I Pregiudizi - Appunti Psicologia Sociale PDF

Title I Pregiudizi - Appunti Psicologia Sociale
Author Stella Critelli
Course Psicologia Sociale
Institution Università telematica Universitas Mercatorum di Roma
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Appunti Psicologia Sociale...


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16 - I PREGIUDIZI La lezione ha l’obiettivo di definire cosa sono i pregiudizi, partendo da alcune delle più importanti riflessioni proposte dalla psicologia sociale. Si analizzeranno le componenti che li caratterizzano, il presupposto irrazionale che ne è alla base e quanto questi siano influenzati dal senso di appartenenza ad un gruppo. Si tratteranno le principali teorie di riferimento, iniziando da quella psicodinamica proposta da Mazzara (1996) a quella postulata da Dollard e Miller (1934), fino ad arrivare alla teoria del dogmatismo e della congruenza delle credenze di Rokeach (1960).Successivamente, si comprenderà come distinguere tra razzismo di frontstage e di backstage. 1. Verso una definizione di pregiudizio La psicologia sociale si è ampiamente occupata, di definire e studiare, teoricamente ed empiricamente, i pregiudizi (Allport, 1954; Adorno, 1950). Il termine indica la presenza di un giudizio che viene formulato prima che si abbia conoscenza diretta dell’oggetto del pregiudizio, si basa quindi su delle convinzioni di carattere valutativo rispetto a individui, gruppi o più in generale, a oggetti sociali (D’Atena, 2005; KrecCrutchfield, 1970). Il pregiudizio consiste nella tendenza alla generalizzazione arbitraria e all’ipersemplificazione, basata spesso su conoscenze superficiali e poco articolate (D’Atena, 2005). Gordon W. Allport (1954) lo interpretava come un’antipatia, un atteggiamento ostile nei confronti di un gruppo o di un singolo individuo, basato su generalizzazioni non vere e difficili da modificare, che la persona può esprimere in parole e azioni o sentirlo solo internamente. I pregiudizi, infatti, non sono solo quelli espressi direttamente, attraverso comportamenti ostili, visibili ed espliciti agli occhi di tutti, ma possono definirsi pregiudizi anche quelli che si manifestano in maniera più sottile, attraverso atteggiamenti non verbali, automatici e inconsci, che risultano più difficili da cogliere, ma che comunque esprimono distacco e disagio verso un individuo o un gruppo specifico di persone (Pruett & Chan, 2006; Vezzali, Capozza, & Pasin, 2009). In merito, Pettigrew e Meertens (1995) distinsero i pregiudizi manifesti o diretti, da quelli sottili o subdoli. I primi fanno riferimento ad atteggiamenti di rifiuto, intenzionalmente messi in atto, nei confronti di persone che fanno parte di un gruppo diverso dal proprio, in quanto percepiti come minacciosi. La credenza di base a questa tipologia di pregiudizi è il considerare il proprio ingroup come superiore, motivo per il quale si evita qualsiasi tipo di contatto con l’outgroup, poiché considerato come geneticamente inferiore. I pregiudizi sottili o subdoli, invece, a differenza di quelli manifesti, sono espressi in una forma più accettabile, si caratterizzano per il loro essere automatici, sono agiti inconsapevolmente e ambigui, un’ambiguità questa data dal fatto che in essi sono combinati sia credenze ostili, sia quelle più favorevoli. Alla base dei pregiudizi sottili o subdoli vi è il tentativo di difendere le tradizioni e i valori del proprio ingroup, risaltando le differenze tra i gruppi e negando emozioni positive verso l’outgroup. La definizione fornita da Allport (1954) fu, quindi, di fondamentale importanza, in quanto contribuì ad aumentare l’interesse per lo studio di questo costrutto. Banissoni (1973, p.3), ad esempio, lo definì come “un atteggiamento altamente stereotipato caratterizzato da una forte carica emotiva e da resistenza al cambiamento”. Il pregiudizio, quindi, viene ad essere inteso come un atteggiamento, che implica una reazione piuttosto stabile, dal punto di vista valutativo, sentimentale e comportamentale, orientato a screditare e a valutare negativamente uno specifico oggetto sociale (Banissoni, 1973). Questo porta a considerare il pregiudizio come il risultato di tre componenti (Krech et al., 1970), che sono alla base di questo errore di valutazione. Si parla della: - componente affettiva; - componente conoscitiva;

- tendenza all’azione. La componente affettiva, strettamente interconnessa con quella conoscitiva, è caratterizzata da sentimenti di ostilità, di intensità variabile, nei confronti del soggetto o del gruppo sottoposto a giudizio (D’Atena, 1997). La componente conoscitiva nasce in assenza di contatti diretti con i soggetti sottoposti a giudizio ed è spesso formata da conoscenze incongruenti tra loro, che sono negative ed espressione della matrice irrazionale del pregiudizio (D’Atena, 1997; Rokeach, 1960). Infine, la componente definita come “tendenza all’azione”, che è caratterizzato dall’espressione a livello comportamentale del pregiudizio, che può essere manifestata più o meno apertamente in base alla diffusione e al grado di condivisione sociale del pregiudizio stesso (D’Atena, 1997). Avere un rapporto conflittuale con un gruppo differente da quello di appartenenza, comporta la messa in atto di rappresentazioni negative su di esso, al contrario un rapporto amichevole favorisce una rappresentazione positività del gruppo oggetto di giudizio (Sherif et al., 1961)1. Il sentirsi appartenenti ad un gruppo, spesso giustifica la messa in atto di azioni e comportamenti ostili nei confronti di gruppi differenti dal proprio. La rappresentazione negativa di un gruppo con il quale si è in conflitto, assume dunque una funzione giustificatrice del proprio agito, determinando a sua volta la reazione negativa del gruppo oggetto del conflitto, rinforzando l’immagine negativa (D’Atena, 1997). La base irrazionale del pregiudizio, comporta difficoltà nel cambiamento di quest’ultimo, al contrario il cambiamento del consenso sociale può invece determinarne cambiamenti strutturali per la tendenza a fornire risposte socialmente desiderabili (Tajfel, Fraser, 1979). A tale proposito, Larsen (1974) ha dimostrato come l’assenza di approvazione sociale diventi per alcuni soggetti più importante del fattore di appartenenza razziale. Il consenso sociale influisce in maniera diretta sulla tendenza ad agire, la diminuzione di questo comporta inevitabilmente cambiamenti sul piano cognitivo, affettivo e rappresentativo del pregiudizio stesso (D’Atena, 1997). 2. Le teorie sulla formazione del pregiudizio B. Mazzara (1996) spiega l’irrazionalità del pregiudizio attraverso le teorie psicodinamiche che si riferiscono all’istinto e ai meccanismi inconsci di difesa, in questo modo l’ostilità viene considerata come l’esito di conflitti interni che verrebbero dislocate e canalizzate verso l’esterno. A tal proposito, J. Dollard e N.E. Miller (1939), postulano la teoria della frustrazioneaggressività che approfondiamo nella lezione sul comportamento antisociale, la quale ipotizza che in presenza di una frustrazione si crei uno stato di tensione psichica che comporterebbe l’aggressione dell’oggetto della frustrazione, quando ciò non risulta possibile comporta lo scaricarsi di quest’ultima su oggetti diversi da quelli che hanno generato la frustrazione, solitamente più deboli con funzioni di “capro espiatorio”. La prospettiva cognitiva sostiene che i pregiudizi siano il risultato di processi cognitivi e li considera come pre-cognizioni che la mente utilizza per ridurre il numero di informazioni ricevute, al fine di controllare e comprendere la realtà in modo semplificato, utilizzando il concetto di salienza dell’informazione (D’Atena, 2005). J. Bruner (1957) sostiene che vi sia un’integrazione tra fattori percettivi e fattori motivazionali. Altre teorie sostengono, invece, che il pregiudizio sia legato a disposizioni e tratti di personalità stabili. M. Rokeach (1960) postula la teoria del dogmatismo e della congruenza delle credenze, che si basa sul presupposto che le persone privilegiano l’interazione con coloro i quali condividono o confermano le loro idee e opinioni, procedendo per similarità del sistema di credenze. Questa teoria considera fondamentale il bisogno di coerenza, considerato una caratteristica di personalità e ciò renderebbe alcuni individui più di altri intolleranti verso la dissimilarità. G. Allport (1954), si sofferma invece sulla componente situazionale, sostenendo che il pregiudizio nasca dalla generalizzazione di osservazioni di pochi eventi o circostanze ad un numero più ampio situazioni, comportando inevitabilmente errori di giudizio.

J. Duckitt (2003) sostiene che la formazione del pregiudizio presupponga un processo di categorizzazione ed è proprio nel momento in cui le persone non vengono considerate più come singoli individui, ma come membri di un gruppo connotato da componenti affettive e cognitive negative, che si arriva alla formazione dei pregiudizi. S. Fiske (1998), infine, considera il pregiudizio come quell’atteggiamento caratterizzato da sentimenti negativi verso l’outgroup. W.G. Sumner (1906), fu il primo a parlare di ingroup ed outgroup, sostenendo che il senso di appartenenza all’ingroup genera una condizione di lealtà e di preferenza per il proprio gruppo, mentre al contrario, tutte le caratteristiche negative vengono attribuite all’outgroup, percepito con maggiore ostilità. Ma queste tematiche verranno approfondite nelle lezioni sulle dinamiche intergruppi. Perché le persone pensano, sentono e agiscono come membri di gruppo, arrivando spesso a considerarsi «migliori» di altri? Questa domanda può essere considerata il punto di partenza per la comprensione del pregiudizio, della discriminazione e del conflitto sociale come realtà basate sul gruppo e sull’appartenenza a esso. Il concetto di identità sociale ci suggerisce che il gruppo ha una realtà psicologica che non può essere ridotta o spiegata attraverso processi individuali. In molti casi non ci comportiamo come individui isolati, ma come esseri sociali che derivano una parte importante della loro identità dai gruppi umani e dalle categorie sociali cui apparteniamo (essere donna, studente, o italiano). In base a questa premessa, la teoria dell’identità sociale (Tajfel e Turner 1979) sostiene che le persone tendono a mantenere un’identità sociale positiva, e perciò cercano di far parte di gruppi valutati positivamente in base al confronto sociale. Secondo H. Tajfel le persone aumenterebbero la stima di sé identificandosi con un gruppo sociale preciso, ma solamente se lo percepiscono come superiore agli altri gruppi. Pensiamo per esempio a cosa vuol dire essere cattolico o protestante nell’Irlanda del Nord: nel momento in cui nel contesto si genera una contrapposizione fra due gruppi, si creano le condizioni per una asimmetria valutativa. In questo confronto si produce un favoritismo per l’ingroup, valutato in maniera più positiva del gruppo a cui non si appartiene: è a questo livello che si attivano stereotipi che risultano denigratori nei confronti dell’outgroup. L’ipotesi chiave della teoria dell’identità sociale è quella secondo cui le discriminazioni intergruppi e l’attivazione di stereotipi negativi derivino dal desiderio di raggiungere e mantenere un’identità sociale positiva. Tutti gli individui naturalmente tendono a preservare i propri schemi interpretativi: secondo Tajfel, lo stereotipo giustificherebbe le azioni dell’ingroup e ne preserverebbe l’identità, le credenze, i valori dominanti, spiegando e giustificando le azioni sociali nei confronti degli outgroup. Ma non per questo quando favoriamo il nostro gruppo necessariamente penalizziamo i membri dell’outgroup. Questo si verifica solamente in presenza di due condizioni fondamentali: a) quando i membri dell’ingroup ritengono di avere norme e valori applicabili a tutti; b) quando l’ingroup ritiene che questi valori siano i soli accettabili, gli unici a guidare le condotte e i comportamenti. La loro combinazione fa sì che l’ingroup percepisca i membri dell’outgroup come devianti, moralmente inferiori e potenzialmente minacciosi per i valori dell’ingroup 3. Il razzismo di frontstage e di backstage (Villano, 2016:104) La psicologa Anderson (2010) ha analizzato i miti e le credenze che tengono in piedi il pregiudizio sottile e lo ha etichettato benign bigotry, termine sotto il quale trovano espressione tutti quegli atteggiamenti e comportamenti che possono apparire spesso inoffensivi e positivi, ma che in realtà rappresentano solo un cambiamento di forma, ma non la forza, del pregiudizio. Questa espressione, che opera spesso in situazioni ambigue e presenta caratteristiche sia positive e sia negative, sarebbe il risultato dei normali processi cognitivi ed è influenzato dai processi socioculturali e storici, come ad esempio le leggi e le politiche che relegano alcuni gruppi sociali ai margini della società. Fra le ipotesi o «miti» attraverso i quali troverebbe espressione il «fanatismo benevolo» vi è il mito dell’Altro, una sorta di grande slogan del «siamo

tutti uguali». Una formula che spesso fa intravedere una società perfetta, la nostra, che vorrebbe la fine della dicotomia noi/loro e delle difficoltà conseguenti. Un mito delle società multietniche contemporanee – americana e non – che nasconde, dietro la formula «sono tutti uguali», una forma invisibile di pregiudizio e un inespugnabile muro ideologico di esclusione sociale. Il mito della criminalizzazione di certi gruppi – in USA gli afroamericani e i latinos, in Italia potremmo dire i migranti – i quali sono colpevoli di atti criminali o sono «più» colpevoli di altri quando si tratta di giudicarli. In alcuni studi psicosociali ad esempio, uno stesso evento di cronaca (un automobilista ubriaco che investe un pedone) viene giudicato più grave se il nome del conducente è romeno, mentre lo è meno se il nome del presunto automobilista è italiano (Villano, 2016). Il mito della neutralità, ovvero non considerare in alcun modo le differenze etniche. Molte persone credono infatti che essere colorblind sia la chiave per risolvere le discriminazioni, mentre altri utilizzano questo mito nel tentativo di mantenere i privilegi della maggioranza e di indurre gli altri all’assimilazione. Altri autori fanno una distinzione fra razzismo pubblico e privato, ovvero quel fenomeno per cui ci si presenta liberi da pregiudizi nello spazio pubblico (frontstage), mentre nella vita privata (backstage) si mostrano chiaramente idee discriminanti che si rivelano nei commenti, nelle emozioni e nelle azioni che vengono messe in atto. La distinzione è interessante e anche importante: l’apparenza «non razzista» è messa in atto nello spazio pubblico, quello di solito nel quale si vuole apparire, mentre nello spazio privato ci si lascia andare. In questo caso le persone si sentirebbero più rilassate, interagendo con meno inibizioni e cautele: è lo spazio di come si è realmente. In questa arena si può pensare e agire in maniera pregiudizievole e discriminatoria. In quello che gli autori chiamano «razzismo di frontstage» è saliente una caratteristica: la performativity, ovvero la presentazione intenzionale di un’immagine alterata di sé rispetto alle questioni etniche. Immagine che protegge, che fa apparire privi di pregiudizi e stereotipi e che spesso si camuffa attraverso l’utilizzo linguistico del diniego («Io non sono razzista, ma...»). Rimane comunque da sottolineare il fatto che i confini di queste due zone sono fluidi: zona pubblica e privata sono scivolose e non nettamente distinte....


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