Grido del Gabbiano PDF

Title Grido del Gabbiano
Author Barbara Giampà
Course PEDAGOGIA DELLA COMUNICAZIONE
Institution Università della Calabria
Pages 64
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Summary

Usato per esame di Lingua dei segni italiana...


Description

Riprodotto dal mio Libro, X Voi che Non riuscite a Trovarlo in Libreria.

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Il grido del gabbiano Nove mesi di vita e una diagnosi inequivocabile. La piccola Emmanuelle è sordomuta in forma grave. Si sforza di farsi capire, ma è in grado di emettere solo incomprensibili grida, come un uccello marino, un gabbiano che plana sull'oceano. Un muro invisibile la separa dagli altri, costringendola a un isolamento profondo, punteggiato da momenti di terrore. La sola persona con cui riesce a comunicare è sua madre, con un linguaggio "ombelicale” fatto di mimica e gesti, un codice particolare, istintivo, segreto. Eppure Emmanuelle ha una sensibilità profonda, acutissima. Avverte i rumori sotto forma di vibrazioni, sente la musica con il corpo, ne percepisce il magico ritmo. E ha già un carattere indipendente, volitivo e cocciuto, accentuato dalla solitudine, dal silenzio. Come racconta lei stessa in questa autobiografia «fino a sette anni non ci sono parole né tanto meno frasi nella mia testa. Solo un caos d'immagini senza alcun rapporto tra loro». A sette anni, la svolta. Il suo universo esplode di colpo: impara il linguaggio dei segni, qualcosa che fino a quel momento le è stato precluso, perché in Francia è un metodo controverso non ancora ufficialmente riconosciuto a livello istituzionale. Impara a esprimersi liberamente, creando arabeschi nello spazio. Una suggestiva danza di parole nell'aria, la chiave per aprire la porta che la separa dal mondo: per lei è una rivoluzione. Recupera velocemente il tempo perduto apprendendo, studiando. Poi nell'adolescenza tutto si capovolge. Al disorientamento tipico della sua età si aggiunge la ribellione, perché si vede negare un'identità come sordomuta. Si chiude di nuovo in se stessa, va alla deriva, vive una difficile storia d'amore. Ma, lucida e fortemente determinata, reagisce e decide di lottare, Si laurea, combatte per difendere i suoi diritti, per tutti quelli che soffrono del suo stesso handicap. Diventa attrice teatrale imponendosi trionfalmente nella pièce Les Enfants du silence, entusiasmando la Francia con la sua grazia e il suo talento. Consegue il prestigioso premio Molière nel 1993. Ora tutti se la contendono: ha appena terminato di girare un film e tornerà presto sul palcoscenico per interpretare un adattamento dell'Antigone di Sofocle. È ospite fissa di una trasmissione televisiva molto seguita. La sua commovente testimonianza è la storia di una delle più difficili sfide mai affrontate nell'era della comunicazione.

Emmanuelle Laborit nipote del grande biologo Henri Laborit, figlia di uno psichiatra, Emmanuelle Laborit vive a Parigi. È legata al regista e attore Jean Dalric.

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Il grido del gabbiano 1

Confidenza

Per me le parole sono una bizzarria sin dall'infanzia. Dico bizzarria, a causa di quel che di strano vi fu all'inizio. Che voleva dire la mimica di chi mi stava attorno, la bocca atteggiata a cerchio e tirata ad abbozzare smorfie diverse, le labbra in curiose posizioni? "Sentivo" qualcosa di diverso a seconda che si trattasse della collera, della tristezza o della soddisfazione, ma il muro invisibile che mi separava dai suoni corrispondenti a quella mimica era al tempo stesso trasparente come il vetro e compatto come il calcestruzzo. lo mi agitavo da un lato del muro e gli altri facevano la stessa cosa dall'altro lato. Quando tentavo di imitare come una scimmietta la loro mimica, non sempre si trattava di parole, ma di lettere visive. A volte, imparavo una parola di una sola sillaba o di due sillabe che si somigliavano, come "papà", "mamma", "tata". I concetti più semplici erano ancora più misteriosi. Ieri, domani, oggi. Il mio cervello funzionava al presente. Che significavano il passato e il futuro? Quando ho compreso, con l'aiuto dei segni, che ieri era alle mie spalle e domani dinanzi a me, ho fatto un balzo fantastico. Un immenso progresso, che gli udenti stentano a immaginare, avvezzi come sono a comprendere sin dalla culla le parole e i concetti ripetuti instancabilmente, senza neppure rendersene conto. Poi ho compreso che altre parole designavano le varie persone. Emmanuelle, ero io. Papà, era lui. Mamma, era lei. Marie era mia sorella. lo ero Emmanuelle, esistevo, avevo una definizione, e perciò un'esistenza. Essere qualcuno, comprendere che si è vivi. A partire da questo punto, ho potuto dire «IO». Prima, dicevo «LEI», parlando di me. Cercavo la mia collocazione nel mondo, chi ero, e perché. E mi sono trovata. Mi chiamo Emmanuelle Laborit. In seguito sono riuscita ad analizzare, un po' alla volta, la corrispondenza tra le azioni e le parole che le designano, tra le persone e le loro azioni. Tutt'a un tratto, il mondo mi apparteneva e ne facevo parte. Avevo sette anni. Ero appena nata e cresciuta, d'un sol colpo. Avevo una tale fame e una tale sete di apprendere, di conoscere, di capire il mondo, che non ho più smesso. Ho imparato a leggere e scrivere la lingua francese. Sono diventata loquace, curiosa di tutto, pur esprimendomi in un'altra lingua, come una straniera bilingue. Ho dato l'esame di maturità, come tutti quanti, o quasi. E ho avuto più paura degli scritti che degli orali. La cosa può sembrare singolare nel caso di una creatura che fatica a pronunciare le parole, ma scrivere è un esercizio ancora difficile. Quando ho deciso di scrivere questo libro, c'è stato chi mi ha detto: «Non ci riuscirai». Oh! sì, invece. Quando decido di fare qualcosa, vado fino in fondo. Volevo riuscirci. Avevo deciso di riuscirci. Ho intrapreso la mia piccola opera personale con la cocciutaggine che mi contraddistingue da sempre. Altre persone, più curiose, mi hanno domandato come intendevo regolarmi. Avrei scritto io stessa? Raccontato ciò che volevo scrivere a un udente, il quale avrebbe tradotto i miei segni? Ho fatto le due cose. Ogni parola scritta e ogni parola a segni si sono ritrovate sorelle. A volte più gemelle di altre. Il mio francese è un po' scolastico, come una lingua straniera appresa, distaccata dalla sua cultura. La mia vera cultura è la lingua dei segni. Il francese ha il merito di descrivere obiettivamente ciò che voglio esprimere. Il segno, questa danza delle parole nello spazio, è la mia sensibilità, la mia poesia, il mio io intimo, il mio stile vero. Le due cose commiste mi hanno consentito di scrivere questo racconto della mia giovane vita, in alcune pagine; dall'ieri, in cui mi trovavo dentro quel muro di calcestruzzo trasparente, all'oggi, in cui ho scavalcato il muro. Un libro costituisce una testimonianza importante. Un libro va dovunque, passa di mano in mano, da uno spirito all'altro, per lasciarvi una traccia. Un libro è un mezzo di comunicazione che di rado è dato ai sordi. In Francia, avrò il privilegio di essere la prima, così come sono stata la prima attrice sorda a ricevere il Molière del teatro. 3

Questo libro è un regalo della vita. Mi consentirà di dire ciò che ho sempre taciuto, ai sordi come agli udenti. E un messaggio, un impegno nella battaglia relativa alla lingua dei segni, che separa ancora molte persone. Mi servo della lingua degli udenti, la mia seconda lingua, per esprimere la mia assoluta certezza che la lingua dei segni è la nostra prima lingua, la nostra, quella che ci consente di essere esseri umani "comunicanti". Per dire, altresì, che nulla dev'essere negato ai sordi, che si possono usare tutte le lingue, senza ghettizzazione e senza ostracismi, al fine di accedere alla VITA.

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Il grido del gabbiano

Ho lanciato grida, molte grida, e vere grida. Non perché avessi fame o sete, o paura, o male, ma perché cominciavo a voler “parlare" perché volevo udirmi e i suoni non mi giungevano. Vibravo. Sapevo di gridare, ma le grida non significavano nulla per mia madre e mio padre. Erano, dicevano, grida acute di uccelli marini, come un gabbiano che plani sull'oceano. Così, mi hanno soprannominato il gabbiano. E il gabbiano gridava al di sopra di un oceano di rumori che non udiva, e loro non comprendevano il grido del gabbiano. La mamma dice: «Eri una bimba bellissima, sei nata senza traumi, pesavi tre chili e mezzo, piangevi quando avevi fame, ridevi, cinguettavi come gli altri bambini, ti divertivi. Non abbiamo capito subito. Ti abbiamo giudicata una brava bambina, perché dormivi con i pugnetti serrati in una stanza attigua al salotto dove la musica andava a tutto volume, le sere di festa con gli amici. Ed eravamo orgogliosi di avere una bambina così brava. Ti abbiamo creduta "normale", perché giravi la testa quando un uscio sbatteva. non sapevamo che avvertivi la vibrazione attraverso il pavimento, sul quale giocavi, e attraverso gli spostamenti d'aria. Allo stesso modo, quando tuo padre metteva un disco, attaccavi a ballare, nel tuo recinto, dondolando ti e agitando le gambe e le braccia». Ho l'età in cui i bambini si divertono per terra, a quattro zampe, e cominciano a voler dire mamma e papà. Ma io non dico nulla. Percepisco le vibrazioni attraverso il pavimento, dunque. Avverto le vibrazioni della musica e l'accompagno lanciando le mie grida di gabbiano. È quel che mi han detto. Sono un gabbiano percettivo, ho un segreto, un mondo tutto mio. I miei genitori vengono da una famiglia di marinai. Mia madre è figlia, nipote e sorella degli ultimi doppiatori del Capo Horn. Così, mi hanno chiamata gabbiano. Ero muta o gabbiano?*( in francese,muette, “muta”, e mouette,”gabbiano” ) Oggi, la singolare assonanza fonetica delle due parole, in francese, mi fa sorridere. Il primo che ha detto: «Emmanuelle grida perché non ci sente» è stato mio zio Fifou, il fratello maggiore di mio padre. Mio padre dice: «E stato il primo a metterci la pulce nell'orecchio». «Una scena mi si è impressa per sempre nella memoria, come un fermo immagine» dice mia madre. I miei genitori preferivano non crederci. Al punto che, per esempio, ho saputo solo molto più tardi che i miei nonni patemi si erano sposati nella cappella dell'Istituto nazionale per ragazzi sordi di Bordeaux, di cui il suocero della nonna era direttore! Se l'erano "dimenticato"! Per nascondere la loro inquietudine, forse, per non guardare in faccia la realtà. Insomma, erano orgogliosi che non fossi una piccola "rompiballe" che li svegliasse di buon'ora al mattino. Così hanno preso l'abitudine di scherzare chiamandomi il gabbiano, per non manifestare la paura della mia diversità. Si urla ciò che si vuoI tacere, dicono. Quanto a me, dovevo gridare per tentare di cogliere la differenza tra il silenzio e il mio grido. E poiché i miei genitori tacevano le loro angosce, dovevo gridare anche per loro, chissà? La mamma dice: «Il pediatra mi ha preso per pazza. Neppure lui ci credeva. Sempre quella faccenda delle vibrazioni che percepivi. Ma quando battevamo le mani accanto a te o alle tue spalle, non giravi la testa in direzione del rumore. Ti chiamavamo, e non rispondevi. E personalmente, avvertivo bene tutte queste strane cose. Sembravi sorpresa al punto di trasalire quando mi avvicinavo a te, come se mi avessi vista all'ultimo momento. Dapprima ho creduto che si trattasse di problemi psicologici, tanto più che Il pediatra continuava a non credermi, dato che ti visitava una volta al mese. “Avevo preso appuntamento con lui per metterlo a parte dei miei timori una volta di più. Mi ha detto chiaro e tondo: "Signora, le consiglio vivamente di farsi curare!". 4

«E così dicendo, ha sbattuto violentemente la porta, e siccome tu ti sei girata, per puro caso, o perché avevi avvertito le famose vibrazioni, o semplicemente perché il suo comportamento ti appariva un po' strano, lui ha detto: "Come può vedere, è un'assurdità!". «Ce l'ho ancora con lui. E ce l'ho con me stessa per avergli creduto. Dopo quella visita, si è aperto per noi, per tuo padre e per me, un periodo d'angoscia e di osservazione permanente. Fischiavamo, ti chiamavamo, sbattevamo le porte, ti guardavamo battere le manine, dimenarti come se ballassi al ritmo della musica ... Ci credevamo, poi non ci credevamo più. Eravamo smarriti. «A nove mesi, ti ho portata da uno specialista, il quale ha detto subito che eri completamente sorda dalla nascita. E stato un brutto colpo. Non riuscivo ad ammetterlo, tuo padre neppure. Ci dicevamo: "Deve trattarsi di una diagnosi sbagliata, è impossibile". Abbiamo consultato un altro specialista, e sperato tanto che avrebbe sorriso e ci avrebbe rispediti a casa con parole rassicuranti. «Ci siamo trovati con tuo padre all'ospedale Trousseau, dove ti tenevo sulle ginocchia, e là, ho compreso. TI hanno sottoposta ai test, facendoti sentire suoni fortissimi, che a me spaccavano i timpani, e non facevi una piega. «Ho posto alcune domande allo specialista. Tre domande. « " Parlerà?" «"Sì. Ma ci vorrà molto tempo." «"Che fare?" «"Un'apparecchiatura, una rieducazione ortofonica precoce, soprattutto niente linguaggio gestuale." «"Posso frequentare adulti sordi?" «"Sarebbe sconsigliabile, appartengono a una generazione che non ha conosciuto la rieducazione precoce. Ne uscirebbe demoralizzata e delusa." «Tuo padre era letteralmente distrutto, e io ho pianto. Da dove arrivava la "maledizione"? Una tara ereditaria? Una malattia durante la gravidanza? Mi sentivo in colpa, e tuo padre pure. Abbiamo cercato invano nell'ambito della famiglia chi potesse essere stato sordo, in un ramo o nell'altro». Capisco perfettamente che colpo dev'essere stato per loro. I genitori colpevolizzano sempre, cercano sempre un colpevole. Ma addossare all'altro componente della coppia, al padre o alla madre, la responsabilità della sordità del bambino, è una cosa terribile per il bambino stesso. Non bisogna farlo. Nel mio caso, si continua a non sapere. Non si saprà mai. E sicuramente, è meglio così. Mia madre dice che non sapeva più che fare con me. Mi guardava, incapace di escogitare una maniera qualsiasi per instaurare il legame tra noi. A volte, non riusciva neppure più a giocare. Non diceva più niente. Pensava: "Non posso più dirle ti voglio bene, perché non mi sente". Era in stato di shock. In preda a una tensione spasmodica. Non sapeva più riflettere. Della prima infanzia ho ricordi strani. Un caos nella testa, un susseguirsi d'immagini senza alcun rapporto tra loro, come sequenze cinematografiche montate l'una dopo l'altra, con lunghe pause nere, grandi spazi perduti. Tra zero e sette anni, la mia vita è costellata di buchi. Ne conservo soltanto ricordi visivi. Come tanti flash-back, immagini di cui ignoro la cronologia. Credo che non ve ne sia stata nella mia testa, in quel periodo. Futuro, passato, si collocava tutto quanto sulla stessa linea dello spazio-tempo. La mamma diceva ieri ... e io non capivo dove si trovasse l'ieri, che cosa volesse dire ieri. E neppure domani. E non potevo chiederlo. Ero impotente. Non ero per nulla consapevole del tempo che passava. C'era la luce del giorno, il buio della notte, tutto qui. Non riesco tuttora a porre delle date su quel periodo, da zero a sette anni. Né a rimettere in ordine ciò che ho fatto. Il tempo si era cristallizzato. Scoprivo le situazioni da ferma. Può darsi che vi siano ricordi sepolti nella mia mente, ma senza legami d'età fra loro, e non riesco a ripescarli. Gli avvenimenti, devo dire le situazioni, le scene, perché tutto era visivo, li vivevo come una situazione unica, quella dell'attimo presente. Tentando di ricostruire il mosaico della prima infanzia per scrivere, ho ritrovato solo sprazzi d'immagini. Le altre percezioni sono in un caos inaccessibile al ricordo. Sepolte in quel periodo in cui, nonostante l'assenza del linguaggio, l'incognita delle parole, la solitudine e il muro del silenzio, me la sono cavata, ignoro come. La mamma dice: «Te ne stavi seduta nel tuo lettino, mi vedevi sparire e tornare con stupore. Non sapevi dove andavo, in cucina, per esempio; ero un'immagine di mamma che sparisce, poi di mamma che torna, senza alcun legame tra le due».

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Il silenzio delle Bambole

L‟apprendistato della comunicazione è iniziato con il metodo Berel-Maisonny, con un‟ortofonista, una donna straordinaria, che ha saputo ascoltare la tristezza di mia madre, sopportarne la collera, le lacrime. Giocava con me alle bambole, a far loro il bagnetto e a preparare pranzetti. Ha mostrato a mia madre che era possibile instaurare un rapporto con me, farmi ridere, affinché continuassi a vivere come “prima” che venisse a conoscenza della mia sordità. Imparavo a pronunciare A, B, C, mi si rappresentavano le lettere, con movimenti della bocca e gesti della mano. Mia madre assisteva alle sedute. Era un‟assunzione di responsabilità madre-figlia. È stato per una forma d‟identificazione con quella donna che mia madre ha imparato di nuovo a parlarmi. Ma il nostro era un modo di comunicare istintivo, animale, io lo definisco “ombelicale”. Si trattava di cose semplici, come mangiare, bere, dormire. Mia madre non m‟impediva di esprimermi a gesti, come le era stato consigliato. Non aveva il coraggio di proibirmelo. Avevamo altri segni tutti nostri, inventati di sana pianta. La mamma dice: «Mi facevi ridere fino alle lacrime tentando di comunicare con me in tutti i modi! Giravo il tuo viso verso il mio, affinché tentassi di leggere parole semplici sulle mie labbra, e tu mimavi assieme a me, era una cosa carina e irresistibile». Quante volte ha compiuto il gesto di rivolgere il mio viso verso il suo, il gesto del faccia a faccia tra madre e figlia, affascinante e terribile, che ci è servito da linguaggio? Da quel momento in poi, non c‟è più stato posto per l‟altro, mio padre. Quando mio padre tornava dal lavoro, era così difficile, passavo poco tempo con lui, non avevamo un codice “ombelicale”. Articolavo qualche parola, ma lui non capiva quasi mai. Soffriva vedendo che mia madre comunicava con me in un linguaggio di una intimità che a lui sfuggiva. Si sentiva escluso. E lo era in modo del tutto naturale, perché non era una lingua che potessimo condividere tutti e tre, né con qualcun altro. E lui voleva comunicare direttamente con me. Tale esclusione gli ripugnava. Quando tornava a casa, la sera, non riuscivamo ad avere alcuno scambio. Spesso –andavo a tirare mia madre per il braccio per sapere che cosa diceva. Avrei tanto voluto “parlare” con lui. Sapere tante cose di lui. Cominciavo a dire qualche parola. Come tutti i bambini sordi, portavo un apparecchio acustico, che tolleravo più o meno bene. Mi faceva entrare in testa dei rumori, tutti uguali, impossibile differenziarli, impossibile servirsene, era più faticoso di qualsiasi altra cosa. Ma bisognava portarlo, a sentire i rieducatori!. Quante volte le cuffie sono cadute nella minestra? La mamma dice che in famiglia ci si consolava con luoghi comuni: «E sorda, ma è così carina!». «Sarà tanto più intelligente!» Ho una splendida collezione di bambole. Quante, non lo so. Ho delle bambole, comunque. Quanti anni ho? Non lo so. L‟età delle bambole. E la sistemazione delle bambole. Al momento di andare a letto, mi sento in dovere di metterle in fila, devono essere ben allineate. Rimbocco loro le coperte, bisogna che le mani siano sopra il risvolto. Chiudo loro gli occhi. Impiego parecchio tempo a occuparmi di questo allineamento prima di coricarmi. Parlo loro, forse, di sicuro usando lo stesso codice che usa mia madre. Il segno che significa dormire. Una volta che tutte le bambole sono sistemate a letto, posso andare a coricarmi e dormire. E strano, allineo le mie bambole secondo un ordine metodico, mentre nella mia testa regna il disordine assoluto. Tutto è vago e mescolato. Cerco ancora di capire perché lo facessi. Perché passassi secoli ad allineare le bambole. Devono sollecitarmi perché vada a letto. La cosa irrita mio padre, irrita tutti quanti. Ma io non riesco a dormire se le mie bambole non sono sistemate a dovere. Bisogna che siano perfettamente allineate, gli occhi chiusi, la coperta tesa al millimetro, le braccia di sopra. La cosa è di una precisione diabolica, mentre nella mia testa tutto è disordine. Forse mi sforzo di sistemare tutto ciò che ho vissuto durante la giornata, e nel disordine, prima di andare a dormire. Forse mi sforzo di esprimere l‟assestamento di tale disordine. Di giorno, sono disordinata. Di notte, dormo ben sistemata, nella quiete, come una bambola. Non parla, una bambola. Sono vissuta nel silenzio perché non comunicavo. E questo, il vero silenzio? Il buio totale dell‟incomunicabilità...


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