La realtà come costruzione sociale - Berger e Luckmann PDF

Title La realtà come costruzione sociale - Berger e Luckmann
Course Sociologia Generale
Institution Università degli Studi di Messina
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Riassunto completo di tutti i capitoli del libro di Berger e Luckmann...


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La realta come costruzione sociale INTRODUZIONE Il problema della sociologia della conoscenza La tesi da sostenere è che la realtà viene costruita socialmente; il compito della sociologia della conoscenza è appunto di analizzare i processi attraverso cui questo avviene. I termini chiave sono “realtà” e “conoscenza”: la prima indica una caratteristica propria di quei fenomeni indipendenti dalla volontà, mentre la seconda è la certezza che i fenomeni siano reali e possiedono caratteristiche precise. In questo senso semplicistico le due parole hanno interesse sia per l’uomo della strada che per il filosofo. L’uomo della strada vive in un mondo che per lui è “reale” e sa che esso possiede precise caratteristiche. Il filosofo, ovviamente, metterà in discussione l’assolutezza sia di questa “realtà” che di questa “conoscenza”. Si potrebbe dire che la concezione sociologica di “realtà” e di “conoscenza” si trovi a metà strada tra quella dell’uomo della strada e quella del filosofo. L’uomo della strada, infatti, non si preoccupa di che cosa sia “reale” per lui e di che cosa egli “sappia”, a meno che non sia spinto da qualche problema: egli dà per scontata la propria “realtà” e la propria “conoscenza”. Il sociologo non può fare così: è costretto dalla logica stessa della sua disciplina a domandarsi se la differenza tra le diverse “realtà” non possa essere spiegata in relazione alle differenze tra le varie società. Il filosofo è, invece, obbligato a non dare alcunché per scontato e a cercare di chiarire cosa sia la “realtà” che la “conoscenza”. In altri termini la sociologia della conoscenza si occupa dell’analisi della costruzione sociale della realtà. Questa concezione è diversa dall’interpretazione che si è data per la prima volta circa quarant’anni fa. Il termine “sociologia della conoscenza” venne coniato da Max Scheler, nell’ambito della filosofia tedesca dopo il 1920, la quale si interessava della relazione tra il pensiero umano e il contesto sociale da cui scaturisce. Gli antecedenti intellettuali della sociologia della conoscenza sono tre filoni del pensiero tedesco del diciannovesimo secolo: marxismo, nietzschiano e storicista. Da Marx deriva il suo principio basilare, cioè che la coscienza dell’uomo è determinata dalla sua esistenza sociale, ma anche alcuni dei suoi concetti più importanti, fra i quali quello di “ideologia” (idee che servono come strumenti di costrizione nella realtà sociale) e quello di “falsa coscienza” (il pensiero che viene alienato dalla vera condizione sociale dell’individuo. Le idee nietzschiane appartengono al suo generale background culturale e al clima in cui essa nacque. L’anti-idealismo di Nietzsche forniva nuovi spunti di vista sul pensiero umano come strumento nella lotta per la sopravvivenza e per il potere. A un livello generale si può sostenere che la sociologia della conoscenza rappresenti un’applicazione di quella che Nietzsche stesso definì “l’arte della diffidenza”.

Lo storicismo, espresso nelle opere di Wilhelm Dilthey, fu l’immediato predecessore della sociologia della conoscenza. Qui il tema principale era un enorme senso della relatività di tutti i punti di vista sugli avvenimenti umani, ovvero dell’inevitabile storicità del pensiero umano. In linea con questo orientamento, la sociologia della conoscenza di Scheler è un metodo negativo. Scheler asseriva che la relazione tra i “fattori ideali” e i “fattori reali” era un rapporto non essenziale all’evoluzione storica: i fattori reali regolano le condizioni in cui certi fattori ideali possono apparire nella storia, ma non possono influire sul loro contenuto. In altre parole, la società determina la presenza ma non la natura delle idee. In seguito all’invenzione da parte di Scheler della sociologia della conoscenza, vi fu un dibattito molto ampio in Germania sulla validità della nuova disciplina. Da questo affiorò una formulazione che arrivò nei paesi di lingua inglese ad opera di Karl Mannheim. I suoi scritti sono meno intrisi di bagaglio filosofico di quelli di Scheler. Mannheim aveva una visione della sociologia della conoscenza più profonda: la società era vista come determinante non solo l’aspetto, ma anche il contenuto dell’ideazione umana, con l’eccezione della matematica e delle scienze umane. La sua preoccupazione chiava, invece, era legata al fenomeno dell’ideologia. Egli distingueva tra i concetti particolari, totali e generali: l’ideologia che costituisce solo un segmento del pensiero i un avversario, che costituisce la totalità del pensiero di un avversario e che caratterizza non solo il pensiero dell’avversario ma anche il proprio. Con il concetto generale di ideologia si riconosce che nessun pensiero umano è immune dalle influenze del proprio contesto sociale. Riassumendo, la concezione della sociologia della conoscenza di Scheler e Mannheim sono state giustamente chiamate rispettivamente la concezione “moderata” e la concezione “radicale”. Lo sviluppo successivo della sociologia stessa è consistito in critiche e modifiche a queste due concezioni. Il più importante sociologo americano è stato Robert Merton il quale ne ha riformulato i temi principali in una forma concisa e coerente. Questa costruzione si propone di integrare il punto di vista della sociologia della conoscenza con quello della teoria strutturale-funzionale. Anche Talcott Parsons ha sviluppato alcune osservazioni, che sono però limitate a una critica di Mannheim e non cercano un’integrazione della disciplina. Si può affermare perciò che né Merton né Parsons compirono alcun passo avanti. Lo stesso si può dire dei loro critici. C. Wright Mills trattò la sociologia della conoscenza nei suoi lavori giovanili, ma in una maniera descrittiva e senza contribuire al suo sviluppo teorico. Un particolare tentativo di integrare la sociologia della conoscenza con un punto di vista neo-positivista è quello di Theodor Geiger, che influenzò la sociologia scandinava dopo la sua emigrazione dalla Germania. Geiger tornò a una concezione più ristretta dell’ideologia come pensiero socialmente distorto e sostenne che era

possibile superarla attraverso una scrupolosa fedeltà ai canoni metodologici scientifici. Il tentativo maggiore di superare Mannheim è quello di Werner Stark, un altro studioso europeo emigrato che ha insegnato in Inghilterra e negli Stati Uniti. Secondo lui il compito della sociologia della conoscenza non è quello di smascherare le deformazioni prodotte dalla società, ma di studiare le condizioni sociali della conoscenza in quanto tale. Il problema centrale è la sociologia della verità, non dell’errore.

CAPITOLO PRIMO I fondamenti delle conoscenza nella vita quotidiana 1. La realtà della vita quotidiana Se si vuole comprendere la realtà della vita quotidiana, è necessario prendere in considerazione il carattere intrinseco della filosofia, prima di procedere con l’analisi sociologica. La vita quotidiana si presenta come una realtà interpretata dagli uomini e soggettivamente significativa per loro come un mondo coerente. I sociologi assumono questa realtà come l’oggetto delle loro analisi. Tuttavia il mondo della vita quotidiana è anche un mondo che si origina nel suo pensiero e nella sua azione, e che grazie a questi mantiene la sua realtà. L’analisi fenomenologica della vita quotidiana, o piuttosto dell’esperienza soggettiva, si astiene da ogni ipotesi causale o genetica. Il senso comune comprende innumerevoli interpretazioni pre- e semi-scientifiche della realtà quotidiana, che accetta come ovvie. Se si vuole descrivere la realtà del senso comune bisogna far riferimento a queste interpretazioni in una prospettiva fenomenologica stessa. La coscienza è sempre intenzionale: essa tende sempre, o è diretta, verso oggetti: sia che l’oggetto venga sperimentato come appartenente a un mondo fisico esterno, sia che venga percepito come elemento di una realtà soggettiva interiore. Oggetti differenti si presentano alla coscienza come costitutivi di differenti sfere di realtà che introducono tensioni del tutto diverse nella coscienza e si è attenti ad essi in modi completamente differenti. Fra le molteplici realtà ve n’è una che si presenta come quella per eccellenza: la realtà della vita quotidiana. La tensione della coscienza è più alta nella vita quotidiana, cioè si impone nella maniera più urgente e intensa. E impossibile ignorarla. Si percepisce la realtà della vita quotidiana come una realtà ordinata. I suoi fenomeni sono predisposti in modelli che sembrano indipendenti dalla percezione di essi e che si impongono su quest’ultima. La realtà della vita quotidiana appare già oggettivata, cioè costruita da un ordine di oggetti che sono stati designati come tali prima della diretta comparsa sulla scena. Il linguaggio fornisce le necessarie oggettivazioni e comanda l’ordine all’interno del quale queste hanno un senso e in cui la vita quotidiana ha significato. La realtà della vita quotidiana è organizzata intorno al “qui” (hic) del corpo e all’”adesso (nunc) del presente. La realtà della vita quotidiana si presenta, inoltre, come un mondo intersoggettivo, un mondo che si condivide con altri. Questa intersoggettività differenzia la vita quotidiana da altre realtà: non si può esistere in questo mondo oggettivo senza interagire e comunicare continuamente con altri. La realtà della vita quotidiana viene data per scontata come realtà. Essa non richiede una verifica ulteriore oltre la sua semplice presenza. Essa c’è semplicemente. Ma non tutti gli aspetti di questa realtà sono non problematici. La vita quotidiana è divisa in settori che vengono percepiti come routine ed altri che mettono di fronte a problemi

di diversi generi. Ma anche il settore non problematico è tale solo fino a nuovo avviso, cioè fino a che la sua continuità è interrotta dalla comparsa di un problema. Quando questo avviene, la realtà cerca di integrare il settore problematico in ciò che è già non problematico. Se si indaga sul significato di questa insolita attività, c’è una varietà di possibilità che la conoscenza fondata sul senso comune è in grado di reintegrare nelle routines non problematiche della vita quotidiana. Il mondo della vita quotidiana è strutturato sia spazialmente che temporalmente. La struttura spaziale è del tutto periferica in quanto la manipolazione si interseca con quella di altri. La temporalità è una proprietà intrinseca della coscienza, il cui flusso è sempre ordinato. E’ possibile distinguere tra livelli differenti di questa temporalità. Ogni individuo è conscio dello scorrere del tempo, che a sua volta si basa sui ritmi fisiologici dell’organismo, sebbene non coincida totalmente con questi. Il mondo comune ha il suo proprio tempo standard, che è accessibile e può essere considerato come l’intersezione tra il tempo cosmico e il suo calendario sociale. Non vi può mai essere piena simultaneità per via dell’attesa. 2. L’interazione sociale nella vita quotidiana La realtà della vita quotidiana è condivisa con altri: è possibile distinguere tra diversi modi di tale esperienza. La più importante ha luogo nella situazione in cui ci si trova faccia a faccia, che costituisce il prototipo dell’interazione sociale. Tutti gli altri casi sono derivazioni di questo. Quando ci si incontra faccia a faccia i due soggetti sono uno di fronte all’altro. L’hit et nunc si scontrano continuamente finché si arriva all’incontro diretto. Ne risulta un continuo interscambio delle espressività. Nell’incontro diretto l’altro è pienamente reale. Certo, può essere tale anche senza che si sia mai incontrato di persona, per fama ad esempio, ma diviene reale nel pieno senso della parola solo quando ci si ritrova di fronte faccia a faccia. Un aspetto importante dell’esperienza è dunque il carattere diretto o indiretto di tale esperienza. In ogni momento è possibile distinguere tra consoci con cui si hanno incontri diretti e altri che sono puramente contemporanei, di cui si ha solo ricordi più o meno dettagliato o per sentito dire. Nell’incontro faccia a faccia si ha la prova diretta dell’interlocutore, delle sue azioni, dei suoi attributi. Non è così nel caso dei contemporanei: di alcuni vi è una ripetuta esperienza in incontri diretti e la possibilità di incontrarli ancora regolarmente; di altri come concreti esseri umani da un incontro passato che probabilmente non si ripeterò. Il grado di interesse e di intimità possono combinarsi nell’accrescere o nell’attenuare l’anonimia dell’esperienza, e possono anche influenzarlo indipendentemente. Riassumendo, la realtà sociale della vita quotidiana è così percepita in una serie di tipizzazioni, che si fanno progressivamente anonime mano a mano che si allontanano dall’hic et nunc della situazione dell’incontro diretto: da una parte stanno quelli con cui si interagisce frequentemente negli incontri diretti, la cerchia interna per così dire;

dall’altra ci sono astrazioni anonime, che per loro natura non sono accessibili all’interazione dell’incontro diretto. Un’ultima precisazione è che le relazioni con altri non sono limitate a coloro con cui si interagisce e ai contemporanei, ma anche coi predecessori e successori (bisnonni, Padri Fondatori; figli dei figli, generazioni future). 3. Il linguaggio e la conoscenza nella vita quotidiana L’espressività umana è in grado di oggettivarsi, cioè si manifesta in attività che sono accessibili sia ai loro produttori che agli altri in quanto elementi di un mondo comune. Queste oggettivazioni servono come indici più o meno durevoli dei processi soggettivi dei loro produttori, permettendo alla loro utilizzabilità di estendersi al di là dell’incontro diretto in cui possono essere percepiti direttamente. La realtà della vita quotidiana è possibile però grazie a questi stessi oggetti che proclamano le intenzioni soggettive dei consimili. Un caso di oggettivazione speciale ma di importanza cruciale è la significazione, cioè la produzione umana di segni. Un segno può essere distinto da altre oggettivazioni per la sua intenzione di servire come indice di significati soggettivi. Per esempio, un’arma può essere stata prodotta in origine allo scopo di cacciare animali, ma può più tardi divenire un segno dell’aggressività e della violenza in generale. I segni sono riuniti in una quantità di sistemi. Così vi sono sistemi di gesticolazioni, di movimenti corporei tipici, di complessi di prodotti materiali lavorati e così via. Il linguaggio, sistema di segni vocali, è il più importante sistema di segni della società umana. I suoi fondamenti risiedono nella capacità di espressività vocale dell’organismo umano. Non è, però, ancora linguaggio se si ringhia, grugnisce, ulula o fischia, sebbene queste espressioni vocali siano capaci di divenire linguistiche nel momento in cui siano integrate in un sistema oggettivamente accessibile. Il linguaggio costruisce campi semantici o zone di significato che sono circoscritte. Il vocabolario, la grammatica e la sintassi sono rivolti all’organizzazione di questi campi semantici. Così il linguaggio costruisce schemi di classificazione per differenziare gli oggetti per genere o per numero; forme linguistiche diverse a seconda che si voglia esprimere una azione o uno stato; modi di indicare i gradi di intimità sociale.

CAPITOLO SECONDO La società come realtà oggettiva 1. L’istituzionalizzazione A. Organismo e attività L’uomo occupa una posizione peculiare nel regno animale. A differenza degli altri mammiferi, egli non ha alcun ambiente proprio alla sua specie. La relazione dell’uomo col suo ambiente è caratterizzata dall’apertura di fronte al mondo e dipende molto dalla costituzione biologica che gli è propria. Quest’ultima gli consente di impegnarsi in differenti attività. Ma il fatto che egli abbia continuato a condurre un’esistenza nomade e si sia volto all’agricoltura, non può essere spiegato in termini di processi biologici. Naturalmente l’apparato sensoriale e motorio impone ovvie limitazioni al suo ambito di possibilità. L’organizzazione istintuale dell’uomo può definirsi sottosviluppata, in rapporto a quella degli altri mammiferi superiori. Nell’uomo agiscono degli impulsi, i quali, però, non sono specializzati e diretti, il che significa che l’uomo è in grado di applicare il suo bagaglio in un ambito di attività molto ampio e costantemente variabile e variante. Il periodo durante il quale l’organismo umani si sviluppa è anche il periodo durante il quale si forma l’identità umana. La formazione dell’io, dunque, dev’essere anche compresa in rapporto allo sviluppo dell’organismo e al processo sociale in cui l’ambiente naturale e quello umano sono mediati dall’influenza degli altri. I presupposti genetici dell’io sono dati alla nascita, e ciò non si limita alla particolare configurazione che l’individuo identifica come se stesso ma comprende anche tutto il bagaglio psicologico legato alla sua particolare configurazione. L’organismo umano manca dei mezzi biologici necessari per dare stabilità alla sua condotta. L’esistenza umana, se si dovesse accontentare delle sole risorse dell’organismo, diverrebbe un’esistenza caotica. Un tale caos tuttavia non ci è empiricamente accessibile: l’esistenza umana si svolge in un contesto di ordine, direzione, stabilità. L’ordine sociale è un prodotto umano, o più precisamente, una ininterrotta produzione umana. Esso non è biologicamente dato o derivato da un presupposto biologico o dato nell’ambiente naturale dell’uomo; essi esistono solo come un prodotto dell’attività umana. B. Origini dell’istituzionalizzazione Tutta l’attività umana non è soggetta alla consuetudinarietà: ogni azione che venga ripetuta frequentemente viene cristallizzata secondo uno schema fisso. L’abitualizzazione implica inoltre che l’azione possa essere eseguita ancora in futuro nello stesso modo e con lo stesso sforzo economico. Questo vale sia per l’attività sociale, sia per quella non sociale. L ’abitualizzazione provvede alla specializzazione e alla direzione delle attività che mancano nel bagaglio biologico dell’uomo, alleviando così l’accumulazione di tensioni risultante dagli impulsi non guidati. Nei termini dei significati attribuiti dall’uomo alla propria attività, l’abitualizzazione

elimina la necessità di ridefinire da zero ogni situazione, volta per volta. L’istituzionalizzazione ha luogo dovunque vi sia una tipizzazione reciproca di azioni da parte di gruppi di esecutori: ogni simile tipizzazione è un’istituzione. Esse devono sottostare a due condizioni: avere uno sviluppo storico e fornire uno schema di condotta a coloro che ne fanno parte. In linea di principio, le istituzioni tendono ad associarsi. In primo luogo alcune relazioni saranno comuni a tutti i membri di una collettività. D’altro canto, molte aree di condotta saranno relative solo a certi tipi. Quest’ultimo fatto implica una distinzione su differenze presociali, come il sesso, o su differenze emerse nel corso dell’interazione sociale, come quelle generate dalla divisione del lavoro. Per esempio, solo le donne possono interessarsi delle pratiche magiche per la fertilità, e solo i cacciatori possono dedicarsi alla pittura delle grotte. C. Sedimentazione e tradizione Solo una piccola parte delle esperienze umane viene trattenuta dalla coscienza che si sedimentano nella memoria come entità riconoscibili e ricordabili. La sedimentazione intersoggettiva può essere definita sociale solo quando è stata oggettivata in un sistema di simboli di un qualche genere, cioè quando esiste la possibilità di una oggettivazione reiterata delle esperienze comuni. Solo allora è possibile che queste esperienze vengano trasmesse da una generazione alla successiva. Generalmente qualsiasi sistema di simboli va bene. Normalmente quello usato è il linguistico che rende oggettive e accessibili tutti le esperienze comuni all’interno della comunità linguistica, divenendo così la base e lo strumento della cultura collettiva. D. I ruoli Le origini di ogni ordine istituzionale risiedono nella tipizzazione delle azioni proprie ed altrui. Questo implica che uno condivida con altri alcuni fini specifici e fasi di azione comune, e inoltre che non solo le azioni ma anche le forme dell’azione siano tipizzate. Vi sarà cioè il riconoscimento non solo di un individuo che compie un’azione del tipo X, ma dell’azione stessa in quanto eseguibile da ogni individuo. La tipizzazione delle forme di azione richiede che queste abbiano un senso oggettivo...


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