Luigi Pirandello - Voto: 10 PDF

Title Luigi Pirandello - Voto: 10
Course Italiano Quinto Liceo Scientifico
Institution Liceo (Italia)
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Summary

Interessante saggio di approfondimento sulle parole dell’ultima Intervista rilasciata da Pirandello su “Il Tevere” del 7-8 Ottobre 1936 , in cui esplica il suo concetto di "intervista come prigionia della forma " e "intervista come strategia di comunicazione" ....


Description

LUIGI PIRANDELLO A) L’INTERVISTA COME PRIGIONE DELLA FORMA

“L’uomo, dice Pirandello, è la bestia più infelice perché è complicato e il risultato è che se canta una calandra, se canta un cardellino, tutte le calandre, tutti i cardellini del mondo, e sono tanti, subito li capiscono, e magari rispondono e mille voci si intrecciano in coro. Invece l’uomo, con tutta la sua intelligenza e sapienza, con tutte le sue lingue e dialetti, se prova a farsi capire, sia pure da un altro solo uomo, non ci riesce.” Sono - queste – le parole dell’ultima Intervista rilasciata da Pirandello su “Il Tevere” del 7-8 Ottobre 1936, le parole che fissano in maniera epigrafica il tema dell’incomunicabilità , ovvero proprio il tema dell’antitesi del giornalismo e del suo modus dicendi, l’intervista. Eppure, Pirandello rilasciò interviste fino agli ultimi momenti della sua vita, proseguendo nella succitata intervista con il progetto del “suo libro testamentario”- Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra, si sarebbe dovuto intitolare. Ma, Pirandello non potè scriverlo e il suo proposito rimase consegnato all’ultima Intervista e a poche righe di un comune foglietto trovato dai figli . “Mie ultime volontà da rispettare I. Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. II. Morto, non mi si vesta. Mi s'avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. III. Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta.

IV. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere, perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l'urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra della campagna di Girgenti, dove nacqui”.

Luigi

Pirandello

La sua ultima intervista possiamo leggere, ora, grazie a Ivan Pupo al termine di Interviste a Pirandello, Ed. Rubbettino, 2002, pp. 651, il volume che raccoglie un centinaio di interviste (oltre la metà di quelle di cui il curatore, Ivan Pupo, dà notizia) rilasciate dallo scrittore alla stampa italiana dopo il 1902 e, per lo più, dopo il 1921, l’anno della celebrità raggiunta con la rappresentazione dei Sei personaggi in cerca d’ autore. Tra gli intervistatori di Pirandello figurano personaggi divenuti anch’essi celebri, scrittori e critici o giornalistiscrittori da Pier Maria Rosso di San Secondo e Corrado Alvaro a Silvio d’Amico o, ancora Goffredo Bellonci e Orio Vergani. E, dietro a loro, tanti altri navigatori dell’onda breve della cronaca giornalistica, sorpassata e travolta dalla marea della storia letteraria: nomi magari celebri, allora ma, oggi, sconosciuti protagonisti di Quella “mostruosa macchina del giornalismo” alla quale Pupo dedica un’introduzione ricca e puntigliosamente documentata. Infatti, nella “mostruosa macchina del giornalismo”, come poteva Pirandello, lo scrittore del relativismo e dell’incomunicabilità, l’autore di Uno, nessuno e centomila, il drammaturgo che sottolineava l’esistenza di tanti Pirandello diversi nelle diverse recensioni dei critici, confidare nel mondo della comunicazione di massa, banalizzata oltre che, in parte inevitabilmente, distorta? Come poteva affidare ad esso la propria parola e la propria immagine? Nel romanzo Suo marito del 1911 la protagonista, la scrittrice Silvia Roncella “si era scoperta un’altra [… ] di fronte a quel

giornalista. Si era sentita felice anche lei di parlare, parlare… E non sapeva più che cosa gli avesse detto. Tante cose! Sciocchezze?. Forse…ma aveva parlato, finalmente!”. Pirandello, che in quegli anni era ben lontano dalla celebrità, auspicava probabilmente quella profusione di interviste che, quando fosse diventato qualcuno, sarebbe finalmente arrivata, ma che avrebbe diffuso una serie di immagini nelle quali l’autore non si sarebbe riconosciuto. L’intervista sarebbe diventata, allora, la prigionia della Forma, l’immagine riflessa di un fantoccio di se stesso: il fantoccio che in Quando si è qualcuno, una delle sue ultime opere teatrali, il protagonista, l’indefinito celebre scrittore e trasparente alter-ego pirandelliano, immagina di presentare ai visitatori e agli intervistatori, per fargli ripetere, grazie a un grammofono posizionato nello stomaco, “tutto quello già fissato “che ho l’obbligo di ripetere a vita. Non perché l’abbia detto io; perché me l’hanno fatto dire gli altri! Cose che non mi sono sognato di pensare”. Eppure, proprio grazie all’intervento giornalistico del 1995, l’attuale critica letteraria dei nostri giorni, deve la riscoperta dei Taccuini di Harvard e Bonn. Pirandello non si sarebbe, forse, sorpreso di fronte al titolo (“Il sesso nel taccuino”) con cui “L’Espresso”, nel 1995, anticipava la pubblicazione di un Taccuino inedito, allora ritrovato. Lo avrebbe giudicato una forma, per di più incongrua, in quanto banale e scandalistica, per imprigionare la Vita della scrittura. Proprio nei Taccuini ,infatti, la Vita, poi dal Tilgher contrapposta alla Forma, trovava la prima e più immediata espressione. Uno di questi scritti è - fino agli anni Novanta inedito- il Taccuino di Harvard, ora conservato alla Houghton Library della Harvard University, comprato da un noto libraio

antiquario newyorkese per affiancarlo alle altre carte pirandelliane in essa conservate (tra le quali spicca il manoscritto del Fu Mattia Pascal). Il taccuino di Harvard è stato oggi pubblicato a cura delle studiose Ombretta Frau e Cristina Gragnani. L’altro Taccuino è quello di Bonn, che riemerse nel 1995 dall’archivio degli eredi di Lucio D’Ambra, lo scrittore e giornalista amico e vicino di casa di Pirandello, suscitando un certo clamore, perché, messo all’asta da Christie’s, senza il provvidenziale intervento del Ministero dei Beni culturali, avrebbe preso la strada di qualche ricca Biblioteca o Fondazione straniera, ovvero la strada già presa dal Taccuino di Harvard. Oggi il Taccuino di Bonn, databile agli anni 18971902, è stato pubblicato a cura di Annamaria Andreoli, con il titolo di Taccuino segreto. L’attenzione dedicata oggi ai Taccuini si spiega 1) anzitutto , come importante testimonianza del laboratorio creativo di Pirandello, in cui si possa, talvolta, entrare, guidati da lui stesso, per seguire l’ ideazione o l’elaborazione di opere quali Il Fu Mattia Pascal e Uno, nessuno e centomila, novelle quali Liolà, così come di lavori che rimasero incompiuti o allo stadio di puri progetti, dai Giganti della montagna e La moglie di prima ad Adamo ed Eva, il romanzo al quale è dedicata un’intera intervista realizzata nel 1926 dal figlio Stefano. 2) Inoltre, la conoscenza dei Taccuini è legata alle vicende degli studi pirandelliani, che solo da pochi anni hanno inaugurato, dopo decenni di una sovrabbondante messe interpretativa, una nuova stagione di studi filologici, attenti alla storia ed alla ricostruzione dei testi. Infine, 3) l’esistenza dei Taccuini, pur nota dal 1934, quando Corrado Alvaro ne pubblicò alcune parti, spiega le vicende

connesse alla proprietà dei manoscritti, alla loro ‘accorta’ o ‘disaccorta’ conservazione, alla loro dispersione, che di molti di essi ha fatto perdere le tracce.

B) L’INTERVISTA COME “STRATEGIA DELLA COMUNICAZIONE” L’interpretazione dell’”intervista” come “strategia della comunicazione” è una delle ultime novità critiche della lettura pirandelliana e si deve allo studioso Ferdinando Taviani, che ha pubblicato(2006) nei mondadoriani Meridiani il saggio introduttivo Saggi e interventi con un intervento di Andrea Pirandello. Il volume antologizza pezzi critici e accademici, recensioni e interventi pubblicati da Pirandello in vita e da lui firmati.

Il volume raccoglie gli scritti compresi tra il 1890 e il 1908, apparsi in “La critica” “Il Giornale di Sicilia” “Ariel” “Rassegna settimanale Universale”, poi “Minerva”, “Il Marzocco” “La Nuova Antologia”, con i due testi del 1908, L’Umorismo e Arte e scienza. Si articolano nella seguente struttura :

La minaccia di una fama divaricata. Cronologia. Nota all’edizione. I. Il mestiere del letterato (18901908). II. I due libri del 1908. III. a. Dalla provincia letteraria alle capitali del teatro (1909-1925). IV. Grande scrittore nel mondo dello spettacolo (19261936)

Benché “collaterali” rispetto alla sua grande produzione drammaturgica e narrativa, oltre a colmare un’ annosa lacuna editoriale, essi costituiscono nel loro insieme un importante documento per ricostruire una vicenda centrale nella letteratura italiana e nel teatro mondiale: scandiscono infatti e commentano la grande carriera del drammaturgo, rispondono a esigenze di giustificazione e difesa dell’opera, sono al servizio di strategie e tattiche da lui messe in atto sapientemente. La raccolta, che tra l’altro evidenzia il ruolo della collaborazione non servile del figlio Stefano, si presenta anche come opera di critica letteraria, sostenuta com’è dalla forte interpretazione che di questi scritti e del loro significato di “strategia della comunicazione” dà Ferdinando Taviani. Pirandello fu oggetto nel suo tempo di polemiche fra difensori e oppositori, anche perché i suoi avversari non riuscivano ad ammettere facilmente di trovarsi al cospetto di una svolta di così grande rilievo nella nostra vicenda letteraria. Basterebbe ricordare che uno dei capi d’accusa relativi al saggio sull’umorismo fu quella- ricordata da Taviani in apertura del saggio introduttivo – di aver presentato il suo scritto “di spalle, come dire che era stato messo insieme a rovescio. Pirandello era perfettamente d’accordo con questa interpretazione, la seconda parte doveva essere la prima e viceversa. La chiave di questa ammissione fa riflettere sull’intera natura dello scrittore, assieme a Svevo uno dei due più convinti innovatori di una letteratura ormai lontana dalle istanze

romantiche, e tutta proiettata verso il conflittuale confronto fra l’individuo e la sua ombra, fra l’essere e il sembrare :

“E mentre il sociologo descrive la vita sociale qual essa risulta dalle osservazioni esterne, l’umorista armato del suo arguto intuito dimostra, rivela come le apparenze siano profondamente diverse dall’essere intimo della coscienza degli associati” (L’umorismo)”

Dei mutamenti della letteratura occidentale Pirandello è perfettamente consapevole. In un articolo “Il mestiere del letterato”, scritto fra il 1898 e il 1907 con determinazione egli definisce i termini chiari e netti del rapporto tra Romanticismo e Decadentismo : “Dopo il glorioso risorgimento letterario e artistico della Germania, la Francia ha tenuto innegabilmente il primato nelle lettere e nelle arti per quasi tutto il secolo, grazie all’intensa e varia fioritura di tanti spiriti eletti”.

Pertanto, Pirandello vuole sottolineare verso quale mutamento sia andata indirizzandosi la letteratura occidentale, una volta messo da parte l’incantamento romantico al cospetto delle forme. Quanto abbia contribuito a determinare il disincanto e il conseguente privilegiare un relativismo sempre più drammatico e traumatico nasceva dall’esigenza di dover difendere il ruolo della propria sopravvivenza di coscienza critica della crisi, (si ricordino a tal proposito i saggi di Arcangelo Leone de Castris su Pirandello e Svevo), piuttosto che la torre d’avorio in cui altri artisti si erano rifugiati. Ancora, si deve sottolineare la consapevole dichiarazione dei motivi ispiratori dell’arte “umorista”, che rese per molti anni incomprensibile ai più il significato nuovo e rivoluzionario dell’arte pirandelliana all’interno del Decadentismo. Pirandello, infatti, mette in guardia i suoi lettori dal pericolo di esagerare nelle emozioni e di diffidare subito della commozione romantica alla prima vista di un’opera d’arte, che ci colpisca in modo particolare:

“Ogni

vera opera d’arte racchiude in sé la concezione particolare che l’artista ha della vita, espressa in un mondo proprio e particolare”

Quando si trova al cospetto delle novelle di Marcel Prèvost, prova certo un’emozione forte e violenta, ma subito rattenuta :

“Non

abbiamo finito di leggere la prima riga, che un’esclamazione ci salta alle labbra: Oh, eccoci nella vita!. Ma abbiamo poi da rallegrarcene? Ahimè no : la vita si presenta così triste, che noi ci sentiamo d’un tratto disposti a spiegarci perché molti artisti d’oggi, interpretando un bisogno quasi comune di riposo e di distrazione dalla vita quotidiana di tante miserie in alto e in basso e di tante brutture, si siano voltati a rappresentar piuttosto il sogno della vita”

Tutto questo è lecito e possibile, ma in questa condizione del vivere e dell’operare la forza creativa risulta “impoverita e inferma, vaneggia e bamboleggia, costruisce puerili castelli, al punto che il rimedio diventa peggiore del male”.

Un altro grande contributo alla chiarificazione dei problemi dell’Estetica del periodo degli albori del Novecento è relativo alla dura polemica con Benedetto Croce a proposito della categoria dell’intuizione al vivo dell’opera d’arte. Pirandello considera il filosofo come chiuso e prigioniero nell’idea angusta dell’intuizione, che gli impedisce di osservare tutta la varietà del fenomeno estetico, non soltanto, ma di cogliere, poi, anche l’idea complessa, organizzatrice di questa varietà. Da qui, la diversità tra i due intellettuali a proposito della sfida tra arte e scienza ( Arte e scienza, cit.), sfida che Pirandello vive in modo totalizzante, scontrandosi con il filosofo. Polemiche di altri tempi, ma che, tuttavia, ritornano con tutta la loro drammatica essenza al tempo nostro, a verifica e riprova : la diacronia e la sincronia fra intuizione e intelletto è ancora oggetto di riflessione e dibattito, guai ad eluderla.!

La particolare considerazione dell’ “intervista” come “forma” in cui viene imprigionato “il flusso della vita” si comprende alla luce del pirandelliano sentimento del contrario. SAGGIO SULL’UMORISMO: CONCEZIONE MONISTICA DELL’ARTE Il saggio, espressione compiuta della poetica di Pirandello, ma anche della sua visione dell’uomo, si divide in una parte prettamente storica sul termine e sulle diverse espressioni dell’arte

umoristica ed in una teorica in cui si delinea il concetto stesso di umorismo, l’essenza, i caratteri e la materia. “Che cos’è l’umorismo?” L’attenzione si sposta sul senso dell’opera d’arte, sul suo non poter essere ridotta a conoscenza: “come ho dimostrato altrove (Arte e scienza, 1908) la conoscenza, sia pur soltanto intuitiva e non intellettuale, non ci può dar altro che un’oggettivazione, la quale può essere soltanto contenuto psichico e non forma, contenuto che l’arte formerà investendolo suriettivamente”. D’altra parte si riconosce all’opera d’arte l’importante funzione di dare ordine e coerenza alle immagini che si pongono innanzi all’autore: “l’opera d’arte è creata dal libero movimento della vita interiore che organa le idee e le immagini in una forma armonioso, di cui tutti gli elementi hanno corrispondenza tra loro e con l’idea madre che le coordina”. La coscienza, insomma, non è una potenza creatrice, ma lo specchio interiore in cui il pensiero si rimira; si può dire anzi ch’essa sia il pensiero che vede sé stesso, assistendo a quello che esso fa spontaneamente. E, d’ordinario, nell’artista, nel momento della concezione, la riflessione si nasconde, resta, per così dire, invisibile: è, quasi, per l’artista una forma del sentimento. Man mano che l’opera si fa, essa la critica, non freddamente, come farebbe un giudice spassionato, analizzandola, ma d’un tratto, mercé l’impressione che ne riceve. E’ la riflessione, però, che assume una funzione peculiare nella comprensione dell’opera d’arte e nello specifico di un’opera umoristica: “la riflessione, durante la concezione, come durante l’esecuzione dell’opera d’arte, non resta certamente inattiva: assiste al nascere e al crescere dell’opera, ne segue le fasi progressive e ne gode, raccosta i vari elementi, li coordina, li compara. […] La coscienza non è potenza creatrice, ma lo specchio interiore in cui il pensiero si rimira. […] D’ordinario nell’artista, nel momento della concezione, la riflessione si nasconde […], è, quasi, per l’artista una forma del sentimento. […]

Nella concezione di ogni opera umoristica la riflessione non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’immagine; da questa analisi, però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: il sentimento del contrario”. E’ il sentimento del contrario la ragione ultima dell’umorismo. Non la semplice constatazione di qualcosa di stridente in un’immagine, che sarebbe comica, ma il sentimento nato dalla riflessione . L’umorismo si presenta allora come un’ “erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta “. Per comprendere il senso di questa “speciale attività” della riflessione che viene a rompere e turbare “il movimento spontaneo che organa le idee e le immagini in una forma armoniosa” si deve comprendere la fluidità della vita, il suo scorrere incessante e perciò stesso non comprensibile secondo schemi fissi e rigide tassonomie: la vita dell’anima dell’uomo è “equilibrio mobile; è un sorgere e un assopirsi continuo di affetti, di tendenze, di idee; un fluttuare incessante tra termini contradditori, e un oscillare tra poli opposti, come la speranza e la paura, il vero e il falso, il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto”. L’uomo allora si maschera di ciò che in buona fede si figura d’essere: è la forma che si dà l’uomo, è il suo tentativo di dare ordine a un mondo disarmonico, attraverso quella Logica, su cui Aristotele scrisse “un leggiadro trattatello che si adotta ancora nelle scuole perché i fanciulli imparino presto e bene a baloccarsi”, che “fissa quel che è mobile, fluido; tende a dare valore assoluto a ciò che è relativo” : “L’uomo delira e non se n’avvede; non può fare a meno di atteggiarsi, anche davanti a se stesso, in qualche modo, e si figura tante cose che ha bisogno di prendere sul serio” . Ma nulla è vero: “manca affatto alla nostra conoscenza del mondo e di noi stessi quel valore obiettivo che comunemente presumiamo di attribuirle. E’ una costruzione illusoria continua”. L’umorista, allora, è chi ha compreso che l’arte rende troppo coerente e troppo ragionevole la vita e la natura e vuole invece coglierne il carattere contraddittorio, osservandola da più

prospettive contemporaneamente: “per l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logiche, così ordinate” come l’opera d’arte vuole farci credere nel momento che crea un carattere, che vorrà essere coerente in ogni atto, attraverso la composizione di elementi “opposti e repugnanti”. L’umorista “scompone il carattere nei suoi elementi”; “l’artista ordinario bada al corpo solamente; l’umorista guarda al corpo e all’ombra, e talvolta più all’ombra che al corpo; nota tutti gli scherzi di quest’ombra, come essa ora s’allunghi ed ora s’intozzi, quasi a far le smorfie al corpo, che intanto non la calcola e non se ne cura” : il comico indissolubilmente legato al tragico in una realtà poliedrica e dissonante. L’arte umoristica costringe a prendere coscienza di un mondo e di un uomo frantumato e scisso, disgregato e lacerante. È l’arte che non è specchio, ma creazione (Ferry, 1990)....


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