G. Reale - Storia della filosofia Antica - Platone e L\'accademia - Importanza dell’oralità, “dottrine non scritte” e nuove linee interpretative dei suoi dialoghi PDF

Title G. Reale - Storia della filosofia Antica - Platone e L\'accademia - Importanza dell’oralità, “dottrine non scritte” e nuove linee interpretative dei suoi dialoghi
Author Emanuele Boffelli
Course Storia della filosofia antica
Institution Università degli Studi di Bergamo
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Platone Importanza dell’oralità, “dottrine non scritte” e nuove linee interpretative dei suoi dialoghi Relazione basta sul terzo volume della “Storia della filosofia greca e romana” di Giovanni Reale (prime 6 sezioni)

Platone è probabilmente a detta di molti filosofi il vertice più cospicuo nonché l’asse portante dell’intero pensiero greco. Anche la filosofia aristotelica è strutturalmente dipendente dalla filosofia platonica e le maggiori filosofie post-ellenistiche di origine greca sono una rivisitazione o rielaborazione delle teorie platoniche. Una chiara influenza la troviamo nella filosofia cristiana tardo-antica, che ha utilizzato le categorie metafisiche platoniche per rielaborare ed esprimere razionalmente l’insegnamento cristiano. L’influenza esercitata dalla filosofia di Platone è stata “millenaria”. Questo può essere dovuto al fatto che Platone ha insegnato a guardare la realtà con gli occhi nuovi dello spirito e dell’anima, mostrando un nuovo metodo di interpretazione, capace di raccogliere, rielaborare e riproporre in maniera unita tutta la filosofia precedente e insieme fondare una base per quella futura. Prima di affrontare la spiegazione delle sue principali teorie, vanno risolte o quantomeno affrontate alcune questioni metodologiche ed epistemologiche che in Platone risultano fondamentali più che in tutti gli altri filosofi antichi. La prima questione da affrontare è il criterio con cui Platone sia stato letto ed interpretato. Questo criterio si basa su alcune convinzioni. La prima è che l’opera scritta di Platone sia la sua espressione più piena e significativa. Questo ovviamente è anche conseguenza del fatto che Platone più di altri ha dimostrato una grande dote di scrittore oltre che di pensatore. La seconda convinzione è che di Platone sono giunti tutti gli scritti e tutte le fonti concordano sul fatto che fosse lui l’autore, caso altrettanto raro nella letteratura filosofica antica. Da tutto ciò il passo è breve per pensare che la totalità delle sue opere scritte contenga la totalità del suo pensiero. Queste convinzioni non sono più valide oggi, eccetto la seconda (riguardante l’autenticità e vastità di produzione scritta). Due fatti che rimescolano le carte e che richiamano la nostra attenzione in vista di uno sguardo nuovo. Innanzitutto, c’è l’autotestimonianza di Platone nel Fedro quando dice espressamente che il filosofo non mette per iscritto “Le cose di maggior valore”, le quali rendono tale un filosofo. Altre conferme a tal proposito si trovano nella VII Lettera. Il secondo fatto deriva da un’importante tradizione indiretta che attesta l’esistenza di “Dottrine non scritte” attribuibili a Platone e di cui abbiamo i contenuti principali. Da ciò ne deriva che gli scritti non sono assolutamente stati l’espressione più completa di Platone e anzi sembrano tralasciare addirittura le questioni più importanti (almeno in maniera esplicita, come si vedrà in seguito). Tutto ciò che si è detto e scritto a proposito delle opere di Platone e del suo pensiero va dunque rivisto in una nuova ottica. Platone stesso nel Fedro chiarisce come gli scritti, sia dal punto di vista del metodo che dal punto di vista del contenuto, non siano in grado di comunicare alcune cose essenziali. Ma perché così a lungo ha resistito il vecchio metodo interpretativo? Una risposta a questa domanda può venire dal fatto che l’età moderna sia stata caratterizzata principalmente da una cultura che riteneva la scrittura il mezzo principale per la diffusione del sapere a discapito dell’oralità, che è invece tornata alla ribalta di recente anche grazie a i mezzi di comunicazione, per lo più audiovisivi, odierni. Anche Platone ha vissuto nel conflitto tra oralità e scrittura, ricordiamo per esempio che

tutti i filosofi precedenti a lui, compreso il suo maestro Socrate, hanno vissuto secondo il modello dell’oralità, senza parlare di tutte le tradizioni mitologiche che venivano ancora tramandate oralmente. Ma Platone stesso iniziò a seguire anche il modello della scrittura, e come lui Aristotele ed i pensatori seguenti. Noi oggi possiamo analogamente comprendere bene i limiti comunicativi della scrittura e possiamo capire la scelta di Platone di non affidarsi totalmente ad essa. Platone indica cinque motivi per cui la scrittura non è in grado di comunicare “le cose di maggior valore” per il filosofo. 1. La scrittura non accresce la sapienza ma l’apparenza di sapere degli uomini; inoltre non rafforza la memoria ma offre solo mezzi per richiamare alla memoria cose che già si sanno. 2. Lo scritto e inanimato. Ed è incapace di aiutarsi e difendersi da solo contro le critiche sollevate da gli oppositori. 3. Lo scritto è come un’immagine, una copia assai sbiadita, un simulacro di quello attuato nella dimensione dell’oralità. 4. La scrittura implica gran parte di gioco mentre l’oralità implica una notevole serietà. 5. Lo scritto implica una conoscenza del vero dialetticamente fondata e a un tempo una conoscenza dell’anima di colui a cui è diretto e quindi la conseguente strutturazione del discorso. Di conseguenza lo scritto difficilmente soddisfa pienamente i compiti a lui richiesti. È utile dunque a richiamare alla memoria cose che già si sanno (mezzo ipomnematico) e non ad insegnare o spiegare cose nuove 6. Scrittore e filosofo è colui che compone opere sapendo come sta il vero e che è capace di soccorrerle e difenderle quando occorre ed è quindi in grado di dimostrare in che senso le cose scritte sono d minor valore. Altre auto testimonianze a proposito dell’importanza per il filosofo di non scrivere “le cose di maggior valore” le troviamo nella VII lettera. In primo luogo Platone spiega in cosa consisteva la prova che sottoponeva a chi si accostava alla filosofia e poi illustra i pessimi risultati dati da questa prova messa in atto nei confronti del tiranno Dionigi di Siracusa, che soltanto dopo una sola ora di lezione con Platone voleva scrivere riguardo alle “cose più grandi”. Platone sostiene che scrivere di queste cose non serve perché quei pochi che ne potrebbero trarre vantaggio sono capaci da soli di trovare il vero (nella comunione di vita e di ricerca con chi insegna) e d’altra parte risulta dannoso per le reazioni che provocherebbe in moltissimi uomini i quali non capirebbero quelle cose e le deriderebbero e disprezzerebbero, oppure si riempirebbero di presunzione dicendo di aver capito ciò che in realtà non sono in grado di capire. Platone afferma, infine, che per gli uomini che hanno questa natura affine alle cose che si ricercano lo scritto non è necessario e per gli uomini che, invece, non hanno buona natura è del tutto inutile scrivere su cose che sono superiori alle loro capacità. Chi ha tentato come Dionigi di scrivere su quelle cose più alte, sui “Principi primi e supremi della realtà” lo hanno fatto per cattivi scopi e non per buone ragioni. Platone dunque non ha voluto scrivere e ha desiderato che nessun altro scrivesse su “ciò che abbraccia l’intero”, ossia “il tutto”, “le cose più grandi”, “il falso il vero di tutto il essere”, “le cose più serie”, i Principi supremi della realtà”. Come facciamo allora ad avere a disposizione degli scritti riguardanti le “Dottrine non scritte”? L’insegnamento e la diffusione del pensiero di Platone è avvenuto in 2 modi. Uno destinato al pubblico (le opere scritte, come i dialoghi), e l’altro all’interno dell’Accademia, fra i suoi discepoli. Vi è la distinzione tra un pensiero platonico essoterico ed esoterico, come è accaduto per altri grandi pensatori. Alcuni discepoli hanno scritto a proposito di queste “Dottrine non scritte” come strumento di diffusione all’interno dell’Accademia, permettendo anche noi di poter attingere al pensiero di Platone che non ha voluto scrivere al pubblico. Tutto ciò che abbiamo detto finora fa emergere la necessità di rivisitare gli scritti platonici secondo una nuova ottica.

Platone utilizza nelle sue opere scritte la forma dialogica ereditata dal tipico filosofare socratico, che aveva la funzione di esaminare, provare, curare, e purificare l’anima e questo poteva venire solo tramite il dialogo vivo. Ovviamente il potere del dialogo si esprime pienamente nell’oralità e non in un dialogo scritto, quindi Platone stesso è consapevole dei limiti delle proprie opere scritte. A proposito dei dialoghi platonici possiamo dire che nei primi Platone si ripropone scopi protrettici, educativi e morali. La loro funzione è quindi la purificazione dell’anima dalle false opinioni, la preparazione maieutica alla verità e la discussione educativa. I dialoghi platonici inoltre non intendono mai rispecchiare colloqui realmente avvenuti, ma piuttosto presentano modelli di colloquio ideali che terminano a volte col successo a volte con l’insuccesso filosofico. Al di là della chiara funzione ipomnematica degli scritti e del fatto che Platone non ritenga la scrittura il metodo migliore per il pensare filosofico, resta il fatto che i dialoghi siano un potente strumento di comunicazione filosofica. Gli scritti platonici non possono quindi essere letti indipendentemente dal pensiero non scritto di Platone. Essi richiedono al lettore di conoscere un quadro più ampio, e solo all’interno di questo possono essere compresi pienamente. Leggendo i dialoghi si trovano continui rimandi e allusioni non esplicitate. Di conseguenza tutti i dialoghi più significativi di Platone sottintendono il quadro teoretico generale delle “Dottrine non scritte”. Ecco allora che molte delle parti centrali di alcuni dialoghi importanti che prima non si è riusciti ad interpretare in maniera completa ritrovano un nuovo spunto interpretativo. Problemi per gli interpreti di Platone consiste nella ricostruzione dell’unità del pensiero platonico e nel guadagno di una visione sintetica e organica che faccio ordine in quel complesso materiale concettuale che offrono i dialoghi. La tradizione in diretta, rivelandoci quali fossero per Platone il fondamento supremo della reale e indicandoci i nessi che legano tutte le realtà ai “Principi supremi”, ci aiuta a colmare la mancanza di unità che si presenta prendendo in considerazione solo i dialoghi. Testimonianze rimaste delle “Dottrine non scritte” ci permettono di ricostruire alcuni tratti essenziali e alcuni nessi strutturali di un sistema più ampio. Per sistema ovviamente non si fa riferimento a qualcosa di simile in senso hegeliano ma piuttosto un’organica connessione di concetti in funzione di un concetto chiave o di alcuni concetti chiave e non intende certo una chiusura concettuale o dogmatica. Un altro importante aspetto da considerare riguardo all’interpretazione di Platone è la questione dell’evoluzione del suo pensiero. Sappiamo per certo che Le leggi sono stato il suo ultimo scritto e le sue ultime opere sono state il Teeteto, Parmenide, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia e Le Leggi. La Repubblica invece fa parte della fase centrale della sua produzione ed è preceduta dal Simposio e dal Fedone e seguita dal Fedro. Il Gorgia appartiene verosimilmente al periodo appena anteriore al primo viaggio in Italia, il Menone, invece, a quello immediatamente seguente. Di questo periodo è anche il Cratilo. Della sua prima attività sta a coronamento il Protagora. Gli altri dialoghi, soprattutto quelli brevi, sono attribuibili alla sua fase giovanile, come si nota anche dal tema prettamente socratico. Certamente questa cronologia rispecchia con una certa fedeltà il Platone scrittore, ma alla luce del nuovo modello interpretativo dobbiamo tener presente che questo non coincide sistematicamente e globalmente con il Platone pensatore. La sua consapevolezza teoretica e la maturità delle sue dottrine può non coincidere con la scansione temporale dei suoi dialoghi. Quando Platone scrive lo fa, come sappiamo, con un certo intento da cui dipendono la struttura dell’opera, la scelta del linguaggio la profondità e difficoltà dei concetti trattati. Inoltre, come espresso nel Fedone, l’elaborazione orale veniva prima della produzione scritta che aveva un compito ipomnematico. L’orizzonte in cui si muove Platone è molto più ampio di quello che gli scritti lasciano intendere ad una prima analisi. Un altro aspetto peculiare in Platone che va rivalutato dal punto di vista interpretativo è la compresenza nei dialoghi di mito e logos. Due interessanti valutazioni, a questo riguardo, tra loro opposte sono state proposte prima da Hegel e poi da Heidegger. Il primo sosteneva che Platone ha

usato il mito perché il suo pensiero era ancora impotente, incapace di reggersi e autocomunicarsi, un pensiero non ancora libero. Si può riconoscere nel mito il ruolo pedagogico perché attrae ed eccita. Per Heidegger invece, il mito è la forma più autentica della metafisica platonica. Dove il logos coglie l’essere ma non riesce a spiegare la vita, il mito viene in suo aiuto: spiega la vita, superando il logos e diventando mito-logia. Dal Gorgia in poi, in molte tematiche escatologiche il discorso filosofico per Platone diventa quasi una forma di fede ragionata. Il mito cerca una chiarificazione nel logos e il logos un completamento nel mito. L’utilizza della forma mitica serve a Platone anche come strumento per parlare dell’essere, di una verità su cui non è possibile fare ragionamenti assoluti ma solo verosimili. Il mito diventa dunque narrazione probabile, immagine di un mondo che non possiamo comprendere fino in fondo. Il pensiero, nell’uomo si esprime per immagini e così anche la narrazione dei pensieri, come accade nei dialoghi, deve avvenire per immagini e in questo senso possiamo trovare una certa forma mitica in tutti gli scritti di Platone. Pensare-e-parlare-per-immagini diventa un aspetto emblematico dello spirito umano e Platone ne dà un ampio rilievo ed è forse uno dei motivi per cui il suo successo è maggiore rispetto ad altri. Uno dei pezzi più famosi e più importante che Platone ha lasciato nei suoi scritti è quello centrale del Fedone. Esso costituisce la prima razionale prospettazione e dimostrazione dell’esistenza di una realtà sopra-sensibile e trascendente. Riprendendo i temi trattati dei suoi predecessori Platone lega le questioni metafisiche più importanti ai problemi della generazione e corruzione dell’essere e delle cose e sono connesse con l’individuazione della causa che sta a loro fondamento. Le domande fondamentali che dobbiamo porci sono dunque: perché le cose si generano? Perché si corrompono? Perché “sono”? Platone critica le risposte date della filosofia precedente, che si basava soprattutto sui principi fisici com’è il fuoco, l’aria o l’acqua. Platone trova insufficiente anche la teoria “dell’intelligenza cosmica” proposta da Anassagora. Secondo lui affermare che l’intelligenza ordina e calcola tutte le cose significa affermare che essa dispone di tutte le cose nella migliore maniera possibile, ma questo implica che l’intelligenza e il bene siano strutturalmente connessi. Pure l’intelligenza come causa implica porre “il meglio” cioè “il bene” come condizione del generarsi e del perire dell’essere delle cose. Anassagora poi manca anche di un criterio del meglio in funzione del quale quest’intelligenza operi. L’intelligenza dice Platone è la vera causa ossia la causa reale che opera in funzione del meglio, e i principi fisici sono solo il mezzo con cui questa intelligenza si manifesta. I filosofi della natura precedenti si fermano a quella che nel linguaggio marinaresco si definisce la “prima navigazione”, quella su spinta dal vento dalle vele. Questa fa riferimento a tutte quelle filosofie legate ai semplici fatti che i nostri sensi ci permettono di vedere. Ma c’è bisogno di una “seconda navigazione”, quella che avviene quando manca il vento, quando i marinai devono remare e per i filosofi è quel momento in cui si va alla ricerca del sopra-sensibile, di ciò che non si può vedere ma appartiene alla sfera dell’intelligibile. Possiamo introdurre il progetto che abbraccia l’intero quadro della metafisica platonica mettendo in evidenza I suoi 3 punti focali. Che sono la “Teoria delle idee”, la teoria dei “Principi primi” e la dottrina del “Demiurgo”. Il termine “Idea”, nel linguaggio moderno, ha assunto un significato che non è quello inteso da Platone. La traduzione esatta del termine sarebbe “forma”. Mentre noi intendiamo un concetto, un pensiero, una rappresentazione mentale, qualcosa di psicologico o noologico. In Platone l’idea è un oggetto specifico del pensiero, non un ente di ragione, bensì un essere, anzi quell’essere che è assolutamente il vero essere. Idea deriva, in greco, dal verbo vedere e veniva impiegato per indicare la forma visibile delle cose, ciò che si coglie con l’occhio. Successivamente è venuta ad indicare la forma interiore, la natura aspecifica della cosa, la sua assenza. Ed è proprio Platone a fare largo a questo nuovo uso del termine. Per Platone dunque non è più qualcosa di visibile all’occhio ma qualcosa di puramente e solamente intelligibile. Come mai questo termine passa dal

voler dire qualcosa di puramente visibile alla più alta forma metafisica dell’essere. Questo traslazione di significato avviene in maniera semplice se consideriamo l’intelletto come gli occhi della nostra anima, che riescono a vedere le forme visibili solo all’intelletto: come gli occhi vedono la forma del reale del fisico, così l’intelletto ci permette di vedere le cose puramente intelligibili che sono le idee. I caratteri basilari delle idee che emergono dai dialoghi platonici sono l’intelligibilità, l’incorporeità, l’essere in senso pieno, l’immutabilità, la perseità (essere in sé e per sé, assolutamente oggettive), l’unità (ognuna di loro è un’unità, che raccoglie tutte le cose che partecipano a quell’idea). La teoria delle idee è la cospicua distinzione del piano metafisico dal piano fisico, fatta nella maniera più netta e per la prima volta nella storia del pensiero occidentale. In qualche modo contrappongono la natura stessa dell’uomo che ha che fare sia con un mondo sensibile e che con un mondo intelligibile. Il Dualismo di Platone non è altro se non il dualismo di chi ammette l’esistenza di una causa sopra sensibile come ragion d’essere del sensibile medesimo, ritenendo che il sensibile, a motivo della sua auto contraddittorietà, non possa avere una globale ragione d’essere di sé medesimo. Platone indica chiaramente questo mondo intelligibile come “Iperuranio” cioè “luogo sopra il cielo”, ed indica un luogo che non è affatto un luogo in senso fisico bensì un luogo metafisico, vale a dire nella dimensione del sopra-sensibile. Il cielo è il visibile. “sopra il cielo” è il sopra-visibile. E le idee non occupano questo luogo come gli oggetti fisici occupano un luogo nel mondo sensibile, ma sono senza figura, senza colore, invisibili e sono coglibili solo da quella parte che ha il governo dell’anima, cioè solamente con l’intelligenza. Il sensibile però si spiega solamente con il sopra-sensibile, il corruttibile con l’essere incorruttibile, il mobile con l’immobile, il relativo con l’assoluto, il molteplice con l’uno. Questa è in sintesi ciò che intendeva dire Platone con la sua teoria delle idee. Tra il sensibile e l’intelligibile può esistere un rapporto di mimesi (o imitazione), di metessi (o partecipazione), di comunanza oppure ancora di presenza. Anche se Platone dice esplicitamente che questi termini devono essere intesi come semplici proposte. In realtà, nelle “Dottrine non scritte”, Platone spiega meglio questi legami fra sensibile e intelligibile. Il sensibile è mimesi dell’intelligibile perché lo imita, pur senza mai riuscire ad eguagliarlo e nella misura in cui realizza la propria essenza, “partecipa”, cioè “ha parte dell’intelligibile”. Dato che il sensibile è causato dal intelligibile, si può dire che abbia una “comunanza”, cioè una tangenza con l’intelligibile e che questo sia presente nel senso appunto in cui la causa è presente nel causato. Le idee poi, dice Platone, sono anche modello delle cose sensibili nel senso di “paradigma” cioè di come le cose devono essere. I “Principi primi e supremi” riservati All’oralità dialettica che troviamo nelle dottrine non scritte, sono i concetti di “Uno” e “Diade”. Per introdurre questi concetti è giusto partire dalla convinzione dei greci contemporanei a Platone che “spiegare” significa anche “unificare”. È stato infatti l’obiettivo di molti quello di spiegare la molteplicità dei fenomeni riguardanti il cosmo riducend...


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