Lo specchio di Liala - saggio PDF

Title Lo specchio di Liala - saggio
Course Storia romana
Institution Università degli Studi di Milano
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Estratto da Livelli e Linguaggi letterari nella società delle masse, Trieste, Lint edizioni 1985 Atti del Convegno Trieste 1983.

LO SPECCHIO DI LIALA Giovanna Rosa (Università Statale Milano)

«Tutto era attorno a lei in quella visione di delirio» (Trasparenze di pizzi antichi)

La narrativa rosa è considerata e presentata per lo più come una galassia soffusa ma compatta, composta di prodotti simili, per non dire uguali, senza spessore storico né tensioni interne, a cui corrisponderebbe una fruizione altrettanto vaga ma uniforme, eterodiretta e alienante, anch’essa estranea alla storia, o che è lo stesso, tutta appiattita sui riferimenti immediati del quadro ideologicosociale. Per il primo aspetto, in piena sintonia con una prospettiva che la riflessione più recente si è incaricata di svelare in tutta la sua falsità mistificante, la storia delle donne e della loro esperienza culturale non conoscerebbe mutamenti, fissata com’è entro parametri «naturali» eternamente statuiti. Per il secondo, un sociologismo volgare, avvalorando comunque la passività inalterabile della condizione femminile, propone una corrispondenza diretta fra lo sviluppo del genere rosa e l ’età del fascismo, oppure fra il successo di Harmony e il tempo del «riflusso». La rozzezza di simili schemi interpretativi si condanna da sé: vale piuttosto la pena di sottolineare la consonanza di queste letture con una concezione della critica letteraria che, estranea a ogni prospettiva relazionale e funzionalistica, vanifica di fatto la complessità costitutiva delle dinamiche narrative. Se poi ci si riferisce al più paradigmatico dei generi paraletterari, allora tutto si tiene con ancor maggiore rigidità: passività del soggetto femminile e fruizione alienata di sottoprodotti inestetici si potenziano vicendevolmente all’insegna, separata e discriminante, del «rosa». In realtà, un ’analisi non pregiudiziale di queste opere vale subito ad incrinare i luoghi comuni con cui la maggior parte dei detentori del gusto analizza la produzione paraletteraria: la preminenza dei fattori contenutistici, cui corrisponderebbe il «grado zero» della scrittura; l’esito rasserenante e consolatorio della trama, al di là di ogni dialettica fra récit e conclusione; infine, l’irrilevanza della figura dell’autore, offuscata, insieme con le sue scelte stilistiche e ideologiche, dall’opacità della serie. L’importanza anche teorica di quest’ultimo elemento, che il successo delle più recenti collane sembra confortare, impone, per contro, una lettura storicamente orientata della produzione rosa, collocata finalmente all’interno del più ampio e articolato sistema letterario. Ad esserne illuminato non sarà tanto il «dissolvimento» della figura dello scrittore nell’«immaginario “romanzesco” socializzato e massificato», per usare le espressioni di un recente saggio di Abruzzese, quanto piuttosto l’originalità peculiare di ogni atto di scrittura inventiva. In quest’ottica, concentrare l’attenzione su Liala, la firma rosa per eccellenza della nostra narrativa, varrà a districare alcuni nodi di una produzione cinquantennale, e a chiarire, nel contempo, questioni complessive della morfologia di genere. 1

Ripartire da Liala significa, innanzitutto, rifiutare l’anonimato a cui spesso è ridotto il «rosa», evitare falsi parallelismi fra oggetti incomparabili, mettere finalmente in gioco le interrelazioni fra progetto testuale e fruizione, individuale e collettiva. Il richiamo alla storicità intrinseca del mercato e alla complessità articolata dell’orizzonte d’attesa offre il criterio d’analisi più pertinente per impostare il discorso sul piano qualificante delle scelte morfologiche e strutturali entro cui agisce il codice genetico della produzione rosa. Ad essere messa subito in rilievo è la incongruenza, teorica ed esplicativa, di definizioni ontologiche, fondate sulle componenti ideologiche; come giustamente ricorda Pozzato: Se si cerca di capire quali sono le proprietà implicate necessariamente in una definizione del genere rosa, le cose diventano più difficili. Non si va oltre, infatti, alla seguente formulazione: il romanzo rosa è un romanzo sentimentale a lieto fine: come si vede, è una definizione troppo generica: molti capolavori della letteratura mondiale sono a carattere sentimentale e a lieto fine.1

In realtà, quella definizione, al pari delle etichette focalizzate sulla «mielosità» delle vicende o sugli elementi di evasività consolatoria, è poco pertinente e fuorviante. Per cominciare a circoscrivere la nostra produzione all’interno del sistema letterario vale piuttosto un primo canonico parallelo con un altro genere coevo e istituzionalmente affine: il giallo. Certo, le due indicazioni di colore non sono equiparabili: mentre per la serie Mondadori il marchio rimanda alla scelta editoriale delle famose copertine, il rosa è tale in nome di una pluralità sfocata di connotazioni che derivano dal più diffuso e convenzionale senso comune. Anzi, entro la sfera della mediazione editoriale i due generi si fronteggiano: non solo, in quella stagione, nessuna collana definisce il “rosa”, ma per paradosso illuminante, Signorsì di Liala appare nei “libri azzurri”, “Romanzi e novelle dei migliori autori italiani”, allineato a Una donna di Sibilla Aleramo, a Tozzi e Bontempelli e pure a Eva e Storia di una capinera di Verga L’antitesi giallo/rosa allora designa, piuttosto una precisa area di fruizione, all’interno di un orizzonte d’attesa ormai pluristratificato. Se i libri gialli, come ricorda Oreste del Buono, che se ne intendeva, “si inseriscono in un’offerta per intellettuali, per un certo ceto medio che si sente già intellettuale”2, per la produzione lialesca, il marchio rinvia a una specifica utenza diventando il reale criterio di individuazione del genere: il romanzo rosa si configura, cioè, come l ’universo totale e separato della lettura femminile. Questa separatezza, più volte sottolineata dalla critica – non a caso in maggioranza femminile – chiede, nondimeno, di essere verificata ben al di là di una semplicistica interpretazione contenutistica o sociologica: ad essere coinvolte nell’analisi sono sia le articolazioni del sistema letterario sia soprattutto le unità morfologiche che promuovono l’ascesa del genere. Il rapporto privilegiato, per non dire vincolante, fra autrice e lettrice, accentuando la circolarità chiusa del patto narrativo, diventa la prima regola di formalizzazione del testo, determinandone nel contempo la collocazione storica all’interno del moderno mercato delle lettere. Il romanzo rosa, sub specie lialesca, si afferma, allora, come un prodotto tipico dell’organizzazione novecentesca della civiltà letteraria, a cui tuttavia si contrappone per il recupero di un codice antirealistico e preborghese: l ’ordine formale e assiologico della passione e del sublime. In questa sorta di contraddizione statutaria trova la sua radice il successo pluridecennale della produzione romanzesca dell’autrice varesina; da essa deriva quella assolutezza visionaria che coinvolge tutti i livelli della strategia compositiva. Nella condanna sommaria del genere si è spesso sottaciuto il tono di modernità novecentesca che è costitutivo del prodotto «rosa». In un’interessante intervista di Spinazzola a Brunella Gasperini, entrambi gli interlocutori sottolineano l’appartenenza della maggior parte delle autrici «all’area socioculturale più evoluta d’Italia»: La Peverelli è milanese, io pure; Scerbanenco era naturalizzato milanese, così Veronica Fante; Sara 2

Evangelisti è bolognese, Luisa Marchi genovese, Maria Grazia Longhi ha girato mezza Italia ma credo sia settentrionale.3

Così è per Mura, che nata a Bologna aveva studiato a Torino, così è infine per Liala, la cui vita è tutta circoscritta nel triangolo Como-Varese-Milano. I riferimenti alla storia editoriale corroborano le osservazioni socio-geografiche richiamate nell’intervista. Quando Signorsì esce per i tipi Mondadori (1931) la casa editrice milanese è in piena fase espansiva: le operazioni di sviluppo tecnico-organizzativo si intrecciano alle proposte di ammodernamento culturale caratterizzate dall’avvio e sviluppo delle collane di alta e media letteratura – La biblioteca romantica, I libri verdi, Le scie, I romanzi della Palma, gli Omnibus, Medusa e infine lo Specchio; il successo indiscusso del libro giallo, apparso alla fine del ’29, favorisce l’acquisizione di «Topolino» (1935). Il mercato delle lettere è davvero a una svolta cruciale: la ristrutturazione degli apparati editoriali incontra e potenzia il consolidamento di un sistema d’attese, che si fa sempre più complesso e stratificato. In questa contingenza storica e culturale, si colloca l’uscita del primo romanzo lialesco. L’identità di un pubblico piccolo-borghese di media acculturazione, costituito per la maggior parte da donne, vale subito a evocare i modelli di gusto allora dominanti: l ’opera di Liala, in prima istanza, potrebbe essere definita la risposta «femminile» alla letteratura «peccaminosa» degli anni Venti, da Guido da Verona a Pitigrilli e Annie Vivanti. Alle vamp, ai veleni voluttuosi esibiti da questi autori che puntano alla provocazione del gusto, la scrittrice oppone un prodotto, per molti versi simile, ma all ’apparenza privo di quelle “perfidie” che mal s’addicevano alla buona educazione delle mogli-madri italiane: una sorta di rifondazione novecentesca di quel gineceo narrativo a cui per prima aveva dato vita Carolina Invernizio, quando al superuomo popolare aveva sostituito una «società di supereroine», secondo le suggestive indicazioni di Umberto Eco4. Se il richiamo alla narrativa dei primi decenni del secolo XX vale a rammentare l’estetismo dannunziano quale sottofondo costante a tutta la prosa lialesca, a partire dagli echi palesi nelle scelte paratestuali dei titoli, il nome dell’Invernizio evoca il prototipo femminile dell’appendicistico Bacio d’una morta, dove la protagonista Clara assolve contemporaneamente tutte le funzioni tipiche del ruolo femminile (madre, moglie, sorella, amante). Nel contempo, quella figura dominante di femminilità suggerisce il tratto moderno di una morfologia che punta a oscurare l’offerta ormai obsoleta dei libri raccolti nelle “Collane per Signorine”, per i tipi Salani. In prima istanza a caratterizzare il genere, allora, non è la sentimentalità dei contenuti o della trama amorosa, sì piuttosto il sistema attanziale dei personaggi, che avvalora la circolarità chiusa e separata della narrazione. È, appunto, in forza di queste caratteristiche che il prodotto rosa di Liala dichiara il suo carattere novecentesco. Il confronto ravvicinato con il giallo acquista ora maggior pertinenza interpretativa: la contemporaneità di date e la selezione dell’utenza hanno radici nel processo di divaricazione pubblico/privato che secondo Habermas è tipico di ogni società borghese sviluppata5. Se, per l’Italia, l’avvio tardo di questa scissura risale al secolo scorso, l’istituzione letteraria ne viene investita direttamente solo nei primi decenni del Novecento. Negli anni Trenta, quando il mercato delle lettere intraprende la strada della modernità di massa, anche il sistema della fruizione si amplia, scomponendosi in sottoinsiemi specialistici. In quest’ottica, «rosa» e «giallo» si rimandano contrapponendosi e la frattura pubblico-privato si invera all’interno dell’orditura testuale. Nella «detective story», la vicenda si avvia quando un elemento esterno infrange l’equilibrio io/collettività, mettendo in crisi i pilastri della vita consociata, a partire dalle norme sociali del diritto di proprietà. Per contro, il «rosa», sviluppandosi nel rispetto della stessa divaricazione, si chiude tutto dentro le pareti del privato, penetrandone la zona più riposta: lo spazio dell’intimità. L’omologia strutturale profonda che sorregge entrambi i generi paraletterari, avventure di misteri e d’amore, germina da questo elemento contestuale. I prodotti destinati ad un consumo generalizzato acquistano specificità nel rimando a fasce di utenza differenziate a cui, peraltro, fanno appello con un messaggio diverso ma complementare: suscitare le pulsioni primarie dell’immaginario collettivo per riportarle all’osservanza più o meno imperiosa dell’ordine etico-sociale. Così al disordine e alle 3

efferatezze, che la trama si incarica di esemplificare con esaustività sgangherata, segue il ritorno rassicurante alle certezze proclamate in extremis, nella conclusione appunto. Se alla fine del giallo a trionfare sarà il rigore della legge, nel «rosa» è il sistema dei valori patriarcali ad essere ripristinato; in entrambi i casi, però, il richiamo all’autorità, pubblica e privata, sarà tanto più esibito quanto maggiore sarà stato lo sfrenamento delle pulsioni aggressive: e l’eros, soprattutto se vissuto senza concessioni al principio freudiano di realtà o ai dettami marxiani di necessità, al di là quindi di ogni vincolo sociale, può costituire una minaccia ben più pericolosa dell’istinto di morte. Da questa difformità schizoide, il romanzo rosa di Liala ricava i motivi di maggior interesse. Questa sorta di «pedagogia del peccato», aggiornamento femminile dell’ottocentesca «pedagogia del terrore» comune a tanti romanzi popolari, trova il suo terreno ideale nel protetto mondo domestico: grazie ai caratteri borghesemente «separati» del genere, l ’ordine che le tensioni sado-masochiste infrangono, può pretendere di ricomporsi con la sanzione di una felicità tutta privata. La coincidenza dell’intero mondo romanzesco con l’intimità, nel momento in cui avvalora lo statuto borghese delle lettrici quali «cittadine inesistenti», perché prive di ogni connotazione storica e sociale, impone sul piano fondamentale dell ’intreccio e delle coordinate spazio-temporali un’altrettanto rigida separatezza. L’universo circoscritto della trama rosa chiede, innanzitutto, che la protagonista attiva della vicenda sia una donna: ciò non significa, ovviamente, che nei romanzi di Liala manchino personaggi maschili – che, anzi, vi si affollano con il marchio della virilità più sfacciata – ma piuttosto che a condurre il gioco sia sempre la donna, figura dotata di dinamismo e vitalità. La piena affermazione dell’io femminile, si attuerà, certo, nel porto sicuro della casa comune: ma l’iniziativa, e dunque la molla dell’intreccio, è sempre appannaggio della protagonista-donna. Se il romanzo rosa si fonda sul «confronto polemico» uomo-donna, come ha illustrato Pozzato,6 a derivarne è l’esaltazione parossistica di una femminilità attiva che si affida alla propria istintività sensuale per adempiere il suo compito ultimo: sedurre il maschio. Vi è una sorta di esasperazione sessuale nelle opere di Liala: quanto più la donna aspira a sottomettersi all ’autorità virile, rifugiandosi alla fine di mille peripezie nelle braccia sicure dell ’uomo, tanta maggior energia seduttoria deve spendere per conquistarlo: è il maschio, in fondo, il vero oggetto del desiderio nella narrativa rosa. La sentiva palpitante: fresca e ardente a un tempo. E di lei sentiva tutta la passione e soprattutto la inconfessata sensualità che tutta l’avvolgeva e che, lei inconsapevole, la consumava. Come era donna e donna d’amore la giovane creatura! Quale meravigliosa offerta di se stessa gli portava! E come sarebbe stato bello chetare la sete di quella giovane bocca! Gli era tutta vicina ed egli sentiva che la fanciulla tratteneva il respiro quasi temesse, con il suo fiato fresco e odoroso di sciupare l’incanto meraviglioso di quell’attimo. E tuttavia ella pareva intenta a sprigionare da sé il più dolce e più potente profumo d’amore quasi a sperare che da quel profumo l’uomo fosse travolto e annientato. Ma ancora una volta l’uomo vinse, né il profumo d’amore lo travolse. Si sciolsero le braccia di lui ed ella ancora si sentì sola, invasa da un freddo misterioso, sfinita come dopo una lotta. [Il peccato di Guenda, p. 65-66]

Meglio si spiega, allora, perché lo schema tipico dell’intreccio lialesco sia fondato su un triangolo «capovolto»: una donna fra due uomini. Il caso di Beba, la prima che si dibatte fra Furio e Mino (Signorsì), si replica: Yvelise era ferma tra i due uomini. E li guardava [Trasparenze di pizzi antichi, p. 88] Tra i due uomini, Sisinnia, immobile, ergeva la sua fiera e bella testa bruna. [Brigata d’ali, p. 178]

Spesso per non dire sempre, i due sono amici per la pelle; la donna, con la sua carica di sensualità fascinosa, diventa motivo di disordine e conflittualità. Ma è appunto in nome di questa dote istintivamente naturale che essa può pretendere di condurre la vicenda. 4

– Milo? Antonello? Può l’uno o l’altro diventare mio marito? (...) Intransigente e severo Antonello: sorridente e scanzonato Milo. Due pupille severe Antonello: due occhi ridenti Milo. Un ardore indomabile nel più giovane: una pacatezza paterna nel più anziano. Un bisogno di sfuggire alle mani di Milo, che pure erano tanto care; un bisogno di abbandonarsi alle mani di Antonello, che pure non si tendevano. Due uomini, due caratteri, due temperamenti: due grandi nomi, due blasoni, due contee. [Trasparenze, p. 147]

Accomunati sul piano sociale dalla nobiltà e dalla ricchezza, i due uomini assurgono a modelli di una mascolinità che affascina e spaventa le nostre eroine. Eternamente in bilico tra la tutela protettiva dell’uomo-padre, la cui autorità è garanzia inalienabile di benessere e sicurezza, e l’appassionato ardore dell’uomo-amante, che allude al piacere di una virilità incontenibile, le protagoniste rosa consumano la loro vita e il discorso che le narra, in un turbinio di insensati dilemmi, di inconsulte decisioni subito rinnegate: – Ma la signorina può, con indifferenza, andare con il conte Antonello o il conte Milo? (...) – Io voglio tanto bene a Antonello: ma accanto a Milo sono tranquilla. Sento una tenerezza profonda, sincera e devota, per Antonello, ma se penso a un bacio voglio che questo bacio venga da Milo... E ancora, ancora... [Trasparenze, p. 370]

Con un masochismo degno del più canonico manuale di psicologia femminile, Yvelise sposerà Antonello, anche se poi alla fine vivrà felice e contenta con Milo. Questa duplice soluzione che permette, grazie alle peripezie demenziali della trama, di «consumare» entrambi i modelli maschili, è uno dei trucchi più subdolamente geniali a cui le opere più famose di Liala devono il loro clamoroso successo. Poco importa che lo schema si ripeta con sfumature appena percettibili in Signorsì, Settecorna, Brigata d’ali, Il profumo dell’assente, sia implicito nella Trilogia di Lalla, Gelsomini del plenilunio: ciò che conta è l’iteratività di una situazione che conferma la protagonista soggetto attivo di seduz ione in quanto «donna, solamente donna, colma di una femminilità che la rende luminosa» (La sublime arte d’amare). Certo, la brutalità volgare di alcuni pretendenti che si lasciano trascinare dagli infuocati «appetiti della carne» – e anche qui l’esemplificazione è variegata – parrebbe incrinare il primato femminile, ma in realtà ne avvalora la carica di autentico erotismo. Il corpo della donna protagonista non può né deve essere posseduto: a crollare sarebbe non tanto la saldezza del codice d’onore quanto la tenuta fabulatoria del racconto, il cui sortilegio sta nella ridondanza di scene che ribadiscono l ’inviolabilità di un corpo fatto per sedurre. Il rifiuto di cedere agli assalti virili e di abbandonarsi nelle braccia dell’uomo desiderato, se preserva la purezza verginale delle protagoniste, soprattutto permette loro di continuare a sollecitare il desiderio maschile: Il piacere, tipicamente isterico, di sedurre e poi negarsi è adombrato in tutti questi casi in cui, per un motivo o per l’altro, il desiderio dell’uomo è provocato e descritto nella sua frustrazione.7

La supremazia femminile, beninteso, in tanto riesce vincitrice in quanto combatte per ripristinare l’ordine familistico voluto dall’autorità pubblica del potere patriarcale. Ancora una volta, tuttavia, è nel rapporto ambiguo fra récit e conclusione che si attua il gioco delle parti, e non è affatto detto, anzi, che presso le lettrici a prevalere sia il messaggio finale. La carica di conservatorismo greve che permea i romanzi di Liala va rinvenuta sin d’ora non già nella sottomissione conclusiva della protagonista al trionfo d’amore – pera...


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