Il pericolo di un’unica storia - Chimamanda Ngozi Adichie PDF

Title Il pericolo di un’unica storia - Chimamanda Ngozi Adichie
Author Alice Sabaini
Course Storia e istituzioni dell'africa
Institution Università di Bologna
Pages 2
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Summary

riassunto del saggio il pericolo di un’unica storia di Chimamanda Ngozi Adichie per il corso di storia e istituzioni dell'Africa tenuto dalla professoressa karin pallaver...


Description

Il pericolo di un’unica storia - Chimamanda Ngozi Adichie Io racconto storie. E vorrei narrarvi qualche storia personale su quello che mi piace chiamare «il pericolo di un’unica storia». Sono cresciuta in un campus universitario nella Nigeria orientale. Sono stata, quindi, una lettrice precoce, e sono stata anche una scrittrice precoce, e quando ho iniziato a scrivere, intorno ai sette anni, le storie che scrivevo erano in tutto e per tutto uguali a quelle che leggevo. Tutti i miei personaggi erano bianchi con gli occhi azzurri. Giocavano nella neve. Mangiavano mele. E tutto ciò nonostante vivessi in Nigeria. I miei personaggi bevevano litri di birra allo zenzero perché così facevano i personaggi dei libri inglesi che leggevo. Tutto questo dimostra, credo, quanto siamo suggestionabili e vulnerabili di fronte a una storia, specie da bambini. Dato che avevo letto solo libri in cui i personaggi erano stranieri, mi ero convinta che i libri dovessero avere personaggi stranieri, e dovessero parlare di cose con cui non potevo identificarmi. Le cose sono cambiate quando ho scoperto i libri africani. Non ce n’erano molti a disposizione, e non erano facili da trovare quanto i libri stranieri. Ma grazie a scrittori come Chinua Achebe e Camara Laye sono passata attraverso uno slittamento mentale nella mia percezione della letteratura. Mi sono resa conto che le persone come me, ragazze con la pelle color cioccolato e i capelli crespi, con potevano anche esistere in letteratura. Scoprire gli scrittori africani ha rappresentato questo per me: mi ha salvato dall’avere un’unica storia su che cosa sono i libri. Mia madre era una direttrice amministrativa. Così prendevamo in casa un ragazzo che ci aiutava nei lavori domestici. L’anno in cui ho compiuto otto anni, abbiamo preso in casa un nuovo domestico. Si chiamava Fide. L’unica cosa che mia madre ci ha detto di lui era che la sua famiglia era molto povera. Un sabato, siamo andati in visita al villaggio di Fide e sua madre ci ha mostrato un cestino con bellissime decorazioni, in rafia colorata, fatto da suo fratello. Ero stupefatta. Non avrei mai pensato che qualcuno di quella famiglia fosse in grado di produrre qualcosa. La loro povertà era la mia unica storia su di loro. Anni dopo ho pensato proprio a questo quando ho lasciato la Nigeria per andare all’università negli Stati Uniti. La mia coinquilina americana era sconvolta a causa mia. Mi ha chiesto dove avessi imparato a parlare l’inglese così bene ed è rimasta frastornata quando le ho detto che la Nigeria si dava il caso avesse l’inglese come lingua ufficiale. Ciò che mi ha colpito di più è stato questo: che le facessi già pena ancor prima di vedermi. La mia coinquilina aveva un’unica storia dell’Africa. Un’unica storia fatta di catastrofi. Devo dire che prima di andare negli Stati Uniti non mi consideravo africana, consapevolmente. Ma negli Stati Uniti, ogni volta che si parlava di Africa, la gente si rivolgeva a me. L’esempio più recente l’ho avuto sul mio – peraltro fantastico – volo da Lagos due giorni fa, durante il quale la compagnia Virgin ha fatto un annuncio sulle proprie attività di beneficenza in «India, Africa e altri Paesi». Dunque, dopo aver trascorso qualche anno da africana negli Stati Uniti, ho iniziato a comprendere la reazione della mia coinquilina nei miei confronti. Se non fossi cresciuta in Nigeria, e se tutto quel che avessi saputo dell’Africa mi fosse arrivato dalle immagini popolari, avrei visto gli africani nello stesso modo in cui da bambina avevo visto la famiglia di Fide. Ecco una citazione dagli scritti di un mercante londinese di nome John Lok, che era salpato per l’Africa occidentale nel 1561 tenendo un interessante diario di bordo. Dopo essersi riferito ai neri africani come a «bestie che non hanno case», scrive: «Queste persone non hanno neanche la testa, visto che le bocche e gli occhi stanno nei seni». La fantasia di John Lok è ammirevole. Ma la cosa piú importante dei suoi scritti è che rappresentano l’inizio di una tradizione narrativa in Occidente di storie africane. Una narrazione che ritrae l’Africa subsahariana come un luogo di negatività, di differenze, di tenebre, popolato da persone che, nelle parole di quello splendido poeta che era Rudyard Kipling, sono «mezzi diavoli e mezzi bambini». Cosí ho iniziato a rendermi conto che la mia coinquilina americana doveva aver visto e sentito, nel corso della sua vita, varie versioni di questa unica storia. Proprio come un professore che, una volta, mi aveva detto che il mio romanzo

non era «autenticamente africano». Mi aveva spiegato che i miei personaggi erano troppo simili a lui, uomo colto e borghese, non morivano di fame, dunque, non erano autenticamente africani. Devo, però, affrettarmi ad aggiungere che neppure io sono esente da colpe rispetto alla questione dell’unica storia. Qualche anno fa sono andata in Messico dagli Usa. Circolavano infinite storie di messicani che spillavano soldi al sistema sanitario, che attraversavano i confini di nascosto. Ricordo il mio primo giorno a passeggio per Guadalajara. Osservavo la gente che andava al lavoro, che preparava tortillas al mercato. Avevo creduto all’unica storia sui messicani, e non avrei potuto provare più vergogna di me stessa. È impossibile parlare di un’unica storia senza parlare di potere. Il potere è la possibilità non solo di raccontare la storia di un’altra persona, ma di farla diventare la storia definitiva di quella persona. Inizia la storia con il fallimento dello Stato africano, e non con la creazione coloniale dello Stato africano, e avrai una storia del tutto diversa. Di recente ho tenuto una conferenza in un’università dove uno studente mi ha detto che era una vera vergogna che gli uomini nigeriani fossero violenti come il personaggio del padre nel mio romanzo. Io gli ho risposto che avevo appena letto un romanzo intitolato American Psycho e che era una vera vergogna che i giovani americani fossero dei serial killer. A me non sarebbe mai venuto in mente di pensare che solo perché ho letto un romanzo in cui uno dei personaggi è un serial killer, questo sia in qualche modo rappresentativo di tutti gli americani. Quando ho letto, qualche anno fa, che ci si aspetta che gli scrittori abbiano avuto un’infanzia molto triste per poter avere successo ma la verità è che ho avuto un’infanzia molto felice, ma ho anche avuto nonni morti nei campi profughi. Tutte queste storie hanno fatto di me quella che sono. Ma insistere solo sulle storie negative significherebbe appiattire la mia esperienza, trascurando le molte altre storie che mi hanno formato. Certo, l’Africa è un continente pieno di catastrofi: ce ne sono di immense, come gli stupri terribili in Congo, e di deprimenti, come il fatto che in Nigeria cinquemila persone fanno domanda per un unico posto di lavoro. Ma ci sono anche altre storie, che non riguardano le catastrofi, ed è molto importante che se ne parli. La conseguenza di un’unica storia è questa: sottrae alle persone la propria dignità. Mette l’accento sulle nostre diversità piuttosto che sulle nostre somiglianze. Poco dopo che Bakare ebbe pubblicato il mio primo romanzo, sono andata in una stazione tv a Lagos per un’intervista. Una donna che vi lavorava come fattorina mi si è avvicinata, e mi ha detto: «Mi è davvero piaciuto il tuo romanzo, ma non mi è piaciuta la fine. Ora devi scriverne il seguito, e ti dico io cosa accadrà...» . Davanti a me c’era una donna, parte della massa dei nigeriani medi che in teoria non avrebbero dovuto essere lettori. E lei non solo aveva letto il libro, ma lo aveva fatto proprio al punto da sentirsi autorizzata a dirmi cosa scrivere nella seconda parte. Ogni volta che torno a casa mi trovo davanti le consuete fonti di irritazione per la maggior parte dei nigeriani: le nostre infrastrutture fallimentari, il nostro fallimentare governo. Ma anche davanti all’incredibile resilienza di persone che prosperano malgrado il governo, piuttosto che grazie a esso. Tengo corsi di scrittura a Lagos tutte le estati, ed è sorprendente per me il numero di persone che si iscrivono, quante persone hanno voglia di scrivere, di raccontare storie. Insieme al mio editore nigeriano ho fondato un’associazione senza scopo di lucro che si chiama Farafina Trust. Abbiamo il grande sogno di costruire nuove biblioteche e di ristrutturare quelle già esistenti, e di fornire libri alle scuole statali che non hanno nulla nelle loro biblioteche, di organizzare innumerevoli laboratori, di lettura e di scrittura, per chiunque voglia raccontare le nostre molte storie. Le storie sono importanti. Le storie sono state usate per espropriare e per diffamare. Ma le storie si possono usare anche per dare forza e umanizzare. Vorrei concludere con questo pensiero: quando rifiutiamo l’unica storia, quando ci rendiamo conto che non c’è mai un’unica storia per nessun luogo, riconquistiamo una sorta di paradiso....


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