Il diciottesimo cammello PDF

Title Il diciottesimo cammello
Course Consulenza familiare: teorie e pratiche
Institution Università degli Studi di Milano-Bicocca
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Laura Formenti, Antonio Caruso, Daniela Gini (a cura di)

IL DICIOTTESIMO CAMMELLO

Raffaello Cortina, Milano 2008 1

INTRODUZIONE

Per fare counselling non basta avere le competenze. Bisogna sapere di averle, esercitarle intenzionalmente. Quindi sviluppare la riflessività, cioè possedere una teoria soddisfacente delle cose che fai e del perché le fai. Ciò distingue il consigliere improvvisato e il counselor che si è formato. L’ecologia delle idee di Bateson. Uno dei motivi per cui si di fidava poco della terapia era la propensione dei terapeuti all’istruttività. Voler cambiare il mondo, una famiglia, è piuttosto rischioso. I sistemi naturali impiegano tempi lunghi per aggiustare i loro errori e di solito ci arrivano da soli, facendo leva sulle loro risorse, usando in modo creativo anche gli scarti, gli errori, la malattia. Altre volte muoiono, si sacrificano. Noi umani invece abbiamo fretta. E’ una tendenza alla conservazione. I danni di interventi terapeutici istruttivi, lineari, anti-ecologici possono essere disastrosi. Il counselor è un professionista disincantato, che non si fa forte di un metodo a priori, ma cerca di rendersi utile ai suoi clienti in situazione, in relazione ai loro contesti di vita e al proprio. Si sporca le mani e cerca di dotarsi di capacità molteplici: non solo da accompagnatore, consigliere, educatore, ma da ricercatore, da mediatore nelle istituzioni.

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LA RELAZIONE PROFESSIONALE TRA ESPERIENZA E CURA Laura Formenti

Il professionista si distingue dall’uomo/donna della strada perché sa prendersi cura delle relazioni alle quali partecipa, e di tale cura si fa carico. È necessario pensare e progettare azioni formative e percorsi di esperienza che possono favorire lo sviluppo di una conoscenza/coscienza profonda e personale delle relazioni alle quali partecipa, e in particolar modo di come vi partecipa. A orientare le scelte professionali in campo umano non è un sapere tecnico ma un’azione riflessiva concepita sul campo e supportata da una sapere che si viene modulando attraverso l’esperienza, quell’esperienza che consente la costruzione di una sapere particolare. Da molti anni sperimento nella formazione e nella ricerca la potenza dell’approccio autobiografico capace di produrre storie sensate e condivise. Come i miei maestri cerco di praticare i principi di circolarità, curiosità e irriverenza. Di fronte a un’informazione o evento o racconto mi chiedo sempre quale sia il contesto. Ritengo di vivere e orientarmi costruendo la realtà, me stessa e gli altri attraverso le parole, gli sguardi, i silenzi, i gesti che continuamente scambio e continuamente interpreto insieme agli altri. Nella relazione professionale possiamo riflettere su almeno tre livelli: - L’esperienza concreta. - Le storie che vengono raccontate circa la relazione. - La vita della Mente.

 Distinzioni Relazione deriva dal latino relatum, come relatore. La relazione è un’invenzione umana, implica un riferirsi a, non appartiene al mondo dei fatti. Le human relations vengono dall’inglese e solo nel Novecento si diffondono. Oggi si parla non solo di relazioni umane, in generale, ma di relazioni più specifiche: educative, di consulenza, di orientamento, di accompagnamento, di sostegno, di aiuto, di cura, ecc. I nomi tracciano distinzioni, istituiscono confini. La necessità di rendere trasparenti i riferimenti di una parola, conquista spesso il centro della scienza, assorbe il dibattito. C’è il rischio di de-contestualizzare un nome. Se ogni distinzione è relativa, per comprenderne il senso dobbiamo rimanere nel contesto che le da senso. Prima di tutti viene la relazione e la relazione implica la cura. Se non c’è cura, nelle relazione con l’altro, andiamo incontro a rischi iatrogeni, a interventi anti-ecologici. Per questo nelle “relazioni di cura” amo parlare di contenitore più ampio nel quale metto tutte le professioni in campo sociale e umano. La cura è relativamente indipendente dalla scuola di pensiero e dal ruolo professionale che si sta assolvendo.

 Definire la relazione 3

La natura della relazione è definita dalle persone che vi partecipano, attraverso tipi di messaggi che vengono scambiati e accettati. Definire la relazione significa stabilire tacitamente ciò che può e ciò che non può accadere in quella relazione. Quando iniziamo una relazione nuova, non sappiamo se ci sarà un’alleanza collaborativa, in tensione, collusiva o disturbata, perché non possiamo prevedere i posizionamenti dell’altro in relazione ai nostri, né i passi successivi. Naturalmente non si parte mai da zero: chi arriva dentro la relazione porta con sé un patrimonio di abitudini, teorie implicite, valori consolidati. Ognuno porta una certa propensione alla rigidità o alla flessibilità. Tutti hanno i loro limiti. Anche i professionisti. L’abitudine a metacomunicare, l’apertura alle proposte dell’altro, ai loro punti di vista, sono abilità acquisite con fatica attraverso la pratica, le esperienze autocorrettive, la disciplina del pensiero riflessivo. Nelle relazioni professionali vale il principio sistemico dell’ equifinalità: le condizioni finali sono indipendenti dal punto di partenza. Sarà il cammino congiunto, che si fa solo camminando.

 Habitus professionali Il lavoro di cura avviene istante per istante, ma per comprenderlo è utile coniugare la prospettiva sincronica e quella diacronica. Si tratta di imparare a mappare la relazione come relazione di sistemi. La coerenza, le ridondanze, le ricorsività che si creano tra queste persone tendono a costruire un modello latente che organizza le interazioni e continua a organizzarle anche quando il modello latente è superato. Il pattern interattivo rappresenta l’identità di una relazione, che crea un dominio consensuale, attraverso l’azione del comunicare con un linguaggio che a torto consideriamo denotativo. La relazione è costruita, interpretata e negoziata da una comunità di osservatori, in primo luogo gli stessi partecipanti alla relazione. La relazione crea nel tempo una comunità. Le nostre appartenenze a comunità ci fanno considerare la definizione della relazione a priori. La famiglia, le istituzioni, le agenzie educative, la stessa formazione professionale sono comunità: presupposti che informano le nostre azioni adattandole alle diverse situazioni in modo rispondente alle attese socialmente condivise in quella comunità. Sviluppare un habitus professionale è dunque un passaggio necessario, ma allo stesso tempo rischia di diventare un vincolo troppo rigido per la relazione. Quello che potremmo definire come l’ habitus professionale è un paradigma sociale, un sistema di presupposti condivisi circa il modo più corretto ed efficace di costruire la relazione in quella specifica professione. Esso è in larga parte arbitrario, ma il fatto di essere condiviso fin dagli anni della formazione e dai primi passi nella pratica professionale. Diventa un pregiudizio. A queste condizioni tutti gli attori coinvolti possono recitare bene la propria parte. Ma l’arbitrarietà resta. Il compito principale del professionista è aver cura di avviare e mantenere il più possibile le sue pratiche in una dimensione riflessiva, flessibile e adattabile alla realtà complessa del vivere. 4

 Accoppiamenti relazionali Ecco alcune modalità di accoppiamento relazionale tra il professionista di cura e l’utente/cliente: 1. Il verdetto, ovvero la relazione con un sapere più grande. Quella tra l’esperto e l’utente incompetente. Dalla relazione sono esclusi tutti gli aspetti umani, autobiografici, narrativi. La distanza è tale che è paradossale parlare di relazione. 2. Le prescrizioni, ovvero la relazione istruttiva. L’esperto dà istruzioni e prescrive comportamenti, e un utente collaborativo. Bisogna disporre una tecnologia adeguata alla rilevazione e analisi dei dati di partenza. Una certa conoscenza dell’altro, della sua storia, del suo sapere, è necessaria all’esperto istruttore al fine del programma di cambiamento. Tutto è centrato su un grande pragmatismo. Tutto ciò che sfugge al sistema di rilevazione posseduto dall’esperti non esiste, non entra in gioco. 3. La scoperta, ovvero la relazione centrata sul cliente. Tra un esperto che non sa, e un utente che sa. L’esperto si mette in ascolto e cerca di aiutare l’altro a esplicitare bisogni e desideri, a individuare le aree problematiche e le possibili soluzioni, a trovare da sé le risorse e le risposte. LA funzione di accompagnamento passa in primo piano. Si corre il rischio che la relazione si limiti a confermare l’utente come si presenta. 4. L’invenzione, ovvero la relazione generativa. I contenuti portati dall’utente sono le dimensioni più evidenti e dicibili della situazione. Le scelte, le storie, le possibilità, nascono allora dalla relazione, si sviluppano con essa nel tempo e creano un nuovo mondo. Con tutti i rischi che ciò comporta. La modalità di ascolto è attiva, e prova a co-costruire, a creare una connessione tra le alterità, tra posizionamenti diversi. Il punto di vista dell’utente è uno dei tanti possibili. La relazione è provocatoria, giocosa, emozionalmente carica. In questo tipo di relazione tutti si compromettono, sono co-responsabili finché la relazione dura. Questo passaggio necessita di un atteggiamento collaborativo, autentico, di ascolto reciproco. In una parola necessita di cura. Ogni sistema umano è almeno una triade e come professionisti della cura avremo diversi terzi di cui tener contro mentre sviluppiamo la nostra danza apparentemente a due: - Ognuna delle persone significative per la vita e l’identità dell’altro; - gli invianti, i committenti, i beneficiari della relazione che introducono aspettative, esercitano pressioni, ecc.; - qualsiasi altro operatore che si sta occupando della stessa situazione, magari da un altro punto di vista. La scuola di Milano individua nell’inviante un nodo critico spesso trascurato. Secondo gli autori non basta prendere in considerazione il rapporto tra i due professionisti, ma che la relazione deve tener conto anche del rapporto tra utente/cliente e l’inviante.

 Pratiche della relazione di cura 5

Secondo Maturana, il linguaggio è un medium interattivo che orienta principalmente sul piano pratico-emotivo. La cura non può essere considerata come l’esito lineare di discorsi, ma nasce dalle interazioni, dalla storia nel suo duplice significato di story e history. Lo sviluppo della cura come un processo a spirale, che procede attraverso la ripetizione ricorsiva di quattro fasi concatenate: 1. L’esperienza vissuta, non alienata, densa di sensazioni, emozioni, in contatto con sé e con il mondo. 2. La rappresentazione estetica di tale esperienza: parlo di rappresentazione estetica nel “fare forma” in modi che non separino corpo e mente, che possano dar voce ad aspetti non totalmente verbalizzati. 3. Lo sviluppo di una comprensione dell’esperienza che sia soddisfacente per il soggetto, una teoria anche locale e provvisoria. 4. La messa in atto di un “retto agire”, cioè un’azione deliberata. La parola “pratiche” richiama un agire pensante. Diversamente dalla “tecnica” la pratica contiene una buona dose di ritualità e non può essere concepita fuori da un contesto. La pratica della relazione richiede dunque continui posizionamenti, ed è faticosa. Le operazioni cricuali che compie il professionista della cura sono azioni concrete, mosse cognitive e posizionamenti relazionali.  Scegliere il setting, ovvero riconoscersi registi di relazioni Il setting non è mai scontato. Dipende da chi lo scenario fisico e simbolico nel quale lo allestiamo. Importante è riconoscere che un luogo non è mai uno spazio neutro; dare vincoli è necessario per costruire possibilità. Gli spazi dove avviene la cura rimandano spesso agli utenti, una impersonalità, un non luogo senza tempo. Molti professionisti vedono il tempo come un vincolo. Ma forse non sempre è solo una questione di tempo. Forse di ritmo. La jam session è una metafora per parlare del ritmo della formazione: tutti entrano con il loro stile, il conduttore si prende la responsabilità di proporre la partenza, di garantire la tenuta. Gli altri potranno inserirsi senza dover inventarsi tutto a ogni momento. E’ una guida necessaria. Poi ognuno si inserirà con il suo strumento, modalità, stile. Inserire il tempo della vita, delle relazioni, sembra oggi difficile. Nel pensare al setting penso ad uno spazio pensato, personale, accogliente, per me ma anche per chi entra.  Praticare l’accoglienza, ovvero riconoscere l’altro L’incontro con una persona sconosciuta è spesso marcata dal pregiudizio. La diagnosi è diventata il modello di “buona pratica”. Uno sguardo ecologico riconosce un sistema per quello che è (Bateson). Vedere la realtà per come si presenta, adottare l’atteggiamento fenomenologico, accettare, intenerire la mente. Conoscere un altro, un gruppo, una cultura, significa riconoscerne la legittimità. Riconoscere l’altro è anche uno stato esteriore. E’ concreto, produce effetti. Quando una persona è in sofferenza sentirsi accolti non è facile. Può essere esaltante o terrorizzante. Il bisogno umano fondamentale, messo a fuoco da Laing, Cecchin e Sluzki, è la convalida esistenziale, effetto di una presenza attenta e rispettosa. Ciascuno cresce 6

solo se sognato. Riconoscere l’altro significa allora essere-per-l’altro, per tutta la durata dell’incontro, della relazione, del cammino comune.  Individuare la rese, ovvero leggere, interpretare, negoziare la domanda Non c’è relazione senza res. La res è la storia condivisa,, è una narrazione, una direzione di senso più che un obiettivo. Ridurre la res agli obiettivi fa perdere di vista la sua parzialità, la sua fluidità. Un problema è sempre costruito nel qui e ora nella relazione e collocato nello spazio tra professionista e utente. La parola contratto presenta un altro ordine di problemi; suggerisce libertà e simmetria tra i contraenti, che convengono sui termini della loro relazione. Invece un vero contratto è sempre negoziato, fino in fondo, con le persone implicate. Il concetto di una res, invece, nella sua indefinitezza, consente di dare voce ai bisogni e desideri che non interessano solo l’istituzione, ma i soggetti. Nulla è davvero a priori. Mantenere desta l’attenzione per l’arbitrarietà della definizione della relazione significa tenere aperte più possibilità.  Mappare il contesto, ovvero “non siamo solo noi due” La relazione di cura viene descritta soprattutto come una relazione terapeutica modellata sulla psicoanalisi. Allargare lo sguardo al sistema più ampio è dal punto di vista tecnico la mossa più frequente del professionista sistemico. Ogni comportamento può essere letto come una risposta a un disequilibrio sistemico. Nella prima fase di sviluppo dell’approccio sistemico, si affermò la terapia della famiglia, non perché la famiglia sia la sola responsabile della patologia dell’individuo,. La famiglia è per molti il sistema più significativo e per un lungo periodo della vita facilmente raggiungibile. Fin dai suoi inizi, l’approccio sistemico ha visto lo sviluppo di modelli di intervento di rete, sia per il legami sociali, affettivi, economici, abitativi, sia per il ruolo che coinvolge a titolo professionale. Diversi strumenti possono essere utilizzati per mappare il contesto. Alcune di queste cartografie sono diventate un metodo. La mappa dà visibilità a qualcosa di immateriale come il contesto e le stesse relazioni. Dopo la “svolta costruzionista” la definizione del sistema è stata sempre più problematizzata. Diversi clinici sistemici hanno messo il luce non solo il problema della “convocazione”, ma della scelta stessa della famiglia come il luogo più adeguato per intervenire. “Mappare il contesto” è un’operazione pensosa, assomiglia più all’invenzione che alla scoperta, ed è interessante per il professionista farla insieme ai suoi interlocutori, in modo dialogico.

 Conversare, ovvero dal monologo al dialogo Le parole che i professionisti usano per definire una situazione sono sempre culturalmente connotate e connesse a risonanze personali. Spetta al professionista fare lo sforzo maggiore per parlare il linguaggio dell’altro, comprendere i suoi valori, la sua visione del mondo. Più i ruoli sono interscambiabili, e più si può parlare di dialogo. Non si tratta però di realizzare la “perfetta conversazione” ma di implicarsi aspettandosi l’errore. Risk yourself: dialogare con se 7

stessi è una componente importante del dialogare con l’altro. E per realizzare questo distacco è necessario il dialogo interiore.  Moltiplicare le storie, ovvero l’ascolto si fa creativo “Agisci sempre in modo da aumentare il numero delle possibilità”. Heinz von Foerster. Si tratta di proporre, di offrire storie, in quanto la tentazione di influenzare l’altro verso un cambiamento è un “ridurre le possibilità”. Anche offrire una prospettiva diversa non è invasivo. Partire da sé, assicurarsi sempre di parlare in prima persona singolare è un atto tecnico che fa la differenza, per un professionista sistemico, inoltre non imporre una teoria accreditata. Di conseguenza gli universali e gli impersonali “si dice”, “si fa” sono banditi dalla conversazione. Si fa un gran parlare di ascolto, empatia, di relazione, forse perché se ne sente un gran bisogno. E la loro dannosità è evidente a lungo termine. L’ascolto è una garanzia contro la violenza delle pratiche educative. Però l’ascolto non basta. Ascoltare, in senso sistemico, significa rilevare innanzitutto l’impossibilità di ascoltare sempre e veramente. La proibizione di interpretare è per il sistemico un’ingenuità epistemologica. Comprendere il significato di una frase, domanda, ci richiede una intensa attività. Quando l’interpretazione si avvale di modelli di riferimento socialmente accreditati, la violenza è ancora più grande. Ma l’interpretazione offerta sotto forma di storia o di metafora ed espressa in prima persona non è altro che una storia in più sulla quale riflettere. Il confine tra l’offerta di una storia e la mistificazione non è però netto, chiaro.  Interrogare l’esperienza, ovvero il modello istruttivo trasformato in pratica Il modello istruttivo è talmente connaturato al mondo tecnologico nel quale viviamo che quasi non ce ne accorgiamo. Un professionista è sollecitato continuamente a fornire soluzioni. A volte può vivere l’illusione di avere davvero la risposta giusta. Assistere a una riunione d’equipe è un modo per imparare quanto siamo proni al discorso istruttivo. Spesso il pregiudizio trova sostegno nelle teorie accreditate, nei pareri dei luminari, nella letteratura, li usiamo per smettere di pensare. Non mi piace dare istruzioni ma spesso devo dare indicazioni. Sono due parole diverse. Quando sono nel ruolo di guida esercito una funzione istruttiva, provo a comunicare chiaramente quali azioni devono essere messe in atto. Ma sono sempre consapevole che l’altro, nel compiere quell’azione, applicherà le mie indicazioni nel suo mondo, secondo la sua coerenza, quindi ci sarà sempre uno scarto. Tale scarto mi farà scoprire qualcosa dell’altro, di me, ma che comporta grandi rischi per la relazione.  Accompagnare nell’arte del vivere, ovvero la consulenza come educazione Se accettiamo il pregiudizio di base che vivere significa esistere per qualcuno, il professionista sistemico fa esperienza continua della necessità di stare con l’altro, usando il suo principale strumento di lavoro: se stesso. Il professionista agisce e comunica, vive la relazione e la filtra con tutto il suo sapere, soprattutto con quello che non sa di possedere. Il modello è l’accompagnamento come “arte di partecipare a movimenti d’insieme”. Si può accompagnare qualcuno che cerca di dare senso alla propria storia, si può accompagnare qualcuno che cerca di dare senso alla propria storia, si può accompagnare nel presente, nel 8

qui e ora della relazione, si può accompagnare a immaginare un possibile futuro. Da una posizione asimmetrica i compagni di viaggio si spostano verso la parità, lo stare accanto. Il loro passo, il ritmo, è continuamente soggetto al reciproco adattamento. Ogni professionista della cura è anche un accompagnatore. Dovrà conquistare il suo punto di vista, vicino all’altro ma sufficientemente distante da non sovrapporsi totalmente al suo. Il consulente,...


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