De Anima - Aristotele PDF

Title De Anima - Aristotele
Course Antropologia filosofica
Institution Università degli Studi di Genova
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Riassunto completo dell'opera "De Anima" di Aristotele...


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DE ANIMA – ARISTOTELE INTRODUZIONE AL TESTO. -IL DE ANIMA COME OPERA DI FRONTIERA TRA LA FISICA E LA METAFISICALa psicologia aristotelica è una parte della fisica, giacché si occupa di una determinata forma (l’anima) in relazione a una determinata materia (corpo vivente), e ricordiamo che la fisica ha per oggetto lo studio dei corpi dotati di movimento, e le attività e funzioni proprie di tali corpi. La fisica è definita “filosofia seconda” perché non perviene alla conoscenza delle cause e dei principi primi dei fenomeni; la conoscenza di essi è propria della metafisica, detta “filosofia prima”. La psicologia, insieme con la fisica, risulta dunque essere subordinata alla metafisica. Aristotele, però, nell’ambito dell’” antropologia filosofica” individua una caratteristica dell’anima che egli considera separata dal corpo e indipendente da esso: si tratta dell’intelletto, e in particolare dell’intelletto produttivo. Ed è per questo specifico aspetto che il trattato non è relegato interamente nell’ambito della fisica, ma diviene parte integrante della metafisica: nel momento in cui entra in campo l’intelletto, si cede il posto alla filosofia prima. Considerato il trattato nella sua globalità, quindi, vedremo come esso funga da cerniera di collegamento tra fisica e metafisica; la trattazione supera tanto la grezza fisica naturalistica, tanto la grezza filosofia teoretica prima, scegliendo una via mediana che potremmo definire come fisica speculativa. La psicologia, inoltre, possiede un’eccedenza rispetto alle scienze biologiche speciali (che ritroviamo svolte in trattati come i Parva naturalia, o i trattati sugli animali, come il moto degli animali, le parti degli animali ecc.) per via dell’esattezza del metodo impiegato dalla psicologia (infatti, l’anima del vivente, in quanto incorporea e semplice garantisce una conoscenza più astratta e generale che non le discipline biologiche speciali; l’esattezza, dunque, dipende dalla semplicità dell’oggetto di studio) e il valore dell’oggetto di studio (infatti, la stessa incorporeità dell’anima assicura alla psicologia una preminenza sulle altre scienze biologiche dal punto di vista del grado ontologico dell’oggetto d’indagine). -CONTENUTO DEI TRE LIBRI DEL DE ANIMAIl De anima si compone di tre libri. Il LIBRO I esamina innanzitutto le teoria psicologiche dei predecessori. Se Aristotele condivide la tesi generale dei presocratici e di Platone, che fa dell’anima un principio di movimento, sensazione e conoscenza, egli rivendica però per sé il merito di aver introdotto uno studio e una disciplina dell’anima “nuovi” e “originali”: l’anima va considerata infatti phusikos, da un punto di vista “fisico”, cioè esaminando scientificamente, tramite l’osservazione e la dimostrazione, cosa e come essa “operi” e “funzioni”. Attraverso una rassegna delle principali aporie intorno all’anima e delle opinioni dei predecessori, Aristotele giunge a definire l’anima, nei primi due capitoli del LIBRO II, come «forma e atto primo di un corpo naturale che sia strumentalmente disposto alla vita», cioè come il principio vitale che realizza e attua le funzioni potenziali di un corpo. Con un esempio: non basta possedere gli occhi per “vedere”: gli occhi di per sé sono soltanto strumenti della vista, mentre occorre, per “vedere”, un principio che realizzi e attui la vista. E così pure per tutte le funzioni vitali e biologiche, primarie e secondarie, semplici e complesse. Ne segue che, in quanto tale, nella sua dimensione funzionale di forma del corpo materiale, l’anima non è separabile dal corpo e non sussiste indipendentemente dal corpo. Si tratta del celebre “ilemorfismo” aristotelico, per cui l’anima è appunto la morphe, la forma, della hule, della materia, corporea. Nessun dualismo di sostanze è quindi possibile nella psicologia di Aristotele né dell’anima si può dare una descrizione “materiale” o “sostanziale” autonoma, cioè come qualcosa che si generi o sussista di per sé, ossia autonomamente dal corpo. Queste, per dirle semplicemente, sono le principali critiche rivolte ai predecessori e a Platone soprattutto: l’anima non è una realtà composta di elementi fisici o naturali (come vogliono i presocratici) né una realtà dotata di statuto e capacità psichiche distinti, capaci di tradursi in azioni fisiche nel corpo (come vuole Platone), perché il vivente è un’unità indissolubile di cui anima e corpo manifestano l’aspetto funzionale, cioè formale, e strumentale, cioè materiale. Il libro II prosegue con l’esame delle facoltà dell’anima, che coincidono con altrettante funzioni biologiche, muovendo dalle prime due. L’anima esercita infatti, in primo luogo, una funzione nutritiva o vegetativa, che è propria di tutti i viventi, comprese le piante, e che presiede alla nutrizione e alla riproduzione; quindi una funzione sensitiva, che appartiene a tutti gli animali, e che ha a che fare con la percezione sensibile, ma anche con gli appetiti e con gli impulsi al movimento e all’azione. Nel contesto

dell’indagine sulla facoltà sensitiva, Aristotele passa in rassegna natura e modi dei cinque sensi, giungendo ad alcune importanti acquisizioni. Innanzitutto, viene negato il carattere “passivo” della sensazione, perché il percepire implica l’attività dell’organo di senso nella percezione: non si tratta pertanto esclusivamente di subire il contatto con un oggetto esterno, perché tale contatto “attiva” l’organo di senso che, solo quando è in atto, “sente” propriamente e percepisce. Un altro esito importante di questa sezione dell’opera consiste nella distinzione fra sensibili “propri”, cioè quelli percepibili solo da un senso specifico (come il colore è il “sensibile” proprio soltanto della vista), e sensibili “comuni”, ossia quelli che possono essere percepiti da più sensi (come il movimento, che può essere percepito sia dalla vista sia dal tatto). Sui primi, secondo Aristotele, non è possibile nessun errore percettivo; sui secondi, invece, l’errore è certamente possibile. Il LIBRO III del De anima esamina infine la facoltà più alta dell’anima, che appartiene solo agli uomini, quella intellettuale. Aristotele prende le mosse dalla transizione dalla sensibilità all’intelletto, considerandone i diversi passaggi. Egli si interroga dapprima sulla possibilità che esista un “sesto” senso oltre i cinque, un senso “comune”, capace di “unificare” l’esito della percezione dei primi cinque. Ma la risposta è negativa: non esiste nessun “sesto” senso, ma ognuno dei cinque sensi percepisce e ha coscienza della percezione compiuta, sicché non occorre un “senso” superiore che raccolga e unifichi le percezioni. L’unità delle percezioni deriva dal fatto che essa riguarda i già citati sensibili “comuni”, ossia quelli percepiti da più sensi contemporaneamente: è da questa percezione integrata, o appunto “comune”, che dipende la possibilità di acquisire una prospettiva unificata e plurale dell’atto percettivo. Ma il passaggio dalla sensazione al pensiero e all’intelletto è ancora mediato dalla presenza di una facoltà intermedia, la phantasia. Normalmente resa con “immaginazione”, la phantasia adempie alla funzione di produrre phantasmata, cioè immagini derivate da una precedente sensazione in atto che a loro volta costituiscono l’insieme di materiali su cui si esercita l’azione dell’intelletto. Siamo giunti così al nous, all’intelletto o facoltà intellettuale. Si tratta di un questione assai complessa e sostanzialmente concentrata nei capp. 4-5 del libro III. Aristotele formula una premessa per questa parte della sua trattazione: come nell’intera natura, anche nell’anima e rispetto alle sue facoltà, conviene distinguere una dimensione formale e una materiale. Vi sarà perciò un intelletto analogo alla materia e un intelletto analogo alla forma. O meglio: vi saranno una dimensione o uno stato dell’intelletto analogo alla materia e uno analogo alla forma. L’intelletto analogo alla materia è concepito come pura potenza ricettiva degli intellegibili, vale a dire dei contenuti della conoscenza intellettuale – degli oggetti dell’intelletto –, e non potrà coincidere con nessuno di essi prima di pensarli effettivamente. Su questo piano vi è una certa analogia fra il “pensare” e il “percepire”, in entrambi i casi avendo luogo un “subire” l’azione dell’oggetto pensato o percepito da parte della corrispondente funzione dell’anima. Ma questa analogia ha naturalmente un limite, perché, mentre la facoltà sensitiva è connessa ai sensi, cioè a organi corporei, la facoltà intellettiva non è “mescolata” al corpo né dispone di un organo fisico specifico. Ciò giustifica il dubbio che Aristotele esprime, se cioè l’indagine di questa facoltà spetti alla psicologia oppure alla disciplina più alta, la filosofia prima, che si occupa degli enti immateriali. Ma questo intelletto analogo alla materia, questo intelletto in potenza, che è in potenza, prima di pensarli, tutti i suoi oggetti, cioè gli intelligibili, come giunge a pensare? In altre parole, come passa dalla sua condizione potenziale alla conoscenza in atto, al pensiero degli intellegibili, al loro effettivo possesso? Siamo qui di fronte, nel cap. 5 del libro III, alla principale e più nota difficoltà dell’opera, su cui sono stati versati fiumi di inchiostro e suggerite le interpretazioni più divergenti. L’intelletto “agente” o “attivo” è paragonato a una sorta di luce che rende i colori in potenza colori in atto e permette perciò di coglierli, come pure a una causa efficiente che “produce” i propri effetti; esso è tuttavia “nell’anima”, come suo stato o condizione. E’ importante precisare questo punto perché, notoriamente, alcune importanti interpretazioni antiche hanno voluto concepire l’intelletto agente come un principio esterno, un intelletto divino, perfino coincidente con il primo motore immobile di cui parla il libro XII della Metafisica, che sarebbe responsabile della produzione delle forme intellegibili e della loro trasmissione all’intelletto umano solo passivo o in potenza. Per quanto ingegnosa, questa interpretazione non trova chiaro fondamento nel testo aristotelico, se la conclusione del cap. 5 insiste sul carattere divino dell’intelletto agente e sulla sua separabilità dal corpo prevalentemente nel senso che si tratta di un’attività intellettuale “pura”, che non si esercita tramite il corpo, e che, come tale, attinge in qualche modo all’immortalità. Ma “quale” immortalità? Anche questo punto è controverso: mi limiterei personalmente a constatare, concludendo su tale aspetto, che Aristotele ripete qui che la conoscenza in atto, cioè il pensiero che pensa, cioè ancora l’attività intellettuale realizzata, è identica al suo oggetto, il che implica necessariamente che consiste nell’identificarsi con il proprio oggetto.

L’intelletto in atto, l’intelletto che pensa, è dunque forse soltanto da intendersi come quella funzione intellettuale che, pensando gli intellegibili, si rende identica a essi, differenziandosi così dalla sua condizione solo potenziale, che consiste invece nella disposizione non ancora realizzata ad accogliere gli intellegibili. Se le cose stessero in questi termini, la separazione, l’eternità e l’immortalità dell’intelletto agente o in atto si rivelerebbero semplicemente come tratti che appartengono agli oggetti intellegibili con cui del resto esso si identifica. In tale ottica sarebbe allora legittimo sostenere che «esso soltanto è ciò che è veramente», anche se, come Aristotele aggiunge, «noi non ricordiamo», appunto nella misura in cui non vi sarebbe nessun “noi” al livello di questo intelletto che è in atto i suoi oggetti, di questa attività intellettuale considerata di per sé, che è ricondotta, senza residui, alla dimensione oggettiva dei suoi contenuti. LIBRO A (I). Valore, metodo e problemi della PSICOLOGIA. Riteniamo comunemente che le forme di sapere più degne d’onore siano quelle che posseggono un maggior rigore (dagli Analitici Secondi, Aristotele afferma che un sapere può dirsi rigoroso laddove sia dimostrabile attraverso catene di ragionamenti, cioè sillogismi), o si rivolgono agli oggetti migliori: per entrambe queste motivazioni, la ricerca sull’ANIMA occuperà i primi posti (il primo ricordiamo essere occupato dalla Metafisica, filosofia prima). Aristotele si prefigge poi come procedere nell’indagine sull’anima: prima verranno considerate la sua natura ed essenza, e poi, successivamente, tutte le sue caratteristiche e funzioni. In primo luogo è necessario stabilire che cosa sia l’anima, nel senso di dire se sia una sostanza (un qualcosa di determinato), oppure una qualità o una quantità; se sia tra gli enti in potenza o sia piuttosto un atto (risp. Atto); se sia costituita da parti o priva di parti (unità dell’anima, distinzione delle sue facoltà per funzione); bisognerà capire se ogni anima è delle stessa specie o no, e qualora non lo sia, se le anime differiscano per la specie o per il genere, infatti coloro che più svolgono ricerche sull’anima (Platone e i platonici) sembra che si limitino a considerare la sola anima umana, mentre invece è necessario stabilire se ci sia davvero un’unica definizione di anima oppure se siano possibili definizioni diverse di anima, al pari di come ci sia un’unica definizione di animale, ma diversa definizione di cavallo, cane, uomo (in poche parole, se anima possa essere un termine comune oppure unico). E le cose che accadono nell’anima, le affezioni dell’anima, sono proprie solo dell’anima o anche del corpo? Anima e corpo sono separati e indipendenti oppure sono strettamente connessi (come sinolo di forma e materia= materia informata e determinata da una forma), e dunque, nel momento in cui cessa di esistere uno, conseguentemente cessa di esistere anche l’altro? Aristotele nota a tal proposito che la maggior parte delle affezioni dell’anima non potrebbero essere senza il corpo: ad esempio, la collera risulta essere un’ebollizione del corpo; altro discorso è per il pensiero, sul quale c’è più perplessità da parte dello Stagirita, in quanto questo sembra essere un’affezione propria solo dell’anima ("Se tra le attività o affezioni dell’anima ce n’è qualcuna che le sia propria, l’anima potrebbe avere esistenza autonoma; ma se non ce n’è nessuna che le sia propria, non sarà separabile": se si trovasse una qualche attività dell’anima assolutamente indipendente dal corpo, allora sarebbe possibile ammettere la separabilità dell’anima dal corpo, ma, poiché Aristotele non ne rinviene alcuna -"sembra che anche le affezioni dell’anima abbiano tutte un legame con il corpo"-, allora è costretto a riconoscere l’inseparabilità dei due). Che tra anima e corpo intercorra un rapporto strettissimo appare anche evidente dal fatto che non appena si verificano affezioni dell’anima il corpo subisce modifiche: a seconda che io provi gioia o dolore, infatti, il corpo si modifica in un modo o in un altro. Questa considerazione implica una conseguenza di notevole importanza: in quanto connesse al corpo, le affezioni dell’anima possono essere indagate dal fisico, il quale si occuperà di studiare materialmente delle produzioni corporee delle affezioni (l’amore, la paura, ecc.), cioè i movimenti del corpo; tuttavia, non basta conoscere il movimento e il mutamento, ma è necessario conoscere anche le cause, e ciò compete, propriamente, al filosofo. Il FISICO e il FILOSOFO definirebbero ciascuna di queste affezioni in modo diverso, ad es.: che cos’è la collera? Mentre il FILOSOFO la definirebbe come «desiderio di importunare a propria volta», il FISICO la definirebbe come «ebollizione del sangue e del calore»  vediamo dunque come il fisico naturalista indicherebbe la materia, mentre il filosofo la forma o essenza. È vero però che affinchè l’essenza della cosa in questione, affinché possa essere (esistere realmente) deve necessariamente realizzarsi in un corpo, in una materia. E inoltre, affinchè il corpo o quella data materia sia determinata e definita per ciò che è, ha necessità di un’essenza che lo informi e lo renda strutturalmente ciò che esso è.

Avremo allora bisogno di compiere l’indagine nelle vesti di un fisico “speculativo”, e di compiere l’indagine senza scindere l’aspetto formale-essenziale dalla base materiale che attualizza. Altrimenti si svolgerà un’indagine incompleta, parziale, e dunque non produttiva per il nostro fine. Le dottrine psicologiche dei predecessori. Aristotele richiama ora le dottrine dei filosofi a lui precedenti per mostrarne le aporie e farne una sintesi per pervenire ad una soluzione sulla questione dell’anima. Divide queste due dottrine inizialmente in tre categorie: chi ha inteso l’anima come causa del movimento, chi l’ha intesa come causa della sensazione, e chi intende l’anima come causa di entrambe. Il primo gruppo nota come gli esseri animati (provvisti di anima) si differenzino da quelli inanimati in quanto i primi si muovono da sé, e concludono dunque che l’anima è inevitabilmente principio del movimento, qualcosa che conferisce e permette il movimento. Per costoro, ciò che si muove da sé è dotato di anima, da cui deriva che l’anima stessa è in movimento (dato che una cosa può muoverne un’altra solo se è già essa stessa in movimento). Rientra in questo gruppo Democrito, che riteneva che l’anima fosse la causa del calore (dedotto probabilmente dall’esperienza della freddezza di un corpo morto). L’anima sarebbe composta da atomi sferici che hanno la capacità di muoversi molto velocemente, producendo così calore. Anche l’interpretazione dei Pitagorici è sulla stessa linea di quella di Democrito. Anassagora invece ha identificato l’anima con il nous, l’Intelletto cosmico, che muove ogni cosa. Platone l’anima si muove da sé, ed è per questo che è immortale. Il secondo gruppo sostiene invece che la grande differenza tra esseri animati ed inanimati è data dalla possibilità dei primi di avere sensazioni, con l’inevitabile deduzione che l’anima dev’essere il principio della sensazione. Rientra in questo gruppo Empedocle, che delinea un parallelismo tra macrocosmo e microcosmo: l’anima risulta essere composta da 4 radici (principi, elementi) e percepisce (ha sensazione) la realtà esterna proprio in quanto anche quest’ultima risulta costituita dei medesimi 4 elementi (questo secondo la “regola”: con il simile conosciamo, percepiamo, abbiamo sensazione del, il simile). Il terzo gruppo sostiene invece che l’anima sia la causa tanto del movimento quanto della percezionesensazione. In questo gruppo rientra Senocrate, il quale sosteneva che l’anima fosse un numero che muoveva se stesso (un’interpretazione matematica dell’anima semovente di Platone, di cui S. era allievo). Inoltre, Aristotele riporta che alcuni hanno inteso l’anima come corporea (pensiamo a Democrito, Talete), altri invece come incorporea (pensiamo a Platone e Senocrate), altri ancora hanno “mescolato” le due componenti (pensiamo a Empedocle, con i 4 elementi e le due forze cosmiche di odio e amore). Alcuni poi l’hanno concepita come unica, altri invece come composta da parti. Parte da questo momento (cioè una volta finita l’enunciazione delle dottrine die predecessori sull’anima) la critica di Aristotele a tutte le “teorie cinetiche” sull’anima, che ha come fine il dimostrarne l’inconsistenza: Aristotele nota che forse, non solo è falso che l’anima sia in movimento, ma è addirittura impossibile; ragionando per assurdo, ammettiamo che l’anima si muova: in primo luogo ne consegue che ci sono due modi possibili in cui essa può muoversi, o perché si muove da sé, o perché è mossa da altro; per meglio comprendere prendiamo un esempio: una nave si muove da sé, ma il passeggero sulla nave si muove perché è la nave che si muove. L’anima si muove come si muove la nave o il passeggero della nave? Ammettiamo che si muova come si muove la nave, cioè da sé: allora a questo punto dobbiamo fare un’altra distinzione, poiché ritroviamo 4 diversi tipi di questo movimento: spostamento, alterazione, diminuzione e accrescimento. Innanzitutto si nota che per muoversi l’anima dovrebbe presupporre uno spazio, altrimenti in assenza di esso il movimento non potrebbe avvenire: allora in questo caso cade l’immaterialità dell’anima (in quanto sarebbe assurdo dover pensare che qualcosa di immateriale si muova in uno spazio, è immateriale). Inoltre, un’altra conseguenza sarà la possibilità di essere soggetta a moti violenti, come accade alle altre cose dotate di movimento: un esempio di movimento violento è dato da una pietra l...


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