine sono i due sensi in cui più si manifesta la temperanza o l’intemperanza. Chi gode in maniera esagerata del gusto e riempie il ventre più del dovuto ha il vizio della gola, che è uno dei più bestiali. Il desiderio del cibo è naturale; e chi è giovane e nel pieno delle forze desidera, giustamente, i piaceri del letto. Ma mangiare o bere tutto quello che capita fino a essere troppo pieni significa superare il necessario, e per questo coloro che lo fanno sono chiamati golosi. L’uomo temperante invece aspira solo a ciò che fa bene alla propria salute e al proprio benessere fisico; inoltre egli non soffre eccessivamente per il fatto di doversi astenere dai piaceri materiali. Libro V La giustizia Si ritiene comunemente che ingiusto sia chi cerca di ottenere per se stesso, a danno degli altri, più di quanto gli competa; pertanto egli non rispetta l’uguaglianza di trattamento che la legge stabilisce. Di conseguenza il giusto sarà chi rispetta la legge e l’uguaglianza. Ora, obbiettivo delle leggi sono il benessere collettivo e il premio per i più meritevoli. Ma le leggi prescrivono anche le regole etiche del buon vivere in comunità, obbligando a compiere le azioni virtuose e vietando di compiere quelle viziose. Per questo motivo la giustizia è considerata la più importante delle virtù. Inoltre essa è perfetta, perché chi la possiede può esercitare la virtù anche verso gli altri e non solo verso se stesso. Per questa ragione la giustizia è l’unica virtù che costituisce un bene non solo per chi la esercita, ma anche per coloro a vantaggio dei quali essa è esercitata. Quando due litigano, si rivolgono al giudice, il quale fungerà da “termine medio” tra i due contendenti; è per questo che i giudici vengono anche chiamati “mediatori”. Compito del giudice è quello di ristabilire l’uguaglianza; per far ciò egli sottrae al colpevole la parte ingiustamente conseguita e la restituisce al legittimo possessore. Da quanto suddetto, risulta chiaro che l’agire giustamente è una via di mezzo tra commettere e subire ingiustizia: commettere ingiustizia significa avere più del lecito, subirla averne meno. Chi esercita pubblici poteri deve comportarsi in maniera onesta. Pertanto egli deve prendere per sé solo la parte che gli spetta di diritto per il lavoro che fa, e nello stesso tempo deve concedere agli altri ciò che ciascuno merita: è per questo che, come detto prima, la giustizia è un bene che chi lo possiede lo amministra anche a favore degli altri. A chi esercita pubblici poteri con onestà i cittadini coscienziosi devono elargire delle ricompense morali, come per esempio la concessione di onori. I governatori che non si accontentano di tali onori e si concedono ulteriori favori diventano dei tiranni. I tipi di danno che si possono verificare nella società sono tre: 1.

a) quando il danno si produce per caso fortuito o per costrizione, e quindi contro ogni ragionevole previsione, esso si chiama “disgrazia”. Per esempio, se qualcuno afferra la mano di un altro e picchia un terzo, il secondo non è ingiusto, perché l’atto non dipende da lui;

2.

b) quando il danno è originato dall’ignoranza, esso si chiama “errore”, come quando si agisce senza che la persona che subisce l’azione, l’azione che si compie, il mezzo con cui l’azione si compie o il fine per

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cui essa si compie siano quelli che si pensava che fossero. Per esempio, si è colpito qualcuno con l’intenzione di pungerlo lievemente, ma senza volerlo lo si ferisce gravemente; oppure si è colpito un uomo pensando che fosse un’altra persona. Nell’errore l’origine della colpa, anche se involontaria, è in colui che agisce; invece nella disgrazia è al di fuori di lui; 3.

c) quando il danno è fatto volontariamente, ma senza una precedente premeditazione, spinti solo dall’impulsività o da altre passioni, allora si compie sì un atto ingiusto, ma chi lo compie non è considerato ingiusto. Infatti l’origine del danno non è chi agisce per impulsività, ma colui che ne ha provocato l’ira. In questi casi non si discute se il danno sia avvenuto o meno, ma se sia stata giusta o meno la reazione alla provocazione: infatti spesso chi agisce con ira non lo fa per cattiveria, ma per reagire a un evento che gli appare come ingiusto. Invece quando il danno lo si fa volontariamente dopo una scelta consapevole e premeditata, chi lo compie è il vero ingiusto e malvagio. Infine l’ingiustizia si può commettere anche contro se stessi, e questo avviene quando qualcuno, per un eccesso di sobrietà o umiltà, si attribuisce intenzionalmente meno di quanto gli spetti.

Libro VI Dopo aver trattato le virtù etiche, ora parliamo di quelle dianoetiche. Nell’anima ci sono tre elementi che determinano l’azione e la verità: sensazione, intelletto e desiderio. La sensazione non è il principio di alcuna azione morale. Infatti anche le bestie possiedono la sensazione, ma è chiaro che non possiedono la capacità di agire moralmente. Principio dell’azione è la scelta, e principi della scelta sono il desiderio e il calcolo dei mezzi per raggiungere il fine. La scelta non può sussistere senza il pensiero. Il pensiero però di per sé non mette in moto nulla; bensì ciò che spinge alla scelta è il pensiero che determina i mezzi per raggiungere uno scopo; quindi ciò che spinge alla scelta è il pensiero pratico. Questo infatti presiede anche alle attività produttive: infatti chiunque produca qualcosa la produce per un fine, che è l’oggetto da produrre. L’agire moralmente buono invece è fine a sé stesso, e il desiderio che anima le scelte dell’uomo buono è quello di raggiungere questo fine. Ma non può essere oggetto di scelta il passato (per esempio, nessuno può scegliere di avere saccheggiato Troia), bensì solo il futuro; e non possono essere oggetto di scelta le cose necessarie, bensì solo quelle contingenti (cioè quelle che possono mutare e che possono tanto accadere quanto non accadere). Le disposizioni per cui l’anima coglie la verità per mezzo di un’affermazione o una negazione sono cinque: arte, scienza, saggezza, sapienza, intelletto; invece non possono esserlo il giudizio e l’opinione, perché sono passibili di errore. La scienza si basa su elementi certi e immutabili, e perciò necessari, eterni e incorruttibili. Attraverso il ragionamento deduttivo chiamato sillogismo, partendo da due premesse vere si può ricavare una conclusione, anch’essa vera, che ne deriva logicamente. Esempio: tutti gli uomini sono mortali (prima premessa); Socrate è uomo (seconda premessa); Socrate è mortale

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(conclusione). Tuttavia, salendo a ritroso, si arriva a dei principi che sono indimostrabili, universali, e che quindi bisogna accettare per induzione. Pertanto la scienza è una disposizione alla dimostrazione. Invece ciò che è contingente (ossia non necessario) può essere oggetto o di produzione o di azione (dove per “azione” s’intende l’agire umano). Nel primo caso, la disposizione che se ne occupa è l’arte; nel secondo, la saggezza. L’arte quindi è una disposizione, ragionata secondo verità, alla produzione. Come detto, la saggezza ha per oggetto le azioni. Per comprendere il significato della parola “saggezza”, definiamo la natura di coloro che chiamiamo “saggi”. Ebbene saggio è colui che è capace di ben deliberare su ciò che è buono e vantaggioso ai fini del raggiungimento di una vita felice per se stesso e per tutto il genere umano. Ne consegue che in generale si definisce “saggio” colui che possiede la capacità di deliberare. La saggezza non può essere né scienza né arte: non può essere scienza perché i principi di questa, come detto in precedenza, sono necessari, e quindi non possono formare oggetto di deliberazione; non può essere arte, perché questa ha per oggetto la produzione, mentre la saggezza ha per oggetto l’azione. Infatti il fine della produzione è al di fuori della produzione stessa, mentre il fine dell’azione risiede in se stessa: cioè l’agire moralmente bene è fine a se stesso. In generale quindi la saggezza si può definire come una disposizione vera e ragionata all’azione avente per oggetto ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo. Persone sagge sono, ad esempio, coloro che sanno amministrare una famiglia o uno Stato. L’intelletto ricerca i principi universali e indimostrabili. Questi ultimi, come abbiamo visto, non possono formare oggetto di scienza, perché la scienza può ricercare, attraverso il ragionamento logico, solo le conclusioni dimostrabili; non possono formare oggetto neanche di arte e saggezza, in quanto queste riguardano cose mutevoli e non necessarie, mentre i principi, per definizione, sono certi e immutabili; né infine possono formare oggetto della sapienza, poiché questa si serve anche di dimostrazioni. Ne consegue che i principi possono formare solo oggetto di intelletto. La sapienza è un’alta maestria che si estrinseca in senso onnicomprensivo e non in un campo particolare o in una cosa determinata. Da ciò appare evidente che la sapienza è la più perfetta delle scienze. Inoltre la sapienza si può considerare un insieme di scienza e intelletto, in quanto è scienza, dotata di principi, delle realtà più sublimi, come, ad esempio, i corpi celesti. Pertanto uomini come Anassagora e Talete sono chiamati sapienti ma non saggi; essi infatti ignorano ciò che è vantaggioso per loro, ma conoscono realtà straordinarie, meravigliose, difficili e divine, e nello stesso tempo...


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