Lezioni di pedagogia fondamentale PDF

Title Lezioni di pedagogia fondamentale
Author Anonymous User
Course Pedagogia generale
Institution Libera Università Maria Santissima Assunta
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riassunti che mi hanno consentito di prendere trenta molto chiari e semplici...


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2. LE “EMERGENZE” DELL’EDUCAZIONE CONTEMPORANEA

Le società post-industriali vengono definite società dell’immagine. Molti studi sociologici rintracciano nei media e nella pubblicità i maggiori promotori di questa forma espressiva (quella visiva, appunto) che sta assumendo i caratteri di un nuovo orizzonte culturale. L’informazione, nel corso della comunicazione, va smarrendo il suo contenuto verbale; l’immagine non è più utilizzata come ausilio al contenuto del messaggio, ma diventa essa stessa il messaggio. Sembra allora che un evento non esista se non può essere corredato da immagini: sempre più spesso il mostrare prende il posto del dimostrare. Un altro aspetto delle società post-industriali, in qualche modo legato alla velocità del flusso delle immagini pubblicitarie, è la velocità nei consumi: sembra prevalere un “bisogno” quasi compulsivo di consumare, gettare via e riacquistare, alla ricerca costante di un godimento effimero attraverso gli oggetti. Inoltre è avvertita diffusamente la pressione, quasi il soffocamento, dovuto ad una costante mancanza di tempo in tutte le attività che si svolgono durante il giorno. Assistiamo quindi, ad un accreditamento culturale della velocità come valore primario, alla dominanza della cultura della fretta, ma anche della cogenza del principio dell’immediatezza e del piacere.

Di fronte a questi profondi cambiamenti, le indagini psico-sociali mostrano come i bambini e le bambine di oggi siano sempre più soli: le reti orizzontali, cioè le possibilità di rapporti fra pari, si sono impoverite e la maggiore differenza di età fra genitori e figli ha cambiato la configurazione anche delle reti verticali e a questo si accompagna un’instabilità dei nuclei familiari. La solitudine e la non comunicazione sono avvertite anche pure fra le famiglie stesse. Queste si sentono poco supportate nella loro funzione genitoriale e sono sempre più schiacciate da tempi di vita pressanti che hanno quasi del tutto annullato i rapporti di vicinato e la possibilità di una condivisione delle problematiche educative. Inoltre il controllo della procreazione, insieme alla scelta e alla programmazione del momento in cui avere un bambino e di come averlo, hanno creato un figlio più adorato che amato. Assistiamo ad una vera e propria mitizzazione dell’infanzia, che ha trasformato il senso strutturale della famiglia rispetto al passato, comportando una rivoluzione antropologica: oggi gli adulti si vedono attraverso i bambini, si proiettano in loro. Nelle nuove “famiglie affettive”, è il figlio che fa la famiglia, non il contrario.

Nella vita quotidiana, questa regalità si traduce, in primo luogo, in bambini carichi di impegni che qualcun altro ha già preso per loro. Naturalmente senza che il reale desiderio di creatività del bambino venga realmente ascoltato e, quindi, lasciato libero di esprimersi in giochi poco strutturati o negoziati tra pari, così importanti per lo sviluppo del pensiero e della socialità. In secondo luogo, la regalità del bambino sovrano è uno dei fattori all’origine di un rifiuto da parte della famiglia di imporgli qualsiasi forma di norma, confine, limite e differenza. Tale cambiamento nell’educazione si lega ad una trasformazione dei ruoli genitoriali in direzione di una conflittualità intergenerazionale sempre più ridotta: anche il senso comune percepisce con evidenza l’avvenuto slittamento dalla “famiglia normativa” all’attuale “famiglia affettiva”.

L’adolescenza, come moratoria psico-sociale o tempo di latenza, non è affatto un periodo della vita riconosciuto in tutte le culture e, sicuramente, non lo era in passato. L’adolescenza è un’invenzione del XIX secolo e nasce contestualmente alla società industriale, che consente ai bambini e ai giovani più lunghi periodi di scolarizzazione e formazione, rendendo più prolungata e complessa la transizione all’età adulta. Successivamente, con l’avvento della psicoanalisi, l’adolescenza verrà considerata una vera e propria fase “psicopatologica”. Quello a cui assistiamo oggi, nelle società occidentali, è un tempo dell’adolescenza che si sta allungando sempre più: un prolungamento di almeno una decina d’anni, che viene definita post-adolescenza. Con questa espressione non si allude ad una fase successiva all’adolescenza, ma ad un periodo in cui questa si protrae in quanto alcuni compiti di sviluppo tipici dell’adolescenza non sono stati assolti. Fra questi, la costruzione della propria identità, la conquista dell’indipendenza dalle figure genitoriali e la creazione di relazioni sociali ed intime più mature. Poiché l’adolescenza sembra allungarsi sempre più, negli studi più recenti sul tema si nota un proliferare di termini che la definiscono senza circoscriverla: adolescenza lunga, adolescenza prolungata, età del labirinto, generazione non desiderante. Si parla inoltre di generazione degli sdraiati o all’opposto di generazione mongolfiera, che sembra galleggiare nel tempo senza avere alcuna fretta di atterrare. Ma va inoltre osservato che, insieme a questa adolescenza quasi evanescente, i genitori hanno modificato sostanzialmente i sistemi di rappresentazione delle funzioni genitoriali nei confronti dei loro figli adolescenti. Mi riferisco all’assunzione di un modello educativo quasi esclusivamente affettivo, che ha soppiantato quello etico-normativo. E’ qui riconoscibile un desiderio genitoriale di perpetuare la protezione e la dipendenza dei figli, anziché promuovere e favorire la loro autonomia e indipendenza; i figli vengono “protetti” dalla fatica dell’individualizzazione, unica via per

un’autentica separazione. Sembra quindi che l’adolescenza sia caratterizzata da un narcisismo alimentato da una cultura dell’immagine e da genitori estremamente protettivi che basano la relazione educativa sull’affettività. Nonostante questa vicinanza affettiva si parla di una “rottura” del patto tra le generazioni, da attribuire all’incertezza dei confini che dovrebbero separare e distinguere una generazione dall’altra. Infatti, nell’apparire adolescenti giovani e adulti si vedono più somiglianze che differenze: non si registrano discontinuità esperienziali fra una generazione e l’altra. Quanto però – in un apparente paradosso – emerge dalle parole di molti genitori “affettivi” è una profonda crisi del dialogo intergenerazionale, di cui non riescono a vedere le ragioni. Una crisi che, diversamente dal passato, non si manifesta in un conflitto, in una ribellione, ma in una sorta di tregua, di reciproca rassegnazione. Per i genitori, esercitare la propria autorevolezza è vissuto come un tentativo di limitare la libertà del figlio in crescita, evitando così il più possibile di entrare in conflitto con lui, perché il conflitto è percepito come un segno del proprio fallimento come genitori. Nasce così quella che è stata definita famiglia negoziale, cioè un sistema familiare caratterizzato da una contrattazione continua fra genitore e figlio. Nonostante questa negoziazione continua e l’apparente assenza di discontinuità generazionale, assistiamo a forme di totale incomunicabilità.

La società contemporanea sta attraversando una serie di trasformazioni specie per ciò che concerne l’aspetto economico; quanto detto non può che aver influenzato – e influenzare tuttora – tutte le sfere della vita, soprattutto dei più giovani. La disoccupazione giovanile si alterna spesso con l’occupazione a tempo determinato, comportando un avvicendarsi di fasi lavorative e periodi di disoccupazione. Ciò testimonia una condizione di incertezza generale che non riguarda unicamente l’inserimento lavorativo, ma anche la possibilità di mantenere il lavoro nel tempo. Quanto appena detto si ripercuote sul significato simbolico attribuito al lavoro: non si tratta più di un passaggio definitivo che connota e segna (insieme ad altri) l’ingresso nell’età adulta. La popolazione italiana si caratterizza inoltre per la più alta percentuale di Neet in Europa; si tratta di giovani che non studiano e non lavorano. Campania e Sicilia sono le regioni con le quote più elevate, superiori al 35%. Inoltre va sottolineato che l’incidenza dei Neet è per i ragazzi stranieri ancor più accentuata che per gli italiani.

La maggior parte dei Neet si dichiara poco disponibile ad impegnarsi in talune attività lavorative o lo è solo ad alcune condizioni. Se, da un lato, si evince una sfiducia che rende difficile pensare ad un cambiamento possibile, dall’altro emerge l’esigenza di una maggiore realizzazione che si orienta più verso la vita privata e si concretizza nella relazione con la famiglia d’origine. In risposta ai cambiamenti socio-economici, fonte di profonda incertezza, si registrano un aumento della sfiducia nel futuro, percepito come una minaccia e non più come una promessa, e una lettura pessimistica della realtà come tratto caratterizzante della condizione giovanile. Così sembra che a mitigare questo quadro di incertezza rimanga ancora centrale la funzione di “rifugio” della famiglia d’origine nella vita del giovane adulto; la famiglia infatti, oggi più che mai, si configura come unico riferimento sicuro, non solo come supporto per le difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro ma anche come fonte di sostegno da un punto di vista emotivo-affettivo, E’ il fenomeno, tipicamente italiano, della famiglia lunga: il clima di armonia che si respira in famiglia restituisce ai figli una condizione di benessere difficile da abbandonare perché contrapposto ad un clima sociale fortemente instabile e insicuro; così, sempre più frequentemente, la transizione all’età adulta avviene all’interno della famiglia d’origine. A fronte di questo quadro relativo ai dati sulla condizione giovanile in Italia, ce ne sono altri di segno opposto. Un esempio concreto è rappresentato dal volontariato, che presenta un trend in crescita. E’ cambiata negli anni la concezione del volontariato negli under 30, che non lo concepiscono solo come rimozione del bisogno o del disagio altrui, ma lo vivono come una forma di cittadinanza attiva legata ad una più ampia responsabilità solidale. Il volontariato, con il suo grado di apertura all’altro e la sua carica rigenerativa, rappresenta un’esperienza che può sostenere il processo di costruzione dell’identità sociale e civica e può costruire, insieme alla vita familiare un nodo fondamentale della rete relazionale in cui i giovani possono inserirsi. Le motivazioni prevalenti di questo tipo di scelte prosociali sono legate a un bisogno di crescita personale, a bisogni relazionali, all’influenza della famiglia d’origine e del contesto sociale d’appartenenza.

La precarietà lavorativa sembra legarsi anche ad altri cambiamenti rilevanti. Si parla oggi anche di una precarietà affettiva: molti giovani adulti lamentano di non riuscire a progettare una vita in coppia né tanto meno a coltivare l’idea di diventare genitori. Assistiamo quindi a un progressivo calo delle nascite che nel 2013 ha toccato il punto più basso nella storia della Repubblica italiana; solo la presenza di donne e famiglie migranti influenza sensibilmente una ripresa demografica nel nostro Paese.

Il “costo del figli” cui spesso alludono molti giovani non è solo di natura economica: le motivazioni interiori sono molto più profonde e si riferiscono al costo emotivo di una scelta irreversibile, più che di una sostenibilità materiale. Intimorisce l’idea che la transizione genitoriale pare, almeno in modo più evidente, l’unica da cui non si possa recedere. Inoltre, al fenomeno della famiglia lunga e alla procrastinazione della transizione genitoriale, si aggiungono altri cambiamenti che interessano la famiglia: il matrimonio non è più una scelta prevalente e si assiste ad una pluralizzazione delle forme familiari. La vita di coppia ha assunto delle forme sempre meno ritualizzate e più de-istituzionalizzate: sono in aumento le convivenze e le coppie di fatto, che attualmente costituiscono il 20% delle coppie italiane. I cambiamenti più evidenti, che coinvolgono l’istituto del matrimonio, sono rintracciabili nella riduzione delle prime nozze, nell’aumento delle seconde e delle successive, in una crescita della scelta della convivenza e in un aumento delle separazioni e dei divorzi. Questa pluralizzazione delle forme familiari ha modificato anche un vocabolario essenziale in cui parole come “famiglia” e “amore” non hanno più un significato univoco per tutti, ma assumono un senso differente per ciascuno, indebolendo i valori che a tali parole si associano. Tuttavia, davanti a una deriva de-generativa, confermata anche dall’aumento del numero di coppie che sceglie di non avere figli (coppie Childfree), assistiamo a nuove forme di generatività sociale: il riferimento è a quelle coppie che, non potendo generare figli, intraprendono percorsi adottivi internazionali, scegliendo forme di genitorialità consapevole nella prospettiva di un impegno educativo evidente.

E’ inoltre possibile constatare una trasformazione della scuola nella stessa direzione di quella descritta per la famiglia, nel senso che entrambe sembrano aver perso un valore simbolico chiaro e condiviso; tale perdita sembra aver spezzato il patto di alleanza tra le due principali agenzie educative e, ancora una volta, aver rotto la trasmissione educativa tra le generazioni. I genitori si alleano con i figli e lasciano gli insegnanti nella più totale solitudine, a rappresentare quel che resta della differenza generazionale e del compito educativo. Molti insegnanti, nell’assumere una funzione educativa, sentono svalutato il loro ruolo professionale proprio dai genitori degli alunni: si è rotta una condivisione educativa che in passato vedeva una sinergia di intenti nei genitori e negli insegnanti. Alcune ricerche mostrano come le rappresentazioni che gli insegnanti hanno dei genitori riportino adun’idea di “utenti incompetenti” e ad una tipologia di famiglia che richiama aspettative legate adun’immagine tradizionale. D’altra parte, la scuola viene accusata dalle famiglie di non essere più

in grado di preparare i giovani alla vita e, pertanto, di essere venuta meno al suo mandato, risultando inadeguata rispetto alle trasformazioni in termini di conoscenze e competenze.

La popolazione dei residenti stranieri in Italia al primo gennaio 2015 è di oltre cinque milioni; in particolare, se ci riferiamo ai minori, il totale si aggira intorno ai 900.000. Diminuisce invece dello 0,6% la popolazione di alunni italiani. I giovani immigrati riportano risultati scolastici peggiori rispetto agli studenti italiani e smettono di andare a scuola prima, soprattutto se arrivati in Italia in età avanzata. I ragazzi stranieri cresciuti in Italia presentano delle caratteristiche diverse rispetto a quelli giunti nel nostro paese ad un’età maggiore; in particolare i primi sono più simili agli italiani appartenenti al loro ceto sociale piuttosto che ai loro connazionali giunti in Italia in un secondo momento. Tra i minori trasferitisi in Italia a più di dieci anni di età la proporzione di ritardo scolastico è di oltre il 70%. Le ricerche sottolineano come l’elaborazione della propria identità sia più problematica per i minori giunti in Italia già adolescenti, rispetto ai figli di immigrati nati in Italia o a quelli giunti durante la prima infanzia. Quando vengono analizzate le problematiche relative alla socializzazione nel paese ospitante e all’inserimento scolastico dei minori stranieri, si parte dalla premessa che l’identità dei figli degli immigrati si sviluppi su basi etniche, anche se questi ragazzi in realtà non sono portatori di un’identità etnica così specifica e definita. A fronte di queste osservazioni nella scuola italiana è una prassi ormai consolidata e generalizzata quella di inserire i minori stranieri in una o più classi indietro rispetto a quella che dovrebbero frequentare in relazione all’età anagrafica. L’adozione indiscriminata di questa pratica diventa spesso il primo passo verso una marginalizzazione e un senso di frustrazione dei ragazzi che desiderano concludere prima possibile il periodo scolastico. A ciò si aggiunge la tendenza ad attribuire erroneamente a deficit della persona quelle che, invece, possono essere difficoltà di carattere linguistico. Così il ritardo accumulato porta ad una sottovalutazione delle proprie capacità e spinge all’abbandono degli studi. Un rischio sempre più reale è quello di creare classi o interi istituti scolastici “polarizzati”: si corre il pericolo di creare delle “scuole-ghetto”, dove l’idea di un’integrazione non è più pensabile, in quanto contemporaneamente si verifica in queste scuole un ritiro dei propri figli da parte delle famiglie italiane, con conseguente rischio di marginalizzazione. Inoltre oggi viene richiamato spesso il concetto di “inclusione”, che descrive il processo per cui la scuola cerca di rispondere agli alunni come persone, riconsiderando la sua organizzazione e la sua

offerta curriculare, evitando di concentrare l’attenzione sul solo ambito degli alunni con disabilità certificata e spostandola invece dai deficit ai bisogni cognitivi di tutti gli alunni.

3. LA NOSTRA EPOCA TARDA

Negli ultimi quattro decenni sociologi e filosofi si sono ampiamente soffermati sulla crisi della modernità, intendendo con quest’ultimo termine quel progetto di razionalizzazione del mondo, nato con l’Illuminismo, che si basava su una grande fiducia nelle possibilità della scienza, sull’ideale di progresso come strumento di emancipazione umana, sull’istanza di una morale e un diritto universali. L’analisi di suddetta crisi ha condotto gli studiosi di scienze umane a parlare di postmodernità e a definire dunque l’epoca in cui stiamo vivendo come “ultramoderna” o “tardomoderna”. La modernità avrebbe dunque raggiunto il suo termine con l’ingresso e la diffusione di un’incredulità nei confronti delle grandi narrazioni, ossia con la delegittimazione di quelle prospettive generali di senso che hanno determinato le credenze e i valori della cultura occidentale moderna: tra queste, soprattutto il racconto ottimistico del progresso come illimitato miglioramento delle condizioni di vita. I fautori del postmoderno hanno negato la validità di saperi oggettivi e universali, riconoscendo solo l’autenticità di conoscenze contingenti, frammentarie e relative; si parla infatti di contestualismo o di decostruzionismo. In Italia al concetto di postmoderno ha dedicato particolare attenzione il filosofo G. Vattimo: egli ha elaborato la nozione di “pensiero debole” per definire l’atteggiamento filosofico che ha preso atto della dissoluzione delle forti certezze e dei valori assoluti. Anch’egli sottolinea così che, se la modernità è stato il tempo dei grandi sistemi di pensiero, della ricerca fiduciosa della verità, delle credenze granitiche e condivise, la postmodernità ha inteso essere esattamente l’opposto: appunto il tempo del pensiero debole, dove i grandi orizzonti di senso si sono frantumati in tante prospettive e dove la ricerca della verità non può che apparire del tutto priva di senso.

Certamente, non si può disconoscere che l’esperienza postmoderna ha fatto emergere il valore delle diversità, della coesistenza di culture, tradizioni, luoghi, persone e abitudini differenti, che – come già accennato – segna oggi stabilmente i mondi dell’educare. Tuttavia non si può nemmeno nascondere che l’insistenza sull’aspetto frammentario ed effimero tanto della realtà quanto del

sapere umano rischia di rendere impossibile qualsiasi tipo di azione o pensiero sensati: seguire il postmoderno sino alle sue estreme conseguenze ci porta a non poter che registrare e accettare la complessità della realtà, solo come un insieme caotico di immagini e rappresentazioni che non rinviano a nulla oltre che a sé stesse. I più recenti fatti di violenza, molto globale e molto locale insieme, fanno venire alla luce il fatto che negare sul piano teorico qualsiasi pretesa di validità equivale a rendere impraticabile sul piano pratico qualsiasi tipo di lotta non violenta per il bene delle persone e per la giustizia. In altri termini, se non esistono fatti ma solo interpretazioni, come si possono avere strumenti per affermare con il logos (e non con la forza bruta) la maggior validità di una posizione piuttosto che di un’altra? C’è chi, come Habemas, al te...


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