La guerra grande storie di gente comune a gibelli PDF

Title La guerra grande storie di gente comune a gibelli
Course Storia Contemporanea
Institution Università degli Studi di Parma
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Scritture di guerra Lettere Della più disumana e meccanica delle guerre fino a quel momento conosciute, fluì un fiume copioso, ininterrotto di scritture prodotte dai suoi attori in gran parte sconosciuti, che ne erano in primo luogo le vittime e che tuttavia ne riflettevano a modo loro la trama. Di questo processo fu pienamente partecipe la popolazione italiana. La Grande Guerra fu la prima grande esperienza collettiva degli Italiani. In tre anni e mezzo tutti furono travolti dalla stessa macchina, toccati da problemi simili, colpiti dai medesimi lutti. Se è vero che l’identità nazionale può coincidere col sentimento di grandi cose fatte assieme o patite assieme, possiamo senz’altro dire che nel corso della Grande Guerra molte cose furono fatte, molte di più patite insieme da un grandissimo numero di Italiani, pressoché dalla totalità. Tra questi, anche una quota di italiani emigrati all’estero, che allo scoppio della guerra avevano ormai raggiunto un numero elevatissimo, costruendo proprie comunità, stabilendo legami solidi coi paesi di accoglienza, coltivando una propria immagine spesso idealizzata di quello lasciato più o meno definitivamente. Così, se non mancano, anzi sono numerose le renitenze dei residenti all’estero, anche tra loro ci sono partenze e distacchi dovuti al richiamo alle armi, e non mancano quelle volontarie, mosse dalla forza di attrazione di un’identità nazionale che non di rado, assente all’inizio dell’esperienza migratoria, si è costruita interamente all’estero per effetto dei processi di inserimento nel nuovo mondo, che sollecitano la costruzione di reti più ampie di quelle regionali o locali, e per i contraccolpi della nostalgia. Partiti piemontesi, liguri o siciliani, i migranti diventano Italiani nel contesto della nuova vita e alcuni di loro vagheggiano il ritorno nel Paese d’origine. Particolarmente interessante documentato è quello di Americo Orlando, di origini abruzzesi, concepito in Italia ma nato in Brasile. Di lui sono state conservate e pubblicate le lettere dal fronte indirizzate prevalentemente alla madre, in un libro a cura di una nipote che ricostruisce puntualmente la vicenda. Americo era figlio di commercianti di pasta alimentare. Dopo tre mesi dallo sbarco nacque Americo, ultimo di quattro figli (uno dei quali lasciato in Italia perché ammalato, dove presto morirà), e primo dei tre che nasceranno in Brasile. Allo scoppio della guerra Americo non ha ancora compiuto vent’anni, qualche anno prima, dodicenne, ha conosciuto l’Italia facendovi ritorno e soggiornandovi per circa due anni con i genitori, lavora per un giornale nazionale, ha elaborato un’immagine ideale del suo paese d’origine verso il quale prova un sentimento di attrazione e di amore filiale, non meno grande di quello che lo lega alla madre e alla Madonna, che invoca spesso nelle lettere. Nel 1915 viene investito dai clamori dell’interventismo e dal richiamo patriottico. È finalmente l’occasione che aspetta per ritornare: due mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia parte da Rio de Janeiro senza preavviso, all’insaputa dei genitori, per arruolarsi. Il servizio militare per la nazione in guerra genera un distacco traumatico dalla madre, che verrà compensato da una corrispondenza fitta e affettuosa per il periodo della lontananza e della guerra fino alla morte, avvenuta sul fronte dell’Isonzo nel 1917. La centralità della figura materna, esaltata dalla guerra come punto di riferimento dei giovani, si potenzia qui e si prolunga in quella della madrepatria. Ma per soddisfare l’amore adulto per quest’ultima occorre recidere il legame fisico infantile con la prima. Il dominante riferimento affettivo materno, si direbbe l’amore passionale per la madre e la devozione per la Madonna non sono incompatibili, al contrario si conciliano benissimo con la ferocia dell’atteggiamento che egli esibisce parlando di un nemico di cui ha evidentemente interiorizzato l’immagine demoniaca. Preso dal furore della battaglia, il focoso Americo ci offre esempi, di regola piuttosto rari nell’epistolografia di guerra, di aperta manifestazione del piacere di uccidere (es. lettera al fratello e alla sorella). Rinforzato dall’identità acquisita nel contesto migratorio, il sentimento nazionalista si trasforma in aggressività personale. Naturalmente l’esperienza della guerra non fu affatto egualitaria, non venne vissuta e patita da tutti nello stesso modo, non ridusse né abolì le differenze geografiche e sociali. Non ci fu la cancellazione delle differenze, anzi per certi aspetti la loro accentuazione, ma anche la mescolanza di esperienze e di linguaggi, l’elaborazione improvvisata ma efficace di codici comuni. A dircelo, con alcune delle sue folgoranti e

lapidarie sentenze, è tra gli altri il contadino siciliano Vincenzo Rabito, “inalfabeto”, come egli si dichiara, e ciò malgrado autore di una monumentale autobiografia. La Grande Guerra fu insomma un potente fattore di inclusione, se non altro nel senso del contatto e della mescolanza. Certo ci furono gli esclusi: i morti, i mutilati, i matti, i fucilati. La loro esperienza, a lungo tenuta in ombra, è recentemente riaffiorata, perché è anch’essa documentata: le foto dei cadaveri, le file di croci nei cimiteri, gli istituti per la fabbricazione degli arti artificiali, le cliniche di restauro maxillofacciale, i luoghi di rieducazione dei nevrastenici, le scuole per i ciechi, le rare foto dei prigionieri in Austria e in Germania ridotti a scheletri per la denutrizione. Un altro esempio è riferito a due corrispondenti istriani appartenenti all’impero asburgico. Migliaia di uomini e donne sudditi della duplice monarchia, che parlavano e scrivevano in italiano o in dialetti italici, come quello trentino e veneto o istriano, presi dall’ingranaggio della guerra furono trascinati nel cuore dell’Europa come internati, oppure come combattenti sul fronte orientale, e si scambiarono notizie a distanza, tra un campo di internamento, una residenza provvisoria, un ospedale militare, una trincea, la prigionia nei territori di un altro impero, quello zarista. Un piccolo fascio di corrispondenze di tale provenienza è stato ritrovato da uno studioso rumeno nell’archivio di un ospedale militare in Transilvania. Appartenenti a soldati delle più diverse nazionalità arruolati nell’esercito asburgico, transitati nell’ospedale di quella cittadina, e soprattutto ai loro parenti e conoscenti. Nel caso degli italofoni, i parenti mandano loro notizie dall’Istria, dalla Croazia, qualcuno dal Sud Tirolo, ma anche dall’Ungheria e da altri territori dell’impero dove sono stati forzatamente spostati per timore di manifestazioni di infedeltà o addirittura fenomeni di spionaggio. Sono tracce di una diaspora impressionante, che sospinge i protagonisti nei luoghi più lontani e li ricollega fra loro attraverso i tenui ma pur tenaci fili postali. Sono reperti di una scrittura elementare, dal contenuto essenziale, che raccontano la vita faticosa e precaria di gruppi umani sui quali gli Stati militarizzati e la guerra esercitano la pressione più violenta, provocando separazioni, producendo morti, ferite e malattie, disagi di ogni tipo affrontati con una rassegnazione che si direbbe illimitata, con la forza apparentemente inattaccabile delle persone abituate a patire, che non si aspettano niente dalla vita e si accontentano di augurarsi reciprocamente buona salute. Le appartenenze ideali, nella specifica forma delle identità nazionali che sono alla base del cataclisma continentale, non li sfiorano neppure. L’odio anti-italiano che traluce da alcune di queste lettere non è un frutto squisitamente ideologico di propaganda asburgica, ma più semplicemente la conseguenza dell’avversione immediata contro un Paese responsabile di aver trascinato le loro contrade in un conflitto che altrimenti sarebbe stato per lo meno più lontano. Questo immenso flusso di corrispondenza, che sembra quasi smentire e offuscare i dati sull’analfabetismo ancora consistente, dipende da un bisogno inesausto di contatto che promana invariabilmente tanto dai fronti quanto dall’interno. Dai fronti, esso è l’evidente espressione della situazione di precarietà e di spaesamento dei soldati, proiettati da una condizione di vita che può non essere facile ma risponde a codici e a ritmi conosciuti, spesso legati a una tradizione, a un mondo coatto non solo carico di sofferenze e di minacce per la vita, ma pieno di novità e plasmato da logiche tanto incomprensibili quanto implacabili. Dall’interno, il bisogno di ricevere posta dai congiunti sotto le armi nasce da un imperativo, quello di avere segnali di vita, da rinnovarsi con frequenza il più possibile fitta. Segnali talvolta fallaci, perché tra il momento in cui la missiva è scritta e quello in cui viene ricevuta può capitare che il soldato venga colpito a morte. È il caso del soldato Giacomo Rettagliata, rivenditore di carbone a Milano, al quale la moglie Carlotta richiede con insistenza una corrispondenza regolare, per potersi sentire ogni giorno rassicurata. Lei sa fin troppo bene che quando una lettera o una cartolina arriva nelle sue mani, altro tempo è trascorso per suo marito tra i rischi del fronte, per cui la sua apprensione non si può mai placare. La frequenza dei casi in cui le lettere dei genitori e dei parenti si perdono senza arrivare a destinazione, per il solo fatto che il destinatario nel frattempo è morto, viene registrata con sgomento nei quaderni di un giovane monaco benedettino, Francesco Olivero, anche lui al fronte. Bisogno di corrispondenza Nella richiesta di posta frequente c’è poi un desiderio tipico della corrispondenza in condizioni di lontananza forzata e prevedibilmente prolungata, ampiamente riscontrabile anche nel caso dei migranti: quello di tenere aperto un canale permanente di contatto e di aggiornamento, per evitare che la lontananza stessa produca fenomeni di

sfilacciamento del tessuto relazionale, per rinnovare la frequentazione interrotta tramite le parole, gli aggiornamenti sullo stato di salute e sulle novità via via emergenti, a cominciare dalla crescita e dalle progressive conquiste dei figli piccoli. Si tratta, insomma, di evitare di essere tagliati fuori: la corrispondenza rivela qui la sua funzione di ricucitura continua del tessuto di relazioni famigliari (es. Amedeo Andolcetti e sua moglie, che numerano le lettere in quanto molto numerose). Il bisogno di scrivere e di ricevere posta è così pressante da travolgere d’un colpo gli ostacoli dovuti alla scarsa dimestichezza col mezzo. Francesco Ferrari, caporalmaggiore bergamasco, è autore di una copiosa corrispondenza conservata, come poche volte accade, in un archivio pubblico, interamente trascritta e commentata in uno studio intitolato Scrivere per non morire. Il carteggio di Ferrari, che non si accontenta di scrivere ai genitori ma indirizza lettere e cartoline a fratelli e sorelle, allo zio curato e ad altri destinatari, è un esempio compiuto e lampante della forza imperiosa che spinge alla scrittura epistolare i soldati al fronte, anche quelli di estrazione contadina che non hanno superato i primi livelli dell’istruzione scolastica. Il nostro ha compiuto gli studi fino alla terza elementare, quanto basta per apprendere i primi rudimenti della scrittura in lingua italiana e del far di conto, prima di dedicarsi al lavoro dell’azienda familiare nel settore della bachicoltura, ma non certo per appropriarsi pienamente del mezzo. L’insufficiente apprendistato e probabilmente il modesto ricorso alla scrittura nella vita civile non lo predispongono a scrivere in maniera disinvolta nel rispetto delle regole dell’italiano standard, e la sua prosa tradisce la difficoltà di destreggiarsi nel mondo complesso che segna il passaggio dall’oralità al testo scritto, pieno di insidie, Ma non gli impedisce affatto di dedicarsi con assiduità decisamente considerevole a questo esercizio che egli e i suoi interlocutori considerano vitale. A dircelo sono il grande numero delle lettere e cartoline spedite la frequenza degli invii, il numero dei destinatari, ma anche dichiarazioni esplicite che mettono sull’attività scrittoria un’enfasi sorprendente. Ma c’è di più. L’insufficiente disponibilità di lettere e cartoline costituisce un autentico assillo per Francesco, che si preoccupa di farne scorte sufficienti e si lamenta quando la disponibilità viene meno, fino a usare – per segnalarne la carenza – un termine come “caristia”, che condensa la memoria contadina di altre, più irrimediabili scarsità. L’epistolario di Ferrari va inoltre segnalato perché presenta un repertorio particolarmente ampio e vario di quelle “scuse per il male scritto” che costituiscono una caratteristica tipica dell’epistolografia popolare, in particolare di quella della “guerra grande. Sono scuse, o meglio giustificazioni, in cui la manifestazione di un disagio verso il mezzo, così poco maneggevole per chi non ne ha pratica, viene ora correttamente ascritta all’insufficiente scolarizzazione, ora schermata da un disagio fisico, ambientale, meteorologico, persino morale, come se la postura improbabile tra i massi di una trincea o il freddo o la dimensione destabilizzante della guerra in quanto tale potessero di per sé giustificare gli esiti insoddisfacenti dell’esercizio scrittorio non solo dal punto di vista grafico, ma anche da quello linguistico o stilistico. Il tutto temperato però dalla ricorrente ironia, tinta di intenzioni scaramantiche, sul fatto che è sempre meglio scrivere male ma scrivere, che non essere più in condizione di farlo. Proprio in quanto generalizza ed esaspera il bisogno di contatti a distanza, la guerra diviene in effetti un formidabile volano di diffusione delle competenze alfabetiche. Capita che chi ha completato la terza elementare si improvvisi scrivano per conto terzi e insegnante di scrittura. È il caso di Giovanni Pistone, contadino di Roccaverano, autore di una robusta memoria di guerra, che si incarica di redigere la corrispondenza per conto di circa quaranta persone. L’assistenza viene praticata da uno scrivente tutt’altro che esperto, ma Pistone è orgoglioso di questo suo ruolo e guarda i compagni con un certo senso di superiorità, irridendo alla loro abitudine di mandare saluti a tutti, persino all’asino. Egli ricorda che la comunicazione era generalmente stereotipata, basata su formule, e narrava ben poco dell’esperienza realmente vissuta.. Molto spesso, la morte interviene drammaticamente a spezzare le catene di informazioni, rassicurazioni reciproche e scambi affettuosi, apre un vuoto che niente riesce a colmare e che esalta il valore di reliquia della corrispondenza nel frattempo accumulata. il corpus delle lettere e delle cartoline ricevute dal fronte finisce per assumere il carattere di surrogato del corpo scomparso e oggetto di culto della memoria, che non

ha altri luoghi o simulacri su cui esercitarsi. Ce lo segnalano le informazioni fornite da un discendente a proposito del soldato Giovanni Panattaro. Ma anche quando la morte non si accompagna alla scomparsa della salma, disintegrata o dispersa in qualche parte della terra di nessuno, l’epistolario diventa oggetto di un culto della memoria che esige l’unificazione delle sue parti disperse: così è nel caso di Francesco Ferrari, morto in un ospedale da campo in seguito a una ferita subita qualche giorno prima. Le lettere e le cartoline del giovane contadino caduto, che appartiene a una famiglia decimata dalla guerra (a morire, oltre a Francesco, sono suo fratello Giacomo, più vecchio di due anni, e il marito di sua sorella Marta, anche lui di nome Giacomo), vengono amorevolmente riunite, con una paziente raccolta tra i diversi parenti, dallo zio curato, anch’egli destinatario di una parte delle missive, che accoglierà poi l’invito delle autorità a consegnarle all’Archivio di Stato di Brescia, dove sono ora conservate, per custodirle nel culto della memoria non più privata ma pubblica. A queste pietose operazioni di raccolta delle testimonianze, che talora divengono reliquie, del congiunto al fronte dobbiamo il fatto che gli epistolari dei combattenti siano giunti sino a noi, qualche volta negli stessi involucri improvvisati dove erano stati inizialmente composti. Le lettere dal fronte non hanno come destinatari solo i parenti stretti, ma anche persone esterne alla cerchia familiare, parroci, notabili, autorità. I parroci sono autentici punti di raccordo della comunità contadina, percepiti come autorità morali ma anche di mediazione coll’ambito civile, talvolta come confidenti, ai quali se occorre si possono raccontare cose che ai familiari è meglio tacere, compresi gli orrori inenarrabili della guerra, e ai quali si possono chiedere favori, consigli di comportamento in circostanze estreme, assoluzioni preventive e dispense da doveri rituali, autorizzazioni a pratiche devozionali e scaramantiche che suonano superstiziose o incompatibili con l’ortodossia, ma a cui l’ambiente e le circostanze inclinano i soldati. Mediatore ad ampio spettro tra l’umano e il divino, il parroco diviene dunque naturalmente destinatario di una corrispondenza copiosissima segnata dai più diversi registri e scopi, che esalta la sua funzione e più in generale la funzione della Chiesa in un momento di particolare emergenza. Così accade ad esempio a quello di Fara Novarese, un piccolo comune rurale padano, segnato da una presenza dominante del cattolicesimo come fattore di coesione e di formazione della mentalità comunitaria. A quanto risulta dalla corrispondenza, a Fara il parroco è tutto e fa di tutto: conosce molte autorità, può ottenere per i suoi parrocchiani sotto le armi attenzioni e favori, si prodiga in ogni modo per alleviare le loro sofferenze e venire incontro ai loro bisogni, dispensa attenzioni, consigli e buone parole, cercando in questo modo anche di mantenerli o all’occorrenza di ricondurli nell’ambito della fede e della devozione. A lui i soldati al fronte rivolgono lettere di deferenza, di sottomissione, di raccomandazione. A lui chiedono conforto morale e aiuti materiali, attenzioni alle proprie famiglie, appoggio e consigli nella gestione delle aziende domestiche e nella compravendita di beni, persino supplenza e appoggio alle mogli nella sorveglianza e nell’educazione dei figli, per evitare che tralignino dalla retta via in loro assenza. I soldati chiedono al parroco soprattutto rassicurazione e protezione di fronte all’immane flagello che si è abbattuto su di loro, allo scopo di vincere la precarietà e l’impotenza che avvertono come nuovo elemento dominante della propria condizione. Il solo fatto di ricevere posta da lui è fonte di sollievo. Ma c’è anche chi traduce e sintetizza questo bisogno di protezione in formule e giaculatorie scaramantiche, riprendendo forse slogan impressi nelle immaginette e nel materiale devozionale distribuito dai cappellani. Oltre ai parroci, con poteri analoghi anche se limitati all’ambito delle cose terrene, ci sono poi le autorità civili e politiche e i notabili, ai quali viene indirizzata una corrispondenza anche in questo caso fitta e insistente, alimentata dallo stesso bisogno di protezione in circostanze particolarmente difficili e destabilizzanti. Ad essi ci si rivolge per chiedere raccomandazioni e favori, offrendo in cambio deferenza e promesse di voto in occasione di elezioni. In queste pratiche tralucono l’attitudine alla contrattazione e allo scambio, maturata in una lunga tradizione di politica e amministrazione nell’Italia liberale e ora rivitalizzata dall’emergenza della guerra, nonché le gerarchie di rilevanza nelle aspirazioni dei soldati mobilitati: in testa a tutte, il desiderio di evitare l’inquadramento nella fanteria, che ha la fama del tutto giustificata di anticamera della morte.

Flussi postali Sulla spasmodica attesa della posta nel contesto della vita di trincea esiste un’ampia letteratura e una non meno ampia iconografia. Il fenomeno non sfugge all’attenzione delle autorità civili e militari specie da quando, piuttosto tardivamente, l’organizzazione del consenso diventa un impegno dichiarato e sorretto da una struttura organizzativa. Ce lo dice, tra le righe e con non poche concessioni all’enfasi patriottica, il passo di un’orazione tenuta dal giovane Piero Calamandrei, solerte attivista del neonato Ufficio Propaganda. I soldati sono i primi a rendersi conto di quanto la loro incontinenza postale in partenza e in arrivo, moltiplicandosi per i milioni di...


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