Riassunto Etica e infinito PDF

Title Riassunto Etica e infinito
Course Etica Sociale
Institution Università Cattolica del Sacro Cuore
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Etica e infinito – Emmanuel Levinas Introduzione – La distrazione da sé, ovvero: la prossimità, il sociale In Etica e infinito di Emmanuel Levinas compare per due volte un’immagine astronomica: > il sole, che il soggetto della conoscenza di Cartesio (il cogito) riesce a dare a se stesso facendo di sé la stella fissa del firmamento > la parola “dis-astro” (citando un’espressione di Maurice Blanchot), che indica il fallimento dello sforzo di fare di se stessi la leva con cui sollevare il mondo Il dis-astro non è una catastrofe, e neppure l’interruzione di un progetto fallito: esso inaugura la possibilità che l’umano arrivi a se stesso attraverso l’altro uomo. Tutto sembra allora giocarsi all’interno di questa possibilità: che l’arroccamento su di sé e la perseveranza nel proprio essere possano interrompersi per un attimo. Se questa distrazione da sé è possibile, allora non solo sarà possibile la libertà, ma anche il mondo comune in cui l’umano appare nella sua libertà. Il dis-astrarsi da sé è l’etica, è il sociale, è la stessa filosofia. Mostrare che la distrazione da sé è possibile è questione fenomenologica, perché basta leggere con attenzione le nostre più normali esperienze quotidiane (che quindi vengono ricondotte sbrigativamente a necessità vitali, come se non nascondessero nessuna profondità). Levinas conia delle icone di pensiero che diventano paradigmatiche (il volto, il comando, l’eros, il femminile, l’unicità…) Ma, rispetto al risplendere di queste icone, il suo discorrere è più torturato, sofferente. Occorre dunque prestare attenzione a ciò che passa attraverso, che si capovolge: si scopre così tutta la fatica del linguaggio e dell’argomentazione, lo sforzo di un non detto mai del tutto adeguato a ciò che si vuol dire.

1. La distrazione Se è possibile distrarsi da sé, e qualcosa può essere diverso da com’è, allora l’umano è possibile: > perché interrompe il muro della necessità che lo soggioga > perché si sospende la violenza reiterata di insistere a oltranza su se stessi Il fatto che la distrazione da sé sia possibile non appartiene né all’ordine della volontà né all’ordine dell’intenzione: per una volontà che vuole solo ciò che si deve volere, la distrazione si ridurrebbe solo a un essere sbadati, una dimenticanza, un difetto di concentrazione. ! infatti di solito della distrazione si riconosce solo il carattere negativo. La distrazione da sé ha poco a che vedere con l’essere sbadati: l’invito a non distrarsi implica infatti un’attenzione diversa, che impone di concentrarsi su quello che si sta facendo non come prolungamento di sé, ma come attenzione verso gli altri. ! Vi è un distrarsi come caduta di tono, disattenzione rispetto a ciò che si fa ! Vi è un distrarsi che allontana da sé rimanendo presso di sé in altro modo Vi è un essere distratti e un distrarsi da sé: quest’ultimo inaugura l’apparizione di un mondo differente, il mondo dell’umano, dove è presente qualcosa d’altro oltre a me e ai miei interessi. La distrazione da sé accade all’umano quasi controvoglia, ogni giorno. Nel quotidiano ci si impegna in prima persona e ci si distrae da sé senza che sia sempre possibile distinguere chiaramente l’una e l’altra cosa. La distrazione da sé è l’ingresso dell’infinito nell’esistenza, perché rompe con ogni definizione (se tutto corrispondesse senza residui alla propria definizione, nessuna distrazione sarebbe possibile).

Ingresso e rottura non sono un’apertura agli altri, ma l’irruzione dell’impensato dentro il pensato: l’ingresso dell’infinito nell’esistenza è la socialità stessa. 2. La lettura Leggere, oggi, è una consuetudine tanto indispensabile da risultare spesso inavvertita nella sua essenza e nel suo significato. Della lettura si offre spesso una giustificazione in termini di pura utilità, come strumentale per le faccende di tutti i giorni. La lettura sembra esistere per confermare ciò che dev’essere confermato: si è circondati da scritte che orientano l’esistenza come un manuale di istruzioni, e che esauriscono l’esistenza stessa nella cifra della strumentalità. La lettura tende a farsi sempre più veloce e strumentale, perfino i libri diventano strumenti. La lettura si allinea con la comoda rassicurazione che il mondo è già in ordine, ed è sufficiente una “guida turistica”. Ma a dispetto di questa convinzione, nella lettura si trova qualcosa di anche più profondo: “La lettura è una modalità del nostro essere”. L’esperienza della lettura solleva in alto, allontana da sé e dal proprio essere centrati su noi stessi. La lettura rapisce, chiama fuori, distrae, fa dimenticare (non nel senso di perdere qualcosa, ma di un ritrovare): sconvolge dalle fondamenta la presunzione di un mondo unico. Con l’esperienza della lettura affiora una frattura nell’essere: fa spazio alla trascendenza, prendendo la forma di una duplice polemica > contro la riduzione della scrittura a prodotto culturale > contro la nobile reclusione della lettura nell’intimismo La lettura, al contrario, discute l’indipendenza degli esseri nella loro identità, mette in contatto: fa apparire il volto degli altri.

3. Il libro, l’umano L’esperienza della lettura distrae, perché distoglie da sé e conduce verso altre parole e altri pensieri. Ogni singolo libro appartiene al grande libro dell’umanità: ! l’umanità dell’uomo consiste proprio nella responsabilità per altri. Tuttavia, un libro in particolare si presenta come Libro dei libri: la Bibbia. Può sembrare strano parlare di un Libro dei libri quando tutti i libri appartengono al grande libro dell’umanità, e si potrebbe insinuare che Levinas faccia questa affermazione in virtù della sua appartenenza religiosa (egli era ebreo). Grande libro dell’umanità: libro delle responsabilità per l’altro, a cui ogni libro appartiene Libro dei libri: conferma la convergenza tra l’essere veramente umani e la sensibilità per gli altri. Nella Bibbia la responsabilità per l’altro non è implicita, ma si trova espressa a chiare lettere, fino ad assumere la forma etica di un comando. “la Bibbia è il libro dei libri in cui si dicono le cose prime, quelle che dovevano essere dette perché la vita umana abbia senso”. Questo libro non è sacro per la sua origine sovrannaturale: la sua sacralità coincide con la laicità della consapevolezza etica di una responsabilità per altri. Il miracolo della Bibbia coincide con la sua umanità che esprime il fondamento stesso della prossimità tra uomo e uomo. È una sacralità alternativa, in cui si depositano 1) una rottura irrevocabile rispetto agli ordini dell’esistenza 2) una crisi irreversibile 3) una pluralità essenziale 4) un dialogo strutturale 5) una messa in discussione dell’egoismo 6) la fine del dogmatismo gratuito. Per il Libro dei libri spuntano dei problemi quando dal contenuto si passa a considerare la forma letteraria con cui esso si presenta: il modo in cui dice “le cose che dovevano essere dette” entra in

conflitto con la tipicità di un discorso razionale. Ma forse il contrasto non è grande quanto sembra: ogni pensiero filosofico, dopotutto, riposa su “esperienze prefilosofiche”. Inoltre, scegliendo un linguaggio poetico, narrativo, giuridico (e non concettuale), il Libro dei libri è ancora più comprensibile e chiaro. 4. Il pensiero del come Nell’esperienza della lettura è anticipato anche il pensiero del come, che riguarda il “modo di essere”. Quando interviene il pensiero del come, niente rimane uguale a se stesso: > interpretazione polemica: rottura con la dimensione dell’essere generico > interpretazione conciliante: presa di coscienza di un modo tipico e non confondibile di essere In entrambi i casi qualcosa si rompe rispetto a ciò che è: il pensiero del come indica infatti una sporgenza, l’ingresso della libertà nella vita degli uomini. Il pensiero del come è il pensiero stesso dell’esistenza, che distoglie da un fare e da un pensare soliti, che si fissano solo sul cosa. Pensare al modo, invece, costringe a spostare l’attenzione dall’essere al come, ad allargare o sguardo, a riguardare sempre di nuovo e daccapo. Il come impone di ricordare pensieri dimenticati, e invita a fare emergere tanto i sottintesi quanto i malintesi. Nel come compare un irriducibile, che è il pensiero stesso del come: esso documenta la possibilità ambigua dell’esistenza, il fatto che si può essere diversamente, e quindi gli è essenziale la pluralità. ! il pensiero del come è reso possibile dalla presenza degli altri.

5. Essere e al di là Levinas attribuisce al pensiero del come tre funzioni, ispirate all’incontro con Heidegger, tutte radunate sotto la bandiera della crisi. 1) il pensiero del come muta il significato dell’essere Prima del come, l’essere è visto come un sostantivo, una natura sempre identica a se stessa. Con l’arrivo del come, l’essere passa da sostantivo a verbo, un esporsi continuo al rischio della vita. Dalle genericità dell’essere si passa alla personalità dell’esistere. Mutano anche i significati di filosofia (non più descrizione di ciò che è, ma risposta al significato che viene), e di analisi razionale (non si occupa solo degli aspetti intenzionali dell’esistenza, scoprendo il mondo affettivo degli “stati d’animo”). Prima ancora di essere un pensiero, il come è una rivelazione del modo in cui si è al mondo, e che si patisce attraverso gli stati d’animo (soprattutto l’angoscia). 2) il pensiero del come fa emergere l’essere ingombrati di se stessi Questo è il motivo del “c’è”, del ritrovarsi come si è: se ne può fare una lettura nel senso della donazione (sovrabbondanza, generosità) o una lettura nel senso dell’impersonale (tutto ciò che, essendoci, non si pone il problema del come). ! è proprio la presenza o l’assenza del come che fa da spartiacque tra ciò che è anonimo e ciò che è personale. Esistenza e anonimato, apertura anonima e apertura personale si ritrovano spesso vicini, tanto che Levinas vi ha dedicato un saggio, Dall’esistenza all’esistente: > esperienza dell’insonnia, una situazione che non dipende da noi ma insiste sulla coscienza > esperienza della fatica e dello sforzo, a metà tra l’esistere e l’essere al modo di qualcosa che c’è. 3) il pensiero del come interrompe con l’essere dato così com’è L’essere dato, il fatto di ritrovarsi a essere in un certo modo, sembra quasi invitare ciascuno di noi a restare in questa situazione, prendendosi cura delle cose che ci circondano: ma la cura delle cose ingombra l’esistenza. Esistere, apparire alla vista come umani, diventa allora non più un porsi ma un deporsi. Ciò che ci fa uscire dall’anonimato dell’esistenza non è una posizione, ma una

deposizione di sé: una responsabilità per l’altro. Il pensiero del come annuncia un ontrepassamento dell’essere, perché l’esistere si dice eticamente nella responsabilità per l’altro. Posizione e deposizione si riferiscono alla sovranità dell’io, e alla situazione sociale e politica. L’uscita dall’anonimato dell’esistenza corrisponde infatti alla “relazione sociale e disinteressata con altri”: il sociale è il modo tipico di essere dell’umano, oltre a se stessi. 6. La comunicazione La distrazione da sé accade, oltre che nella lettura e nel come, anche nella parola, esperienza quotidiana situata nel bivio tra l’esistere in prima persona e l’anonimato. L’esperienza quotidiana della parola si distende tra il dire e la comunicazione. Tra questi due termini passa la stessa differenza che passa tra lettura strumentale e lettura profonda: > il comunicare riguarda il mondo dell’impersonale e del neutro > il dire mette già di fronte l’uno all’altro La comunicazione è il pendant della lettura strumentale, e come questa non distrae da se stessi (a dispetto della sua etimologia): la comunicazione non rappresenta l’uscita dalla solitudine dell’essere, anzi la conferma. La diffidenza di Levinas per la comunicazione ha due ragioni: > il timore di ricadere nel generico di un’unità non umana > il suo rapporto col sapere e con la conoscenza. Il mondo della comunicazione sembra oggettivato e oggettivante, ricacciato nella neutralità di ciò che vale per tutti e per nessuno. Inoltre, essa è funzionale alla trasmissione di saperi: la conoscenza accentra, fissa su di sé, e impedisce la distrazione. Viene evocato Cartesio, che ha fatto della conoscenza il modello per rapportarsi con gli altri: il cogito fa di se stesso l’astro di riferimento, l’io della conoscenza fa di se stesso il perno del mondo, si centra su se stesso. La conoscenza porta tutto all’interno. ! conoscere è un catturare, e comunicare estende questa cattura. La socialità non può quindi avere la stessa struttura della conoscenza, perché rimane sempre una solitudine.

7. Il dire Anche il dire è esperienza quotidiana, e si presenta nella forma di parlare con gli altri, di salutare gli altri. Avviene qualcosa di diverso rispetto alla comunicazione anonima e standardizzata: per parlare o salutare bisogna guardarsi in volto, accorgersi dell’altro. ! il “dire” è un “vedere altrimenti”: non si tratta solo di comunicare, ma di rispondere. Rispondere è un farsi responsabili, e viceversa farsi responsabili è un rispondere: solo in questo senso il dire si fa dialogo (modo tipico dell’interumano). Il dire astratto deve tradursi in un detto: nonostante ciò, dire e detto sono due cose diverse (come la sorgente è diversa dal fiume). E come il dire precede e sorregge il detto, il sociale precede e sorregge la società. L’alternanza del dire e del detto pone un duplice problema: la prima parola e il metodo. > Il problema della prima parola ha senso anche se il dire autentico è un dialogare, perché è già nel dialogo: proprio questo rispondere costituisce la prima parola. > Il problema della prima parola non ha senso se preso sul lato della parola detta verso l’altro. Ha senso solo nella sua radice di dire all’altro, cioè rispondere. > Il problema della prima parola è pieno di contenuto etico, perché la prima parola è un comando: “Tu non ucciderai”, forma etica della distrazione da sé.

La prima parola non è mai garantita, neppure nelle parole stesse che sono spesso anticipo e ricaduta di ogni violenza: lo stesso comando di responsabilità per l’altro si innalza di fronte a ciò che può essere offeso. La prima parola, che è un comandamento, si innalza nella nudità e nella fragilità del volto d’altri.

8. Dire e disdire Il secondo problema riguarda il metodo: se la parola è più di una parola, non può accontentarsi delle parole già dette o ritornare ad un suo utilizzo strumentale. Il problema del metodo riguarda dunque la parola che si rivolge all’altro, che si rivolge a Dio. Un dire consapevole, meditato, tecnico: la parola della filosofia. > da un lato non si può fare a meno di deporre il dire in un detto > dall’altro un dire consapevole e meditato trasforma il detto in già detto ! il dire filosofico è un continuo disdire. La filosofia mette a fuoco questa presa di distanza: il dire filosofico vive nella necessità di disdirsi sempre. Ma la questione di un dire che è un disdire va oltre il problema della parola filosofica: riguarda la questione stessa di restituire il senso dell’infinito, che non si può catturare in un sapere chiuso. Si tratta di pensare come dire ciò che non può essere detto. Il dire che disdice testimonia la presenza dell’infinito, ma non si lascia interpretare come limite: nella difficoltà e nell’impossibilità, viene a galla la sua infinità.

9. Eros, il mistero Nella sua normalità quasi fisiologica, la sessualità appartiene al quotidiano, documentando quello che in apparenza sembra un ritorno continuo su di sé ma che invece porta fuori da se stessi. ! ciò che Eros porta in superficie non è quello che dice per davvero. Diversi segnali del comportamento fanno di Eros un essere concentrati su se stessi: > da un lato si fa di Eros il manifesto della libertà > dall’altro è il segno di un’insufficienza radicale, come se portasse con sé l’allusione a una pienezza che non si trova. Una fenomenologia di Eros pone in risalto che in Eros qualcosa sfugge alla conoscenza, annunciando una trascendenza che non sta al di là dell’umano ma al suo interno. Eros rimanda al “mistero”, testimonia che l’alterità e sia prima che dopo ogni altra cosa. Eros annuncia una differenza dell’umano che non è equiparabile al “numero” (differenza di somme e sottrazioni di singole unità) né alla “natura” (differenza dell’umano in maschio e femmina). L’alterità erotica attraversa ciascuno, e chiama fuori da ciò che di fatto si è. Da Eros si viene presi, il che interrompe la logica lineare della centralità della coscienza: Eros attira verso una zona di opacità intima. Si parla di una comunicazione dell’eros, in virtù del rovesciamento per cui Eros si differenzia dal possesso e dal potere. Quando Eros si manifesta velandosi (per esempio nel pudore e nel femminile), risulta difficile interpretarlo nei termini classici di “lotta per il reciproco riconoscimento”, o “fusione romantica”. Eros non separa il linguaggio dell’unione e quello della differenza, ne parla in modo contestuale: differenza e unione, così, si appartengono da sempre a vicenda.

L’esperienza di Eros è attraversata dal sulla differenza di corpi (maschile e femminile). Leggendolo secondo il programma contrapposto della lotta, questa differenza si riduce a una complementarietà fisiologica: però così facendo si trascura il modo umano del loro rapporto. Eros non fa incontrare le differenze, non le confonde tra di loro: piuttosto, fa vibrare la differenza come qualcosa che appartiene fin da subito alla propria identità. Più che di un prendere, allora, Eros si fa esperienza di un cedere: passività nell’attività, “patetico” nell’amore, depossessione. Levinas insiste su due esperienze particolari: la carezza erotica e quella del figlio. Entrambe fanno emergere nitidamente il movimento patetico dell’amore e quello del ritrovarsi spossessati. > la carezza erotica si distingue dal puro toccare come il comunicare e il dire, la società e il sociale. La carezza “non sa quello che cerca”, non risponde ad un agire ordinato dallo scopo preciso: nella carezza vi è un prendere ma anche un lasciare, è un “gioco” che domanda di essere sempre giocato di nuovo. > l’esperienza del figlio è “ancora più misteriosa” di Eros, perché l’altro è radicalmente altro pur essendo in qualche modo me. L’esperienza della paternità rovescia il possesso, la proprietà. ! Eros è una partecipazione che interroga, un’uscita dalla solitudine dell’essere.

10. Il sociale, l’etica, la filosofia L’uscita dalla solitudine dell’essere è il sociale, a cui sembra si arrivi attraverso la rottura, l’altrimenti che l’essere, il dire, l’Eros, il figlio… come in un cammino dal singolo alla socialità. Ma non è così: Levinas, nell’impostare il discorso sul sociale, tiene in parte presente la riflessione di Aristotele, che parla della città come: > derivata per accrescimento interno dagli individui > originaria, antecedente agli elementi che la formano I segnali negativi e oppositivi sono molti; tuttavia a proposito del sociale si osserva anche in Levinas un passaggio doppio. Il sociale diventa il luogo, umano, della distrazione da sé: luogo della libertà. > da un lato è introdotto come un momento ulteriore ed esplicito del discorso > dall’altro è continuamente sotteso ad analisi sugli aspetti dell’essere. Persino l’affermazione filosofica per eccellenza, “la filosofia prima è un’etica”, non viene pronunciata quando si tratta di polemizzare col metodo trascendentale del sapere o col primato della conoscenza oggettivante: ma viene citata in riferimento al sociale, al “faccia a faccia degli umani”. Le parole del sociale sono quindi le parole dell’etica e della filosofia. I segnali di questa equiparazione sono molteplici, e rintracciabili in un triplice gruppo di parole: > parole della dissociazione: mettono in relazione dimensioni alternative, come dire e comunicare, società e sociale… > parole dell’equivalenza: fanno apparire nello stesso luogo termini appartenenti alla stessa famiglia di significati, come filosofia e etica > parole dell’immersione: recuperano i termini a cui Levinas affida gli snodi più delicati del discorso per sottrarli a una deriva linguistica Sono parole che vengono pronunciate in riferimento all’essere e alla conoscenza, all’etica e alla responsabilità, ma che alla fine si depositano nel sociale. Le parole sommerse, in particolare, sono di grande interesse perché...


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